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Autore: Nyappy    01/04/2012    8 recensioni
Abbassò lo sguardo sul cartellino al petto del ragazzo.
“Français – Español – English – Esperanto”
Esperanto? Arricciò automaticamente il naso. In che razza di caso umano era incappato?
Avanzò di un altro passo e la sua ombra coprì il ragazzo, che alzò il viso.
Le labbra.
Le labbra furono la prima cosa che lui notò – rosse e piene, proprio come quelle di Giulio – e poi gli occhi. Erano grandi e così scuri da sembrare neri, o forse erano le lenti degli occhiali tondi.
Erano grandi e scuri e tristi.
Il ragazzo lo guardò dal basso e gli fece un piccolo sorriso, quasi timido.
“Fa’ il bravo”

[Prima classificata al contest organizzato dal F.O.Y.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Butte de Montmartre'
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Sacré-Cœur

«Ti piace la città?»
Parigi vista dal Sacro Cuore era un campo sterminato di edifici bianchi. Il sole rendeva l’aria soffocante – ed aver fatto trecento gradini in salita, tra i turisti, con giacca, cravatta e valigetta ancora in mano non era esattamente il massimo.
«Là lontano c’è Notre-Dame» rispose, sistemandosi meglio l’auricolare. Riusciva a distinguere ogni tetto, ogni finestra, e le torri della cattedrale spuntavano dal mare di edifici bassi, lontanissime. «Per ora ho visto solo il quartiere a luci rosse, però.»
Dall’altro capo del telefono, Giulio sbuffò. Eppure gli aveva detto di aver prenotato l’albergo a Pigalle…
«Fa’ il bravo, mi raccomando.»
«Prima non mi avevi detto “divertiti”?» replicò lui con un sorriso. Aveva giusto dato un’occhiata al boulevard principale, una successione infinita di strip club, sexy shop e cinema a luci rosse.
Controllò l’orologio: mezzogiorno. Doveva aspettare ancora due ore per il check-in in hotel. Aveva il disperato bisogno di farsi una doccia e appoggiare quella maledetta valigetta da qualche parte.
«”Divertiti” nel senso “goditi la città”, guardati un po’ di musei e chiese. Fatti un giro al Louvre.» Ecco, Giulio stava entrando in modalità mammina apprensiva «O al d’Orsay. Sbaglio o non ci sei mai andato?»
«Non sbagli.» Si passò una mano tra i capelli scuri, che dopo essere entrati in contatto con l’aereo e la linea blu della metro avevano decisamente bisogno di essere lavati.
Il Sacro Cuore sarebbe piaciuto a Giulio, lui era un fanatico di chiese, da bravo architetto. Era stato mezz’ora a descrivergli, il giorno prima, tutta la facciata della basilica, con un sacco di termini tecnici che lui non conosceva. Peccato che non piovesse, avrebbe voluto davvero vedere le pietre sbiancarsi.
Aveva ancora tutta Parigi davanti agli occhi, dato che la chiesa, per quanto bella, non gli interessava. E poi, l’aveva vista salendo le scale.
«Ehi, Simo» lo chiamò Giulio. Si era quasi dimenticato di essere in chiamata e di averlo dall’altro capo del telefono. «Ti amo.»
Anche se quello era un viaggio più di piacere che per affari.
Anche se entro la fine dell’anno si sarebbe trasferito lì a Parigi, lasciando Giulio in Italia.
Anche se non se la sentivano di mantenere una storia a distanza ma non avevano la forza di lasciarsi, si stavano trascinando fino all’ultimo e faceva male, faceva così male che troncare di netto tutti i rapporti sembrava quasi bello.
Più facile. Meno doloroso. Più vero.
«Anch’io» rispose.
«Ti sto facendo spendere un sacco di soldi, scusa» sospirò l’altro. Quando si preoccupava per quelle stronzate era sia adorabile che irritante.
«Ti chiamo stasera.» Il sole gli picchiava sulle spalle, che facevano quasi male dal caldo.
Giulio schioccò un bacio alla cornetta. «Fai finta che sia con la lingua, mmh?»
«Sissignore.» Si appoggiò una mano sulla camicia e raggiunse alla cieca l’unico pulsante sul filo dell’auricolare. Chiuse la chiamata e lanciò un’ultima occhiata alla città, prima di voltarsi.
La basilica, vista da pochi metri di distanza, era ancora più maestosa. Chissà perché ai francesi piaceva solo da poco – stupidi francesi. Non sapevano nemmeno fare le scale, o erano alte e strette, o basse e larghe, l’ideale per distruggere le ginocchia in entrambi i casi.
Gli ultimi gradini brulicavano di gente, perlopiù turisti. Italiano, francese e spagnolo si mescolavano in un delizioso bailamme cosmopolita – almeno, anche se era impalato sull’ultimo gradino, nessuno lo stava urtando.
La valigetta pesava. Dannate scale e dannati francesi incapaci – poi lo vide.
Quasi nascosto dalle scale bianche, con i capelli castani arruffati da un filo di vento e gli occhiali calati sul viso, un ragazzo era seduto a gambe incrociate su uno zaino.
Aveva steso un panno davanti a sé, con degli oggettini di metallo dalla forma strana, tra i libri disseminati attorno a lui. Teneva del filo di ferro in una mano, che piegava con una pinza.
Quanti anni poteva avere, una ventina? Non aveva nemmeno la barba.
Gli si avvicinò, squadrandolo meglio.
Casacca marrone larga, pantaloni enormi verdi. A righe. Un hippie del cazzo – ma non si erano estinti?
Abbassò lo sguardo sul cartellino al petto del ragazzo.
“Français – Español – English – Esperanto”
Esperanto? Arricciò automaticamente il naso. In che razza di caso umano era incappato?
Avanzò di un altro passo e la sua ombra coprì il ragazzo, che alzò il viso.
Le labbra.
Le labbra furono la prima cosa che lui notò – rosse e piene, proprio come quelle di Giulio – e poi gli occhi. Erano grandi e così scuri da sembrare neri, o forse erano le lenti degli occhiali tondi.
Erano grandi e scuri e tristi.
Il ragazzo lo guardò dal basso e gli fece un piccolo sorriso, quasi timido.
“Fa’ il bravo”
Parigi lo stava facendo diventare un sentimentale del cazzo, però quel ragazzino era sotto il sole di mezzogiorno ad intagliare braccialetti senza nulla da mangiare, su uno zaino vuoto usato come cuscino.
«Hi» lo salutò. «English?»
Il ragazzo annuì, con i capelli sbattuti dal vento che gli finivano sul viso, e lui chiuse un attimo gli occhi per iniziare a pensare in inglese.
«Quanto costa questo?» Allungò una mano ed indicò la prima cosa che vide, un braccialetto di ferro argentato, intrecciato in modo semplice.
«Italiano?» domandò lui, sempre con quel sorriso dolce egli occhi tristi.
«.» Però lui non aveva voglia di far conversazione, voleva solo dargli qualcosa per prendersi un gelato e andarsene.
Il ragazzo si dondolò, alzando il viso. «Mi dispiace, non parlo italiano. Comunque…» inclinò il capo e guardò il braccialetto «quattro euro» disse. Il prezzo di un gelato standard, ci aveva azzeccato, francesi ladri. «Ma per te faccio tre.» Il ragazzo sorrise ancora.
Disgustosamente dolce. Era lo stesso sorriso di Giulio quando si alzavano la mattina, di domenica, e avevano tutta la giornata da spendere assieme.
Tirò fuori il portafoglio dalla tasca della giacca e appoggiò la valigetta a terra. Per fortuna aveva un po’ di monete, il resto del pranzo preso in stazione.
«Lo prendo.» Anzi, aveva cambiato idea.
Estrasse una banconota da cinque dalla clip e la porse al ragazzino, poi raccolse il braccialetto e si alzò, davanti agli occhi spalancati dell’altro – nemmeno fosse stata una cifra esorbitante.
Lo salutò con un cenno, si girò ed iniziò a camminare verso la strada che s’intravedeva appena dietro alla basilica, quella che portava a Montmartre. Quel poveraccio con l’esperanto non poteva di certo mangiare.
«Thank you! Grazie, grazie
L’aria di Parigi lo stava facendo diventare davvero sentimentale –ed era atterrato solo da un paio d’ore. Come sarebbe diventato a viverci, un cioccolatino da elemosina compulsiva?

*

“Dio benedica McDonald’s.”
Addentò il suo hamburger e ringraziò ancora una volta il cielo. Anche se l’inglese della ragazza al bancone era orribile, almeno lei ci aveva provato.
Si era accaparrato l’unico tavolino al secondo piano del Mc di Pigalle, dato che aveva dato un’occhiata ai prezzi dei singoli piatti in giro e non aveva voglia di pagare venti euro per mangiare merda. Non che un hamburger fosse meglio, ma almeno il gusto era buono.
Anche se aveva girato un po’ la città, preferiva rimanere vicino all’hotel, dato che le metro non facevano decisamente per lui.
Si sporse per prendere la maionese e “Cazzo che male!” strinse i denti – sembrava che un ago gli fosse penetrato nella gamba, troppo in su per i suoi gusti. Che stava succedendo?
Rinunciò alla maionese e appoggiò la schiena alla sedia, tastandosi i pantaloni. C’era qualcosa di curvo e rigido che faceva tendere il tessuto – il braccialetto che aveva comprato poche ore prima, se ne era completamente dimenticato.
Lo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni e lo osservò. Era un’autentica trappola e alle estremità il filo era reciso di netto, appuntito come un’arma.
Alzò di nuovo gli occhi al cielo, appoggiando il braccialetto sul vassoio di plastica rossa. Gli sarebbe stato pure stretto.
Chissà se quel ragazzino aveva mangiato, alla fine.
Riusciva quasi a sentire la voce di Giulio che lo sgridava “Va’ in bagno a vedere se ti sei fatto male, chissà cosa può avere quel tipo, magari ti sei appena beccato un’epatite…”
Prese la vaschetta della maionese, intinse una patatina e se la ficcò in bocca.
Basta Giulio. Continuava a pensare “basta”, eppure non riusciva mai a tirare fuori le palle e parlargli.
Basta chiamarsi amore, basta vivere assieme, è finita. Tra un paio di mesi mi trasferisco in questa cazzo di città e allora cosa farai? Hai già detto che non vuoi una relazione a distanza.
Stop, basta chiamarsi tutti i giorni, basta domeniche in giro, basta risvegli assieme. Non sarebbe meglio smetterla di fingere che staremo assieme per sempre già da ora?
Cazzo. Farebbe meno male. Mi farebbe sentire meno preso per il culo. Mi darebbe il tempo di accettarlo e poi potremmo sentirci ogni tanto, come vecchi amici, potrei ospitarti quando verrai a Parigi, potremmo andare assieme alla ricerca di porno, dato che abbiamo gli stessi gusti.
Basta Giulio.
Si ficcò in bocca il resto dell’hamburger e chiuse gli occhi. Era un discorso che si ripeteva ogni giorno, lo sapeva quasi a memoria.
Chissà come sarebbe stato vivere davvero senza di lui.
Chissà se quel ragazzino aveva mangiato.

*

Quelle dannate scale.
Il sole le illuminava tutte di rosso – tramonto di merda. Perché diavolo non aveva preso la metro e la funivia? Giusto, non sapeva usare la metro.
Sbuffò e si appoggiò una mano sul ginocchio, aiutandosi a spingere. Aveva fatto più attività fisica quel giorno che nell’intera settimana.
Erano gli ultimi gradini, la basilica si avvicinava sempre di più – ed il ragazzo che parlava esperanto era ancora là, accoccolato sullo zainetto, con i libri sugli angoli del panno per non farlo volar via.
Chissà perché gli importava tanto, poi; probabilmente era figlio di ricconi, si era imbottito di ideologie anni Sessanta ed scappato dalla sua villa per vivere sulla strada.
Stringeva gli occhiali in mano, custoditi come un tesoro, e aveva le labbra schiuse che si muovevano appena – dormiva? Pregava?
Anche se era davanti ad una chiesa, dormire per strada a Parigi era una delle cose più idiote che un ragazzino potesse fare.
«Ehi, you.» Si avvicinò a lui e lo scrollò con la scarpa. «Svegliati
L’altro si girò a pancia in su, con le braccia e le gambe strette al petto e spalancò gli occhi. «Oh.»
«Quanto sei stupido? Non si dorme per strada
E mentre lo rimproverava, immaginando quello che gli avrebbe detto Giulio, non riusciva a staccare gli occhi da quelle labbra che dovevano essere proprio morbide ed erano schiuse e potevano aprirsi ancor di più e chiamarlo. Parigi del cazzo, non era ancora un pedofilo.
«Sorry.»
Quel ragazzo era sdraiato sulla schiena come un gatto, uno di quelli con gli occhioni tristi, bisognosi di coccole.
«Vuoi venire nella mia stanza?» perifrasi né brutale né troppo indiretta.
Forse perché dopotutto il suo albergo era nel quartiere a luci rosse – e lui si trovava davanti ad una chiesa.
Forse perché voleva sperimentare il primo assaggio di vita senza Giulio. La completa, totale libertà dopo tre anni. Dopo un anno di finzione e bugie sublimate.
Erano davvero due coglioni.
«Non sono in vendita.» Il ragazzo alzò a sedere di scatto sullo zaino ed iniziò a raccogliere gli orecchini sul panno. Aveva il capo chino e le guance arrossate, mentre li ficcava nelle tasche.
«No, intendo…» ecco, era in momenti come quelli che si sentiva un vecchio porco senza speranze. Pure pedofilo «ti fai una doccia, mangi qualcosa e poi vai a casa. L’aria sta diventando fredda
Era un salvataggio fatto così in extremis che solo un bambino ci sarebbe cascato.
«Davvero?» L’altro spalancò gli occhi e sorrise.
Oh Cristo. Alzò gli occhi al cielo e si sedette vicino a lui, che aveva smesso di raccogliere la propria roba e aveva le mani intrecciate in grembo.
«Non dovresti fidarti così della gente.» Incrociò le gambe a sua volta, passandosi una mano tra i capelli.
«Perché no?» Il ragazzo iniziò ad sistemare i libri in una pila disordinata.
«Perché potrei farti cose che non ti piacerebbero, che ne sai?» Iniziarono a spuntargli tra i pensieri delle immagini piuttosto vivide. «Questo mondo fa schifo
Il ragazzo scrollò il capo e si sistemò gli occhiali sul viso. «Voglio credere nella gente
«I bambini credono nella gente, poi guardi la televisione e scopri i risultati» replicò subito lui. Televisione, radio o giornali, era la fiera del compiacimento e dei cazzi altrui, con tanto di foto ai resti e articoli pieni di dettagli.
«Ho smesso di guardare la televisione.» L’altro iniziò a torcersi le mani, abbandonando un libro senza copertina davanti a sé. «Voglio credere nel mondo.»
Parigi al tramonto, vista dal Sacro Cuore, era un mare di case che andavano a fuoco, con le torri di Notre-Dame che spuntavano, lontane. Era molto meglio rispetto a mezzogiorno, c’era anche meno gente – tutti a mangiare?
Era un bel panorama. Per un attimo poteva fargli credere nella bontà dell’uomo e nelle sue opere, ma giusto per un secondo.
«Perché?» domandò al ragazzino. Cosa guadagnava nel credere nella gente, cinque euro dati per pietà?
«Perché se non lo faccio, io, chi altro lo può fare?» Questo gli appoggiò una mano sulla gamba e lo fissò attraverso le lenti spesse degli occhiali. «Voglio dire… non che io sia qualcosa di speciale, ma nel mio piccolo cerco di fare qualcosa.» Poi se li sfilò ed iniziò a pulirli nella casacca, a capo chino. «Posso conoscere solo i miei pensieri, non quelli degli altri. Ecco perché sto cercando di fare qualcosa
Tipico discorso da ragazzetto idealista senza conoscenza del mondo. «Quanti anni hai?»
«Ventiquattro» rispose, rimettendosi gli occhiali. Non li dimostrava – lui a ventiquattro anni si doveva già fare la barba ogni giorno. Almeno non era pedofilo.
«Sembri più giovane. Cresci ancora un po’ e ti accorgerai che con i braccialetti in ferro non fai nulla. Hai bisogno di un lavoro, di un tetto sopra la testa, di un letto ed un bagno» gli disse. Gli sembrava di essere Giulio, era il classico discorso che poteva uscire dalla sua bocca «Magari con il bidet, dato che l’hanno inventato qua, francesi del cazzo» si lasciò scappare, in italiano.
«E tu, quanti anni hai?» domandò il ragazzo. Aveva ignorato l’insulto, che doveva essere anche abbastanza comprensibile. Un punto in più.
«Sei più di te.» Si passò di nuovo per istinto una mano tra i capelli, tra i primi fili grigi che iniziavano a spuntare. In momenti come quelli si sentiva schifosamente vecchio.
«Voglio credere nelle persone, io. Dovresti farlo anche tu. Le cose grandi partono dalle persone piccole.» L’altro si sistemò meglio sullo zaino, iniziando a dondolarsi avanti ed indietro.
«Mi hai creduto davvero quando ti ho offerto la mia stanza solo per riposarti un po’?» No, ovviamente.
«» fu la risposta, detta con un tono di voce così innocente da far male.
«Non ci credo. Prima credevi che volessi scoparti e scommetto che per sentirti in pace con te stesso hai fatto un po’ di resistenza.» Così innocente da dargli quasi fastidio.
«Non voglio i tuoi soldi.» Il ragazzo scrollò il capo. Era arrossito di nuovo? Non si riusciva a vedere, con la luce del tramonto «Io non mi vendo
«Non ritiro la mia offerta, sto solo aggiungendo extra. Se vuoi posso evitare di pagarti.» Così innocente da fargli quasi rabbia.
“Svegliati, bambino.” Iniziava ad irritarsi. Non poteva scendere a Pigalle e farsi un giro là, invece di preoccuparsi per quell’hippie del cazzo?
«La gente fa troppo sesso e poco amore. È il secondo che serve al mondo.» Ecco. Ennesimo, tipico discorso da bambino a digiuno dal mondo.
«Non puoi fare l’amore con uno sconosciuto del quale non sai nemmeno il nome.» Si sistemò meglio a sedere, dato che la pietra non era il massimo della comodità ed iniziava a sentire freddo.
«Martin.» Il ragazzo gli porse la mano e lui l’accettò con un sospiro.
«Simone– e rimango uno sconosciuto» precisò. Meglio non pensare al fatto che in Francia quello fosse un nome da donna, ma aveva usato la pronuncia italiana e Martin non sembrava aver voglia di tirar fuori il discorso. Doveva difendere la sua concezione da quattro soldi dell’amore.
«Non t’innamori mai di una persona che ti passa accanto?»
«A casa ho già la persona che amo
Però era davvero comodo conoscere il suo nome, poteva evitare di chiamarlo ragazzino. Aveva sempre odiato chi lo chiamava così – come cambiavano le situazioni.
«E la tradisci così?» Ah, così Martin iniziava ad attaccare?
Lui chiuse gli occhi. «È una storia lunga
Avrebbe davvero tradito Giulio? Lo voleva fare – però non era un tradimento. Era un esperimento. Quel discorso con Martin-scoppiato era mille volte più vero, per quanto bislacco, delle cerimonie quotidiane con Giulio, e non era colpa loro.
Si stavano facendo male e continuavano a farsene e probabilmente erano masochisti e lo dovevano ancora accettare.
«By the way, davvero non l’hai mai fatto? Non hai voglia di seguire un passante e darle o dargli un bacio solo perché esiste, senza nemmeno avere un nome?»
«Che cazzata» sbuffò lui, prima di passare all’inglese. «È una di quelle robe da puttane che odio
«Secondo me tu sei una persona che ama molto.» Martin annuì e gli sorrise.
Distolse lo sguardo. Quello sguardo era così dolce – come se si conoscessero da secoli, come se si stessero scambiando parole segrete tenute nascoste da anni. Lo sguardo di Giulio i primi tempi.
«Che ne sai?» domandò.
«Al mondo esistono due categorie di persone.» Martin sollevò una mano davanti a sé e la aprì, piegando indice e medio. «Quelle che amano e quelle che amano troppo
Che teoria di merda «E quelle che non amano affatto» aggiunse.
«No. Chi non ama nulla s’illude, ama così tanto che l’amore perde di significato» lo corresse l’altro.
«Ripeto, è una cazzata
«Sono disposto ad amarti, non a fare sesso con te.» Martin chinò il capo e gli occhiali gli scivolarono sul naso. Aveva i capelli sugli occhi e le mani erano tornate a torcersi, appoggiate sulle gambe.
Lui inarcò un sopracciglio. «C’è differenza?»
«Certo. Chiamerò il tuo nome, mi stringerò a te e poi ti sussurrerò parole dolci, perché lo zucchero filato che ho comprato era buonissimo e ti devo ringraziare.» L’altro inclinò il capo e schiuse appena gli occhi, con un leggero sorriso.
Zucchero filato. Barbe à papa «Potevi prendere un gelato, ti avrebbe saziato di più. Sei un idiota
«Però questo sarebbe davvero un tradimento, per te
«T’importa?» Aveva bisogno di parole dolci, aveva bisogno di quello sguardo quasi adorante. Da quanto quello di Giulio era più freddo, era finto ed egoista?
Alla fine stavano ancora assieme per egoismo.
“Ti amo”
A Martin poteva davvero importare? Era solo uno sconosciuto, un ragazzino che vendeva trappole al Sacro Cuore, che poteva avere chissà quale malattia o chissà quale problema.
«Ora sì
«Sei un pazzo» sospirò. Gli veniva quasi da ridere, perché qualcosa dentro di lui gli diceva che Martin era sincero, e se gli importava davvero era un pazzo con la P maiuscola. «Prima però ti fai una doccia

*

Martin se n’era andato. Aveva consumato un’intera saponetta nella doccia, aveva piegato il suo asciugamano e l’aveva appoggiato sul cestino e aveva continuato a parlare, parlare anche quando sarebbe dovuto rimanere zitto.
Si era spogliato parlando in francese, poi lo aveva attirato a sé, davanti allo specchio, cullandolo con la sua voce dolce ed era rimasto fino all’ultimo.
Quando si era risvegliato non c’era più la sua pelle al sapone, non c’era più la sua voce e lo zaino appoggiato sull’altro letto.
Era davvero tradimento o no?
Allungò una mano fuori dal letto e prese il telefono dal comodino. Sbloccò la tastiera e recuperò dalla rubrica il numero di Giulio, andando a memoria. Non aveva voglia di ferirsi gli occhi con la luce del cellulare, dato che dopo sarebbe tornato a dormire.
Che strano. Nonostante nella sua mente turbinassero un milione di pensieri spezzati, sapeva esattamente cosa fare, senza incertezze.
«Pronto, amore?» La voce di Giulio, impastata dal sonno, lo fece vacillare un attimo, solo un attimo.
«Buongiorno.» Erano le cinque, ma non gli importava. «Stanotte sono stato a letto con un idealista francese del cazzo che mi ha fatto capire una cosa.»
Nessuna risposta, solo il respiro trattenuto dell’altro.
«Basta.»
“Grazie”


È raro che non abbia nulla da dire su una storia, che riprende il conflitto vita/spirito tanto caro a Mann. L'ho scritta per il contest indetto dalla pagina Fanfic Originali Yaoi, scegliendo come prompt "tradimento" e come parola "ti amo". Si è classificata prima :) per descrivere la città mi sono basata sugli appunti del viaggio che ho appena concluso – da brava feticista delle parole, mi porto sempre dietro un taccuino :) ho notato che la descrizione assomiglia a quella di Zola in Paris – un autentico mare di case. I personaggi potrebbero come non potrebbero essere basati su persone realmente esistenti ;)

   
 
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