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Autore: ProcrastinatingPalindrome    01/04/2012    1 recensioni
Il rapporto di Russia con i Romanov si fa più complicato dopo la loro morte.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Russia/Ivan Braginski
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia non mi appartiene è una traduzione dell'omonima storia di ProcrastinatingPalindrome (potete trovarla su Fanfiction.net). I personaggi utilizzati non mi appartengono, questa storia non è a scopo di lucro.


~1918~

Russia non riusciva a smettere di tremare. Era assurdo, davvero. Il freddo gli era penetrato nelle ossa anni prima e solo gli inverni più rigidi riuscivano a toccarlo in un qualche modo ormai. Ma il clima non era rigido e non era nemmeno inverno; era una sera d’estate, calda come mai era la sua terra. Quindi la pelle d’oca sulle braccia e i brividi non avevano alcun senso.

Forse sarebbe stato meglio rimettersi il cappotto. Era a terra dall’altra parte della stanza dove lo aveva gettato qualche momento prima. Doveva essere così. Indossava quel vecchio cappotto costantemente, e chiamare la tunica che indossava sotto ‘leggera’ era un eufemismo. Non era abituato a stare senza il calore del suo cappotto. Tutto qua. Ma non poteva rimetterselo in quel momento. C’era sopra del sangue. Solo una piccola macchia vicino il bordo, ma comunque c’era. Non era la prima volta che si macchiava in quel modo (era rimasto sorpreso da quanto bene era stato pulito dopo la Domenica di Sangue) ma questa volta era diverso. Non era sicuro a chi appartenesse quel sangue, o quando era finito lì sopra, ma era certo di non essersi macchiato prima di scendere nel seminterrato della casa di Ipatiev. Avrebbe potuto essere di Ol’ga, di Aleksej, di Anastasija, e lui scacciò via quel pensiero prima di cominciare a gridare.

Ma era stato necessario, giusto? Certo. Lenin era stato deciso a riguardo. Dovevano cancellare il passato, era una cosa estremamente importante. Bisognava compiere dei sacrifici per il bene del progresso. Una famiglia non era un prezzo così alto da pagare. Aveva visto centinaia, migliaia, milioni di uomini morire per una causa. Era così che andava ogni volta, bisognava pagare con il sangue se si voleva un vero cambiamento. Era la verità, lo sapeva, lo sapeva così bene, perciò non c’era motivo di rimanere turbati proprio in quel momento.

No, non era affatto turbato. Non lo era. I brividi non avevano senso perché non aveva freddo e non era turbato, non lo era.

Desiderò avere accanto Lituania. Non c’era molto che l’altra nazione avrebbe potuto fare per aiutarlo, ma la sua presenza avrebbe almeno reso la casa meno vuota. Era fin troppo tranquilla, e il silenzio amplificava tutto. Ma Lituania non c’era più. Se n’era andato mesi prima, come tutti, tutti se ne vanno alla fine.

Ma loro non lo avevano lasciato, no, non così. Erano stati portati via mentre lui guardava e-

- le ragazze erano rannicchiate in un angolo e gridavano e Aleksej era a terra accanto al padre ed entrambi erano così immobili, così orribilmente immobili, e in un qualche modo i proiettili non raggiungevano le ragazze, continuavano a rimbalzare indietro e i colpi di pistola e le urla e una delle ragazze sta gridando ‘aiutaci, perché non li fermi Ivan, aiutaci, ti prego’-

Ma dovevano morire!

Vodka, voleva della vodka, ancora più di quanto volesse Lituania lì al suo fianco. Ce n’era una bottiglia mezza vuota nel suo cappotto, ma quello avrebbe significato dover guardare di nuovo quella macchia di sangue…La sete alla fine vinse contro la rodente paura, e lui incespicò fino al cappotto gettato a terra, rovistando nelle tasche. Le sue mani trovarono la fredda bottiglia, ma mentre la tirava fuori notò che qualcosa non andava. Dov’erano le macchie di sangue? Erano sul bordo, ne era sicuro, ma adesso non c’erano più. Se le era immaginate? No, erano lì, lo sapeva, le aveva viste. Non era matto,  l’aveva vista, la prova di quello che era successo, quello che aveva permesso che accadesse…

Bevve la vodka a grandi sorsi. Sapeva di non doverla bere così velocemente ma non riusciva a preoccuparsene, e quando cominciò a tossire e a soffocare la prese quasi come una distrazione ben accetta. Si appoggiò contro il muro e rimase lì per il resto della notte, lasciando che l’alcol lavasse via i fantasmi.

Il giorno seguente, Russia rinchiuse i ricordi in un angolo della mente e andò avanti, perché non c’era nient’altro che potesse fare.

~1919~

Russia passeggiava avanti e indietro davanti alla sua scrivania, cercando di ignorare la piccola lettera lasciata lì sopra.

Compagno Braginski,
C’è un ragazzo a Omsk che afferma di essere lo Zarevich. Sono andato ad investigare e ho pensato che volesse essere informato.
P. Gilliard

C’era un’orribile, fredda sensazione che gli cresceva nello stomaco, come avesse inghiottito un intero pezzo di ghiaccio. Non poteva essere. Aleksej era morto, non poteva trovarsi ad Omsk o da qualsiasi altra parte. Era impossibile, era stato presente il giorno della loro morte ma…ma doveva ammettere che non li aveva visti morire. Sarebbe dovuto rimanere, Lenin aveva voluto farlo assistere alla morte del vecchio mondo, ma lui non poteva sopportare di rimanere a guardare fino alla fine. Era scappato da loro, dalle loro grida d’aiuto. Ma comunque, di sicuro erano morti. Gli uomini non avrebbero lasciato nessuno vivo, no? Ma adesso non poteva esserne certo, e magari Aleksej era vivo e a Omsk e lui…

Era così piccolo, così perfetto. Era come una piccola bambola. Russia non avrebbe mai avuto figli, non come Nicola, ma l’orgoglio e la gioia del padre erano così contagiosi che si sentì quasi come se il bambino fosse suo. Il suddetto padre in quel momento stava cullando il bambino fra le braccia parlandogli con quel tono di voce riservato esclusivamente a neonati e piccoli animaletti pelosi. Era quasi imbarazzante ascoltare il suo Zar parlare a quel modo, ma non poteva biasimarlo. Avevano voluto un figlio così a lungo e ora la famiglia ne aveva finalmente avuto uno, un bellissimo, sano bambino.

“Vuoi tenerlo, Ivan?” Chiese Nicola. Russia esitò per un momento. Aveva tenuto in braccio le ragazze quando erano nate, e stava cominciando ad avere l’impressione di avere una qualche maledizione. Ol’ga aveva cominciato a strillare l’attimo in cui la madre l’aveva depositata fra le braccia della sua nazione, Tat’jana gli aveva vomitato addosso la prima volta che l’aveva stretta fra le braccia, Marija non era stata ferma neanche per un secondo e gli era quasi caduta una volta, e Anastasija continuava a provare a prendergli il naso ogni volta che la prendeva in braccio. Anche se, ripensandoci, l’ultima parte non gli aveva dato troppo fastidio, anche se non riusciva a capire perché la piccola Gran Duchessa pensasse che il suo naso fosse così divertente.

Decise di correre il rischio e con cautela prese il bambino dalle braccia del padre stringendolo fra le sue. Aleksej lo guardò con tondi, seri occhi e non strillò, vomitò, dimenò o cercò di prendergli il naso. Poi il suo viso si profuse in un enorme, sdentato sorriso.

“Guarda, riconosce la sua nazione!” Disse l’orgoglioso padre. “Sarà un grande Zar un giorno, ti ama già-”

No no no. Non faceva nessun bene pensare a certe cose. Quello era il passato, non aveva senso rimuginarci sopra. Era inutile, uno spreco di tempo. Non poteva permettere a quei fantasmi di perseguitarlo. Era del presente che doveva preoccuparsi. C’era così tanto da fare, e se si fosse sommerso di lavoro allora non avrebbe dovuto pensare al passato.

Una settimana dopo Gilliard ritornò, e Russia trovò difficile non balzare in piedi e scongiurare l’uomo di dirgli la verità l’attimo in cui lo vide arrivare.

“Era un impostore.” Disse Gilliard prima che Russia potesse fargli la domanda. “Il ragazzo somigliava un po’ ad Aleksej, ma chiaramente non era lui. Sono stupito che così tanta gente abbia creduto alle sue parole. La gente crederebbe a qualsiasi cosa, immagino.”

“Già.” Non avrebbe dovuto forzarsi a dire quelle parole. Non avrebbe dovuto rimanere sorpreso. Quella notizia non avrebbe dovuto fare così male. “È così.”

~1920~

Gli era giunta voce di una giovane donna di nome Anna a Berlino che alcuni ritenevano essere Anastasija. Non era la prima falsa Anastasija della quale veniva informato, e ne era già stufo, stufo di questi impostori che continuavano a riportare a galla ricordi che lui voleva dimenticare. Non ci pensò (aveva centinaia di cose delle quali preoccuparsi comunque) e presto si dimenticò completamente della ragazza.

~1925~

Non la voleva vedere. Non poteva. Lei era nella stanza accanto, ma i suoi piedi sembravano inchiodati a terra. Non sarebbe dovuto andare lì.

C’erano state così tante persone che avevano affermato di essere uno dei Romanov e tutti si erano rivelati dei falsi, tutti. Anche questa lo sarebbe stato, lo sapeva. Ma c’era sempre il momento prima di vedere i loro volti nel quale poteva quasi sperare, forse, forse…

No, era stanco, stanco di vedere andare in frantumi quella flebile speranza ancora e ancora. Non importava quante persone credessero alla sua storia, lui non si sarebbe lasciato ingannare. Non sarebbe dovuto andare a vederla, ma adesso cosa poteva fare? Strisciare fuori dalla porta sul retro come un ladro? Il suo orgoglio non glielo permetteva. Già in quel momento era pericolosamente vicino allo scappare. Doveva per forza andare a dare un’occhiata a quella donna. Non ci sarebbe voluto molto, solo un’occhiata e avrebbe saputo se anche lei era un falso. E poi avrebbe potuto tornare a casa e lasciarsi alle spalle quell’orribile disastro. Fallo in fretta e basta. Falla finita.

Prese un profondo respiro e aprì la porta, rimase immobile. Si era aspettato che assomigliasse almeno un po’ ad  Anastasija. Nessuno avrebbe potuto credere alla sua storia altrimenti. Ma questo…la piega dei suoi capelli, il profilo della sua mascella, il modo in cui rimaneva seduta così scomodamente rigida sulla sedia così simile al modo in cui la Gran Duchessa sedeva quando cercava di comportarsi bene…era fin troppo familiare, troppo orribilmente familiare. Era troppo magra, troppo stanca, troppo consumata, ma la cosa non aveva senso se si parlava di una ragazza sopravvissuta ad un tale orribile evento? E dicevano che sul suo corpo c’erano delle cicatrici, come ferite inferte da una baionetta…

Lei alzò lo sguardo quando lui aprì la porta e sgranò gli occhi. Si alzò, un po’ instabile e fece qualche timido passo avanti.

“Ivan? Sei davvero tu? Sei davvero qui?” Gli si gelò il sangue. Tedesco. Stava parlando in Tedesco. Perché non in Russo?

“Chi sei?” Chiese nel suo stentato Tedesco. Poteva dire che il tremore nella voce era causato dal parlare una lingua non sua. Ma ecco l’errore in questa finzione (e di certo si trattava di una finzione). Avrebbe dovuto parlare in Russo, qualsiasi falso con un minimo di cervello avrebbe dovuto saperlo. Non poteva essere lei, non poteva essere la verità.

Il suo viso si intristì in un modo così familiare. Tutte queste espressioni, perché erano così perfette? Perché doveva farlo dubitare?

“Non mi riconosci? O pensi che sia un falso? Speravo che almeno tu sapessi che sono davvero io.”

“Davvero chi?” Gridò miseramente, e si fermò. Se avesse continuato gli si sarebbe spezzata la voce, e lui sarebbe finito in pezzi. Non si sarebbe permesso di crollare innanzi a questa sconosciuta. Ma era una sconosciuta? No, non pensarci, deve esserlo. “Dimmelo.” Continuò quando riprese il controllo di sé stesso. “Chi sei tu veramente, Anna Anderson?”

“Tu sai chi sono, Ivan Braginski.”

“No, di sicuro non lo so. Tu non sei Anastasija, se è quello che stai cercando di dire. Non puoi esserlo. E perché stai parlando in Tedesco?” Sputò l’ultima parola. “L’Anastasija che conoscevo io non sapeva nemmeno una parola di Tedesco, e anche se lo avessi imparato negli ultimi anni, perché non parli in Russo con me? O forse non sai come fare?”

Lei abbassò gli occhi e non rispose. Ecco qui, allora. Ammetteva di non saper parlare in Russo. Ammetteva di essere un falso, di-

“Non voglio parlare in Russo.” Disse con voce piccola, sempre con gli occhi a terra. “Era l’ultima lingua che ho sentito. L’ultima…l’ultima che ho sentito in quella casa, prima degli spari e delle grida.”

Non avrebbe potuto ferirlo di più nemmeno pugnalandolo al cuore. Era una scusa così perfetta, ma così dolorosa da sentire. Si lanciò verso di lei all’improvviso, e lei indietreggiò involontariamente. Era sbagliato, Anastasija non aveva mai avuto paura di lui, ma solo perché non lo aveva mai visto arrabbiato, non aveva mai visto quanto spaventoso poteva essere il suo grande, dolce Ivan.

Afferrò le esili spalle della donna e la abbracciò rudemente. Lei si tese, ma poi gli appoggiò la testa contro il petto per un momento, circondandolo con le sue esili braccia. Era così calda e familiare, e lui si scoprì a mordersi le labbra per trattenere un singhiozzo. Recitava la sua parte così bene, e per un momento, solo un momento lui voleva poterci credere e fingere…

Stava piangendo. Poteva sentirla piangere dal suo nascondiglio in cima alla quercia. Inclinò il capo per guardare in alto, e poté vedere solo le sue gambe e la gonna bianca. Questa volta era andata davvero in alto.

“Non vuoi scendere?” Chiese. Non ci fu risposta. “Per favore, dimmi cosa c’è che non va. Vieni qui.”

“N-non voglio.”

“Lo so, lo so. Ma vuoi venire giù lo stesso? Voglio vederti.”

Si sentì un fruscio in cima all’albero mentre lei scendeva su un ramo più basso.

“Qui, salta. Ti prenderò.” Disse, porgendole le mani.

Lei esitò, guardandolo con gonfi occhi arrossati, prima di saltare giù. Avrebbe dovuto essere stato in grado di prenderla facilmente, ma le era troppo vicino e lei aveva saltato troppo in là. Inciampò all’indietro per qualche passo e all’ultimo momento riuscì a prenderla, ma la forza dell’azione gli fece perdere l’equilibrio facendolo cadere per terra, la bambina ancora fra le braccia. Atterrarono sull’erba con un soffice tonfo.

“Mi dispiace, Ivan.” Disse lei senza fiato, scostandosi dal suo petto. “Non ti sei fatto male, vero?”

“Solo qualche graffio.”

Si mise dolorosamente a sedere (si sarebbe di certo ritrovato con dei begli ematomi il giorno dopo) e le tolse dai capelli le foglie che si erano incastrate.

“Sei un disastro.” Le disse scherzando. “Tua madre si sentirà male.”

“Tu hai un aspetto peggiore.” Gli rispose lei. “Hai i pantaloni tutti macchiati di erba e un ramoscello tra i capelli.”

Lui sollevò una mano per togliersi il ramoscello, incrociando lievemente gli occhi durante tale azione.

Lei rise, e qualsiasi cosa fosse stata a farla piangere in principio venne dimenticata.

La spinse via rudemente e si voltò. Lei lo chiamò per nome e cercò di afferrargli il braccio, ma lui si divincolò e lasciò la stanza senza un’altra parola.

Per fortuna il corridoio fuori dalla sua stanza era vuoto. Sbatté le palpebre finché la vista non fu più appannata e si passò le mani sopra il volto bagnato. Non avrebbe più sofferto per ciò che era successo, promise a sé stesso. Non avrebbe mai più sprecato lacrime per colpa di un impostore.

~1977~

Si svegliò urlando, tremando e madido di sudore. Perché? Perché doveva succedere? Voleva dimenticare. Non voleva più pensare a nessuno di loro. Voleva cancellare tutto.

Aveva visto morire così tante persone nel corso degli anni. Così tante. Loro erano solo una famiglia. Era passato così tanto tempo. Perché continuavano a perseguitarlo? Perché non potevano lasciarlo da solo? Le cose erano abbastanza difficili con America che continuava a rendergli difficile la vita e ora loro ricomparivano nei suoi sogni…

Sembravano così felici. C’erano così tanti problemi al mondo, così tante cose di cui preoccuparsi, ma guardando loro niente sembrava un problema. In quel momento non erano dei nobili, ma solo una normale famiglia che si divertiva al fiume. Russia si sedette all’ombra e guardò Nicola che fingeva di seppellire Aleksej nella sabbia mentre il ragazzo rideva. Alessandra sedeva poco più distante sulla banchina con le ragazze più grandi, ma dov’era-

Un paio di mani gli coprirono gli occhi e una voce alle sue spalle disse “Indovina chi sono!”

Ah. Eccola qua.

“Non riesco neanche a immaginare.” Disse seccamente.

“Prova lo stesso.”

“Vediamo allora…sei Anastasija?”

Le mani scomparvero e lui si voltò per guardare la giovane ragazza sorridente.

“Devi aver imbrogliato.” Disse lei.

“Mi ferisci, mia cara. Io non imbroglio mai.”

“Oh? Mai? Nemmeno quando giochi a scacchi con Papà?”

“No, vinco sempre perché comprendo le regole del gioco, al contrario di tuo padre.”

Lei ridacchiò e si sedette sulla calda sabbia al suo fianco, distendendo le gambe davanti a lei.

“È così caldo oggi! Non stai morendo dal caldo?”

“No.”

“Ma stai indossando quella tua spessa sciarpa. Io non indosso nulla di così pesante e sento di essere sul punto di sciogliermi.”

“Forse non mi sciolgo facilmente come le bambine piccole?”

“Non sono così piccola.” Brontolò lei, mostrandogli la lingua.

Sedettero in silenzio per un momento, lasciando che la fresca brezza che proveniva dal fiume arruffasse loro i capelli.

“Perché indossi sempre quella roba, comunque?” Chiese lei all’improvviso, giocherellando con un capo della sciarpa steso sulla sabbia. “Ti conosco da tutta la vita e non ricordo di averti mai visto senza.”

Le sue mani strinsero la stoffa attorno al suo collo distrattamente mentre cercava una risposta. Non poteva dirle delle cicatrici. Non poteva dirle che si sentiva così esposto, vulnerabile, senza di essa. Non poteva-

“Oh, è come quella storia?”

“E quale sarebbe quella storia?” Chiese lui, sollevato dal non dover rispondere.

“Quella della ragazza che indossava sempre un fiocco attorno al collo. Non se lo toglieva mai, davanti a nessuno. E, um…” Anastasija si fermò, cercando di ricordare la storia. “E credo che si innamorò di qualcuno e lui continuava a chiederle di togliersi il fiocco, ma lei non voleva. E alla fine, dopo un po’, lei acconsentì a toglierselo, perché lo amava. E,” fece una pausa drammatica “quando se lo tolse, le cadde la testa!”

“Davvero?”

“Non lo so. Probabilmente è solo una storia.” Gli tirò la sciarpa per gioco. “Anche a te cadrà la testa se ti togli la sciarpa?”

“Chi lo sa?” Disse lui, sorridendo. “Non credo sia il caso di correre il rischio.”

“Oh sì, sarei molto triste se ti cadesse la testa e tu morissi.” Disse lei dolcemente, ma c’era qualcosa di strano nella sua voce ora. “Ma mi domando se tu eri molto triste quando noi siamo morti?”

Russia congelò, le dita che stringevano la sciarpa di nuovo. No, era tutto sbagliato, no…

“Sono sicura che non ti è importato. Hai lasciato che ci uccidessero, vero? Io ho continuato a chiamarti, ma tu non hai fatto niente. E poi,” le sue labbra si trasformarono in un ghigno e all’improvviso non fu più la piccola bambina che conosceva “te ne sei andato. Sei corso fuori e ci hai lasciati lì a morire. Codardo!”

Russia si raggomitolò, cercando di dimenticare il sogno. Stava succedendo perché aveva distrutto la casa di Ipatiev? Aveva pensato di poter cancellare tutti quei brutti ricordi eliminando quell’orribile posto ma i fantasmi erano tornati da quel momento. Erano arrabbiati perché voleva dimenticare? Volevano perseguitarlo per sempre? Seppellì il volto nel cuscino, cercando di tornare a dormire quando sentì una porta aprirsi e chiudersi alla fine del corridoio fuori dalla sua stanza. Ci furono dei passi affrettati fuori dalla sua porta, e poi si sentì bussare.

“Russia? C’è qualcosa che non va? La prego risponda!”

La voce di Lituania. Russia portò le ginocchia al petto, sperando che la nazione più piccola se ne andasse. Nessuna fortuna. Il bussare continuò per un altro po’ prima di fermarsi improvvisamente venendo rimpiazzato da un leggero suono metallico in prossimità del pomello; Lituania stava scassinando la serratura. La porta si aprì leggermente e Russia poté vedere solo un profilo stagliarsi contro la luce del corridoio, esitante.

“Sta bene, Signore?”

“Non ero a conoscenza del fatto che i tuoi hobby includessero anche irrompere nelle stanze altrui, Lituania.” Disse Russia con la sua voce più fredda, provando un po’ di malvagia soddisfazione quando la sagoma indietreggiò visibilmente. Non voleva dare spiegazioni. Non voleva essere confortato. Voleva solo, più di qualsiasi altra cosa, che tutto andasse via lasciandolo in pace.

“H-ho sentito un urlo. Mi dispiace, non stavo…cercando di invadere la sua privacy.” Disse Lituania mitemente. “Quando non ha risposto, ho pensato che forse era stato ferito…mi dispiace, è stato un errore.”

“Posso assicurarti che sono illeso.”

“Ne è sicuro? Ha bisogno di qualcosa? Posso farle del tè, se vuole.”

In risposta, Russia si voltò verso il muro. Poté sentire un sospiro alle sue spalle.

“Buonanotte, Signore.” Disse Lituania stancamente prima di chiudere la porta lasciando la nazione più grande nel buio e nel silenzio.

Russia serrò gli occhi, desiderando che i sogni se ne andassero insieme ai fantasmi. Poteva vedere il momento in cui la casa di Ipatiev veniva distrutta ancora e ancora dietro le palpebre, come a spingere il ricordo lontano dalla sua mente, riducendo in polvere tutto il senso di colpa.

~1998~

Non riusciva a guardare le bare. Erano proprio davanti a lui, a qualche passo di distanza, fin troppo vicine. Tenne cautamente gli occhi puntati sui suoi piedi, respirando pesantemente attraverso il naso.

Yeltsin si era chinato ad un certo punto per chiedergli se stava bene. Aveva risposto annuendo; se avesse aperto la bocca avrebbe vomitato. Sembrava tutto comunque così sbagliato. Non era giusto fare un funerale per il resto della famiglia e lasciare indietro Aleksej e Anastasija, ma era passato troppo tempo. Se avessero potuto trovare i corpi, la cosa sarebbe già successa. Questo era il meglio che potessero fare, e di certo un vero funerale era meglio che lasciarli seppelliti nella foresta per sempre. Gli ultimi due bambini sarebbero semplicemente rimasti persi, nascosti da qualche parte in una tomba che lui non riusciva a trovare.

Non se lo erano meritati. Non importava che Nicola non fosse stato uno Zar molto bravo, o che non fosse riuscito a comprendere appieno Russia. Non era stato un mostro, non se lo era meritato, e i bambini…erano innocenti. Aveva permesso che bambini innocenti morissero…per cosa? Cosa era stato guadagnato con quel sacrificio?

Non poteva guardarli. Non poteva affrontarli. Mantenne gli occhi fissi a terra, sopportò il sermone e se ne andò senza guardarli direttamente nemmeno una volta.

~2000~

Come ci si scusa per un crimine vecchio di ottantadue anni? Cosa si può fare per delle persone morte ormai da quasi un secolo? Si era rigirato quelle domande nella mente ancora e ancora per diversi anni.

Santità. La chiesa ora li chiamava Portatori di Passione. Aveva chiesto e scongiurato e tirato fili e ora loro venivano considerati qualcosa di sacro. Reali Portatori di Passione. L’avrebbero voluto? Sembrava quasi un titolo vuoto alle sue orecchie, ma forse per loro avrebbe significato qualcosa. Doveva dar loro qualcosa, qualunque cosa, tutto ciò che aveva da offrire…

“Buon Natale, Ivan!” Dissero quattro voci in coro.

Russia si voltò. Le ragazze stavano in fila l’una accanto all’altra, con gli stessi sorrisetti che avevano sempre quando stavano pianificando qualcosa. Come a confermare la sua supposizione, Tat’jana stava chiaramente nascondendo qualcosa dietro la schiena. Qualcosa di sospetto stava succedendo.

“E Buon Natale a tutte voi.” Rispose lui, allungando il collo per cercare di vedere cosa aveva in mano Tat’jana.

“Abbiamo una sorpresa per te.” Disse Ol’ga.

“Ma prima devi chiudere gli occhi.” Gli ordinò Marija, sventolandogli in faccia un ditino con finta autorità. Russia non era estraneo alle ragazze e ai loro giochi, e obbediente chiuse gli occhi. Poté sentire dei fruscii e delle risatine, e finalmente Marija disse. “Va bene, puoi guardare adesso.”

Tat’jana aveva in mano una piccola scatola legata con un fiocco rosso.

“Un regalo?” Chiese lui. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva ricevuto un regalo di Natale, tantomeno da parte di un umano. Una volta si scambiava i regali con le sue sorelle, ma col passare degli anni la tradizione era stata dimenticata. Era passato davvero un sacco di tempo.

“Abbiamo aiutato tutte a farlo.” Intervenne Anastasija prima che Ol’ga la zittisse.

“Ti conviene aprirlo prima che ti rovini la sorpresa.” Disse la più grande, dando alla più piccola una giocosa spintarella.

Lentamente, con attenzione, slegò il fiocco e sollevò il coperchio. All’interno c’erano…beh, sembravano un paio di guanti, ma c’era qualcosa di grottesco nella loro forma. Non sembravano fatti per delle mani umane.

“Cosa ne pensi, Ivan?” Chiese Marija nervosamente. “Ho cucito io per la maggior parte.”

“Io ho scelto il colore!” Disse Anastasija.

Il colore…Russia non era pienamente certo di che colore fossero. Era una specie di rosa, ma anche grigio e marrone…forse anche un po’ giallo. Era una sorta di indefinibile sfumatura che gli ricordava il vomito. Cercò di mettersi i guanti, solo per scoprire che erano troppo piccoli. Non poteva stendere le dita senza strappare la stoffa. Più che guanti erano più una specie di tasche che gli coprivano i pugni.

“Beh?” Chiese Tat’jana. “Ti piacciono?”

“Questi guanti,” disse seriamente “sono assolutamente perfetti. E il colore è bellissimo.”

I bambini gli avevano donato il loro amore, e lui aveva dato loro un nuovo titolo. Non era affatto uno scambio equivalente, ma che altro poteva fare? Era l’unica cosa che poteva donar loro ormai. Forse era l’unico modo che aveva per raggiungerli. Forse avrebbero capito.

~2009~

America lasciò cadere i fogli sulla scrivania di Russia senza troppe cerimonie.

“Ecco qua, dovrebbe essere tutto. Abbiamo appena finito di fare i test. Ho pensato che tu dovessi essere il primo a dargli un’occhiata.”

Russia prese in mano il plico e scorse le varie pagine piene di tabelle e grafici.
 
“Beh, è troppo lungo da leggere tutto quanto, ma il risultato è che i corpi che avete trovato a Yekaterinburg sono decisamente i figli del tuo Zar. Dev’essere un sollievo per te, huh? Finalmente tutta questa storia si è conclusa.”

Russia tornò alla prima pagina, con la sua accurata lista di risorse e la ricerca spiegata per filo e per segno. Era una fine così scientifica. Così impersonale, una fine fredda.

“Grazie.” Disse rigidamente.

America sorrise, lievemente e senza difficoltà come sempre. “Non pensavo che ti avrei mai sentito ringraziarmi.”

“Non abituarti, non intendo farne una ricorrenza.”

“Aw, non essere così. I nostri capi non stanno cercando di, sai…rendere le cose un po’ più amichevoli fra noi?”

“Non farmi fretta. Non sono così volubile come certe nazioni.”

“Sta’ zitto, ciccione.”

Ci fu una pausa nella quale America aspettò che Russia gli rispondesse per le rime, ma l’altro stava di nuovo fissando i fogli. America si schiarì la gola imbarazzato.

“Vuoi, uh…vuoi rimanere da solo?”

“Hm?”

“Voglio dire…eri vicino a loro, non è vero? Se ti serve un minuto o che altro, dillo, aspetterò fuori.” Russia lo guardò in modo strano finché non scattò. “Senti, sto cercando di essere gentile, razza di idiota.”

“Sei un faro di gentilezza, America, ma ho del lavoro da finire oggi. Preferirei che te ne andassi e basta.”

“Che tipo di lavoro?”

“Nulla che ti riguardi.”

America roteò gli occhi drammaticamente e borbottò qualcosa riguardo ad un ‘ingrato idiota’ prima di dirigersi verso la porta.

“Cerca di prenderti cura di te stesso, okay? Sei una vera seccatura quando sei depresso.” Gridò uscendo, e se ne andò prima che Russia potesse decidere se nella sua voce c’era una specie di strana compassione.

Con la nazione più giovane andata via, Russia riportò l’attenzione sulle carte. Un sacco di paroloni scientifici, con nomi familiari sparsi qua e là, e quello era sufficiente per far finire la loro storia. Ma no, non era giusto. Non era giusto lasciare che fosse la fine. Poteva sentire i fantasmi circondarlo, aspettando. Aspettando lui. Doveva loro qualcosa.

Il momento era buono quanto qualunque altro. I fantasmi lo avevano seguito per anni; di certo potevano sentirlo ora.

“Mi dispiace.” Disse con calma alla stanza vuota e alla pila di carte e ai fantasmi, e poi a voce più alta. “Mi dispiace. Non volevo per davvero che voi moriste.”

Una scusa così patetica. Non l’aveva voluto. Non aveva potuto fermarli. Solo scuse. Che senso avevano quelle parole ora?

“So che ormai non ha valore dire queste cose.” Continuò a parlare alla stanza vuota. Potevano sentirlo? Lo stavano ascoltando? Avrebbe importato loro ora, dopo così tanti anni? “So che…che ammettere che mi sbagliavo o desiderare che le cose fossero andate in modo diverso non cambia nulla.”

Faceva male dirlo, che era stato un errore. Aveva provato così duramente a far sì che tutti i sacrifici lungo gli anni avessero un senso, a far sì che servissero ad un bene superiore. Ma qualche volta non ci riusciva. Qualche volta le persone morivano per niente.

“H-ho avuto torto. Mi dispiace di essere scappato via. Mi dispiace di aver permesso che vi facessero del male. Avevo…paura allora, e non so…non so c-come…”

La sua voce suonava così strana, e improvvisamente si accorse di stare piangendo. Quand’era l’ultima volta in cui aveva pianto? Non ricordava. Tentò di continuare a parlare, ma le parole gli si bloccavano a causa del nodo che aveva in gola. Patetico, non riusciva nemmeno a scusarsi in modo decente con loro.

“Mi dispiace.” Annaspò ancora, seppellendo il volto fra le mani. “Mi dispiace. Non p-posso dirvi quanto mi dispiace…”

Forse era stato lì seduto solo per qualche minuto o forse per qualche ora, ma alla fine si fermò. Forse il dolore e la colpa ormai avevano fatto il loro corso, o forse non aveva più la forza di continuare a piangere. Si ricordò di aver sentito una volta che piangere di cuore ogni tanto era salutare, ma lui non si sentiva affatto meglio. Aveva gli occhi dolorosamente gonfi e il naso continuò a colargli a lungo dopo aver pianto. Aveva anche un mal di testa niente male, ma…qualcosa era diverso. Qualcosa era più leggero. Forse i fantasmi erano finalmente andati via. Forse lo avevano finalmente perdonato.

 
Note Storiche:

Nicola II è stato l’ultimo Zar di Russia. Regnò dal 1894 al 1917, quando abdicò. Non era esattamente un sovrano forte. Non aveva una gran volontà e seguì dei consigli a dir poco pessimi donatigli da un sacco di persone. Per non parlare del fatto che non era sempre ben informato su quello che stava succedendo (ad esempio, nessuno pensò che fosse importante avvisare lo Zar del fatto che un sacco di gente stava protestando per le strade nel 1905. Invece, venne ordinato di stanziare più truppe nella città. Tutto senza dire nulla a Nicola. Immaginate come è andata a finire? Certo, lui avrebbe dovuto essere più informato, ma comunque, un promemoria o qualcosa sarebbe stato carino.). Fallimenti politici a parte, era un padre eccellente e la sua famiglia dimostrò di possedere un vasto amore. Aveva anche la tendenza ad essere un padre incredibilmente innamorato dei suoi figli, al punto da risultare imbarazzante. Quando nacque Aleksej, fece impazzire la moglie mostrando suo figlio a praticamente tutti quelli che incontrava (‘Non credo abbiate incontrato il mio piccolo Zarevich!’).

Il che ci porta alla moglie, Alessandra. Lei si occupava di tutto ciò che riguardava i figli, da quello che indossavano alla loro educazione. I bambini vennero sempre molto protetti, perciò la fine che incontrarono fu certamente uno shock per loro. Infatti, da bambina Ol’ga disse di essere felice di vivere in un mondo dove le persone erano buone, gli uomini cattivi venivano catturati e nessuno andava in giro ad uccidere le persone o a tagliar loro la testa. Ouch, l’ironia…

Avevano cinque figli, Ol’ga, Tat’jana, Marija, Anastasija e Aleksej. Aleksej soffriva di emofilia, un disturbo genetico che rende difficile la coagulazione del sangue quando ci si ferisce, il che significa che anche un taglio può essere fatale. I sintomi si manifestarono quando ebbe più o meno sei settimane, e fino a quel punto tutti credettero che fosse un bambino perfettamente sano. Lasciando da parte il fatto che si trattò di una tragedia per la famiglia, questo fu un grosso problema considerando che lui era l’unico erede di Nicola. Dato che era il più giovane, l’erede e anche così fragile, divenne il centro della famiglia praticamente da subito. Il risultato fu che divenne particolarmente viziato (e piuttosto esagitato, il che faceva venire il crepacuore quando cercava di scivolare lungo il corrimano della scale. Per uno che soffre di emofilia, è praticamente un suicidio).

Le ragazze, sorprendentemente, non sembravano gelose delle attenzioni ricevute dal fratello più piccolo e lo sommersero con il loro amore. Anche se i figli erano tutti molto legati, le ragazze erano una vera squadra e raramente le si vedeva andare in giro da sole. Tat’jana, la seconda più grande, era il capo indiscusso e veniva chiamata ‘la Governante’. Ol’ga, la più grande, era più calma e intelligente, anche se piuttosto emotiva. Marija era la più dolce, così tanto che il padre diceva di essere preoccupato che un giorno le spuntassero le ali come un angelo (sì, era un padre veramente imbarazzante). Ma era la più giovane, Anastasija, la più rumorosa e memorabile fra loro. Era la più selvaggia e il clown di famiglia, conosciuta per i suoi scherzi, il suo senso dell’umorismo e la tendenza a far ammattire tutti. Era anche molto piccola e aveva un complesso a riguardo.

Vennero giustiziati il 17 Luglio, 1918. Gli storici generalmente accettano che Lenin abbia dato la sua personale approvazione all’esecuzione della famiglia, ma non è stata trovata nessuna prova a riguardo. La famiglia a quel tempo era in esilio, e quando vennero portati nel seminterrato della casa di Ipatiev, non avevano idea di cosa stava per succedere. È incredibile l’inettitudine dei carnefici. Ce n’erano troppi, e tutti cercavano di entrare in una stanza che conteneva già i sette Romanov, più il loro dottore e tre servi uccisi insieme a loro. Invece di un pulito plotone di esecuzione, tutti cominciarono a sparare all’impazzata. Il risultato fu un caos inimmaginabile che fece soffrire più del dovuto le vittime. Parte del caos non fu colpa degli assassini; le ragazze aveva cucito nei loro vestiti alcuni loro gioielli, che alla fine funzionarono come un giubbotto anti-proiettili. Dopo un po’, i carnefici furono così esausti e spaventati dal fatto che i proiettili non ferivano le ragazze che cominciarono ad accoltellare tutti con le loro baionette (in più, da fuori si erano sentite le urla quindi dovevano sbrigarsi). Anche quello non fu fatto bene; diverse volte pensarono di aver ucciso tutti, ma qualcuno gemeva e si metteva a sedere.

La sepoltura in seguito fu lo stesso un fallimento. Il piano originale era quello di gettare i corpi in un pozzo, ma dal momento che metà della città sapeva quello che stava succedendo in quel punto (grazie al lavoro veramente pessimo dei carnefici) hanno cercato di seppellirli, invece. Dopo aver sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare, i corpi vennero sepolti. Non c'è da meravigliarsi se è stato così difficile trovare tutti i corpi più tardi.

Coloro che affermavano di essere dei Romanov arrivarono subito. Il primo fu un ragazzo di Omsk che sosteneva di essere Aleksej. Pierre Gilliard, tutore del bambino, dichiarò personalmente che il bambino mentiva. Smascherò vari altri impostori, e fu uno dei più grandi oppositori di Anna Anderson.

Ci furono oltre 200 pretendenti Romanov, ma Anna Anderson è di gran lunga la più famosa. Il 17 Febbraio 1920, è stata estratta dal canale Landwehr di Berlino, dove aveva evidentemente tentato di suicidarsi. Mentre era in ospedale, qualcuno la vide e credette che fosse Anastasija. La sua storia assolutamente esplose da lì. Molti parenti e persone che conoscevano Anastasija andarono  a farle visita e molti di loro, compresi quelli che le si opposero in seguito, inizialmente credettero che fosse veramente Anastasija. Sapeva alcune cose che i suoi sostenitori pensavano solo Anastasija avrebbe potuto sapere. C'è un malinteso comune sul fatto che non sapesse parlare Russo. Sapeva parlarlo (e quando lo fece, a quanto pare parlava come una madrelingua), ma si rifiutava di parlare a meno che non fosse sicura di non venire testata. Quando qualcuno le chiese perché faceva così, lei disse che era perché era l'ultima lingua che sentì prima che lei e la sua famiglia venissero uccisi nella casa di Ipatiev.

Il processo di Anna Anderson è andato avanti fino alla fine del 1960, quando il tribunale infine ha stabilito che non vi erano prove sufficienti per dimostrare chi fosse. E 'emigrata in America poco dopo e morì nel 1984. E 'generalmente ritenuto che Anna Anderson fosse in realtà Franziska Schanzkowska, un’operaia polacca, ma molti non credono a questa storia.

Nel 1977, Boris Yeltsin ha fatto distruggere la casa di Ipatiev. Ancora non si sa perché lo fece.

I corpi dei Romanov vennero scoperti nel 1976. C'erano due corpi dispersi, Aleksej e Anastasija o Marija. Quale ragazza mancava era il punto di dibattito. Nel 1998, un funerale ufficiale si è svolto per i Romanov.

Nel 2000, sono stati ufficialmente canonizzato dalla Chiesa ortodossa russa e sono stati riconosciuti come santi. Tutti hanno il titolo di Portatori di Passione, che è un titolo simile a quello di martire, ma è più per le persone che hanno incontrato la loro morte come Cristo con dignità e mantenendo la loro forte convinzione fino alla fine piuttosto che essere uccisi per la loro fede. Il loro giorno di festa è il 17 Luglio, lo stesso giorno nel quale vennero uccisi. Ho sentito che alcune persone pregano per loro, soprattutto per Aleksej, per curare le malattie.

Nel 2007, alcuni archeologi amatoriali trovarono due corpi nei dintorni del punto di sepoltura. Nel 2008, è stato confermato che i corpi erano di Aleksej e Marija o Anastasija. Nel 2009, i test del DNA che provarono una volta per tutte l’identità dei corpi vennero pubblicati, il che più o meno risolve uno dei più grandi misteri del ventesimo secolo. Mentre Aleksej venne  identificato, l'ultima ragazza no. Non c'era un campione di DNA per ciascuna delle ragazze, e Anastasija e Marija erano così vicine di età che le loro ossa non differiscono abbastanza per provare che una è più vecchia dell'altra. Quindi probabilmente non si saprà mai a chi appartengono i due corpi.

  
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