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Autore: GreedFan    01/04/2012    4 recensioni
Le luci abbaglianti della strada, i vestiti di paillette, la musica e la folla, tutto aveva un sapore di libertà cercata e a lungo desiderata, di gioia di vivere. Però – e questo il ragazzo lo avvertiva, attorno a sé, senza che ve ne fosse manifestazione alcuna – tutta quell’allegria pareva quasi una patina opaca che si era creata appositamente per coprire un baratro di sentimenti ben più cupi, una sorta di festeggiamento di massa volto a dimenticare quanto, fuori dal cosmopolitismo accogliente di Castro, la vita continuasse ad essere maledettamente difficile.
Kurt pareva la personificazione stessa di quel sentimento, con la sua grazia femminea e i vestiti eccentrici e firmati, con la pelle chiarissima e i capelli accuratamente acconciati e gli occhi traslucidi. Guardarlo mentre sorrideva al mondo con l’affettazione svagata e noncurante del carcerato che si gode la sua ora d’aria fu per Dave più doloroso di una coltellata in pieno petto, perché era come rendersi conto tutto d’un tratto che l’orgoglio gay di cui il ragazzo si ammantava non era altro che una maschera per proteggere ferite ancora fresche dall’attacco del mondo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dave Karofsky, Kurt Hummel | Coppie: Dave/Kurt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Beautiful


“’Cause you are beautiful, no matter what they say

Words can’t bring you down, oh no

You are beautiful in every single way

Yes, words can’t bring you down, oh no

So don’t you bring me down today”.

Christina Aguilera - Beautiful


Stava sudando.

Maledizione.

Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, che quello era lo sbaglio più grosso di tutta la sua vita, ma non era riuscito a resistere. Ci aveva pensato a lungo, aveva tentennato, sperato che la tentazione scomparisse. Cercando di eliminare quel pensiero dalla testa, non aveva fatto altro che renderlo sempre più presente, ingigantirlo al punto che, alla fine, non gli era stato possibile resistere alla lusinga sottile e traditrice del suo istinto.

Stringendo nervosamente i pugni, le nocche bianche e le dita umidicce premute le une sulle altre al punto che cominciavano a formicolare, David Karofsky fissò per l’ennesima volta l’enorme insegna colorata che, qualche metro al di sopra di lui, illuminava le tenebre come un enorme faro rosa al neon.

Scandals.

Deglutì, la gola completamente secca. Si ripeté per l’ennesima volta di star facendo una cazzata.

Era un uomo sposato, Cristo. Un uomo sposato da ben quattro anni con una donna bellissima e giovane e pazzamente innamorata di lui che aveva provveduto, con l’aiuto dei genitori, a comprare una meravigliosa casetta nei sobborghi di S.Francisco. Una donna così perfetta che Dave si era dovuto sforzare meno di quanto pensasse per farci sesso, per portare avanti quella farsa terrificante che – almeno per lui – era sempre stato il suo matrimonio.

E pensare che lui, a Castro Street, non ci si era mai nemmeno avvicinato.

Oh, non che si fosse mai fatto troppe illusioni sul proprio orientamento sessuale. L’aveva capito al Liceo, dopo aver passato un anno intero a spiare di nascosto i suoi compagni della squadra di football negli spogliatoi, che a lui non piacevano le donne. Accettare quel lato di sé era stato un dramma, ma ancor peggio era stato capire che, se avesse rivelato il suo segreto al mondo, tutti quelli che considerava amici lo avrebbero semplicemente disprezzato. Un po’ per paura, un po’ perché credeva di poter reggere perfettamente qualsiasi finzione, David si era fidanzato con la ragazza più carina della scuola e l’aveva sposata subito dopo il college. Così – aveva pensato – nessuno avrebbe osato mettere in discussione che David Karofsky era un uomo serio, integerrimo, probabile futuro padre di famiglia. Nessuno gli avrebbe sbattuto porte in faccia perché gli piaceva il cazzo.

Si era convinto che, con il tempo, avrebbe anche potuto innamorarsi di sua moglie.

Eppure, quell’insegna lampeggiante sembrava sminuire tutte le sue sicurezze con una semplicità che lo spiazzava. Ci era arrivato, alla fine: era inutile fingere di provare piacere quando scopava con la donna che aveva scelto per sostenerlo in quella sceneggiata che era la sua vita, inutile fingere che le forme delicate e le tette e il culo delle modelle sui cartelloni pubblicitari gli suscitassero un qualche tipo di reazione.

Quello che era non sarebbe mai cambiato.

Arrivato a quel punto, con una fiumana colorata e schiamazzante che lo circondava e gli confondeva la mente, con le drag queen dagli abiti colorati che fumavano sigarette a pochi metri da lui e transessuali di una bellezza androgina, inarrivabile, che bevevano i loro cocktail seduti ai tavoli dei bar che davano sulla strada, David si trovò davanti un bivio.

Un bivio così fottutamente importante da lasciarlo paralizzato.

Poteva ancora voltarsi, far finta di essere capitato a Castro per caso e tornarsene a casa, dove la sua adorabile mogliettina gli avrebbe chiesto di raccontarle com’era andata la sua serata tra amici, oppure poteva entrare nello Scandals e accettare le conseguenze di quel gesto assolutamente folle.

Il solo pensiero di ciò che sarebbe diventata la sua vita se avesse scelto la seconda opzione gli stritolava lo stomaco. Si sentiva come al Liceo, quando sapeva di non aver studiato a sufficienza per il test: il viso bollente, le mani fredde e sudate, lo stomaco che a tratti si attorcigliava spasmodicamente, dandogli una vaga sensazione di nausea.

Voleva entrare, ma la paura lo paralizzava.

Ci volle un quarto d’ora buono per convincersi che ne valeva la pena. Per ricordare tutte le volte che aveva desiderato di poter tornare indietro e ricominciare da capo.

Con il viso di sua moglie impresso nella mente, David entrò nel locale.

E, sospirando di sollievo, scoprì che era molto meglio di quanto non si fosse aspettato.

Avrebbe potuto tranquillamente confonderlo con un normale pub etero, se avesse ignorato la clientela: c’era un bar abbastanza grande e attrezzato, una pista da ballo piena di corpi avvinghiati alla rinfusa – e lì, di sicuro, lui non si sarebbe addentrato, e una serie di tavoli di metallo. Lo Scandal’s era immerso in una penombra abbastanza piacevole, a tratti rischiarata dalle luci colorate della pista, che sfasavano tutti i colori in un miscuglio indefinibile di viola, blu elettrico, verde e rosso acceso; per David non fu un problema farsi largo tra i clienti e raggiungere il bancone, dove – grazie al cielo – era rimasto ancora qualche sgabello libero.

Si sedette, vagamente infastidito dalla musica tekno che certi altoparlanti sparsi per il locale sparavano a tutto volume, e ordinò una birra per placare la sensazione di ansia crescente che gli faceva girare la testa.

Aveva superato il primo, enorme scoglio.

Il barista che gli porse la birra indossava una canottiera rosa acceso e portava dell’ombretto vistosissimo – forse viola o blu, ad ogni modo molto scuro – e un piercing al naso. Era esattamente il tipo di persona che i colleghi di Dave o sua moglie avrebbero schernito e insultato, se l’avessero incontrato per strada.

Karofsky non poté fare a meno di trovarlo carino.

Sorseggiando la propria ordinazione, colse l’occasione per dare un’occhiata agli altri solitari che, come lui, parevano preferire la tranquillità del piano bar alle lusinghe della pista.

Alla sua destra stava un uomo sulla quarantina, i riccioli castani tirati all’indietro con quella che doveva essere una quantità non indifferente di gelatina e la mascella squadrata, elegante; giocherellava con la cannuccia del drink che stava bevendo e sembrava molto concentrato sulla superficie lucida del bancone. Più in là, un ragazzo con la cresta e una rasatura laterale che chiunque avrebbe definito azzardata stava parlando con un coetaneo, stavolta un biondino dalla bocca particolarmente pronunciata, e pareva che il suo tentativo di abbordaggio fosse destinato ad andare a buon fine.

Poi Dave si voltò a sinistra.

Dischiuse leggermente la bocca, le dita improvvisamente contratte sul bordo del bicchiere, quando si accorse di chi gli stava vicino. In quel preciso istante realizzò la portata dell’errore che aveva commesso entrando alla Scandals, e al contempo si complimentò con se stesso per l’ottima decisione presa.

Il ragazzo seduto a due sgabelli dal suo aveva quei lineamenti acerbi che sono tipici degli adolescenti, delicati e non del tutto definiti; i capelli erano scuri, anche se le luci non permettevano di determinarne il colore, gli occhi così chiari da sembrare fatti di ghiaccio. Osservando il suo naso all’insù, dall’aria sbarazzina, e le labbra lucide e dischiuse, appena più scure della pelle, Dave sentì improvvisamente caldo. Gli ci volle qualche secondo di respirazione controllata prima di realizzare che, nonostante la bellezza e l’aspetto invitante, quel tipo non poteva avere più di diciassette anni.

Perfetto, Dave – pensò, tornando a concentrarsi sulla birra con uno scatto repentino del capo – stai diventando un pedofilo. Ecco che effetto ti fanno i posti come questo.

Dopo qualche secondo di contemplazione, il liquido ambrato nel bicchiere perse per lui ogni tipo d’interesse. Timidamente, occhieggiando con circospezione il ragazzo misterioso, non poté impedirsi di ammirarne il profilo grazioso e il modo quasi femmineo con cui si sosteneva il mento, il gomito appoggiato sul bancone. Non c’era più ghiaccio nel suo cocktail, segno che doveva averlo lasciato perdere da un bel po’, e le sopracciglia profondamente corrugate testimoniavano una tristezza che – pensò Karofsky – doveva essere sicuramente connessa con il motivo per cui quel ragazzo, invece di scatenarsi in pista con i suoi coetanei, stava seduto solo al bancone.

Gli sarebbe piaciuto parlarci, realizzò. Trovare un pretesto qualsiasi per attaccare bottone e sentire che voce aveva.

No, doveva darsi una calmata. Quel ragazzino era quasi sicuramente minorenne, e lui si sentiva terribilmente goffo e poco a suo agio in un ruolo che per anni aveva disperatamente rifuggito. Certo, si trovavano in una discoteca e teoricamente poteva aggirare la discrezione, ma aveva come la sensazione che il tipo gli avrebbe opposto un rifiuto: la clientela media dello Scandals era composta di ragazzi sui vent'anni, quasi tutti più belli di lui. Dagli anni del Liceo Dave aveva buttato giù un bel po' di grasso e guadagnato massa muscolare, ma non sapeva se un uomo avrebbe considerato attraente l'aspetto che per anni aveva modificato calibrandolo ai desideri di sua moglie.

Inaspettatamente, la scusa per farsi avanti gli si offrì su un piatto d'argento.

Abbassando lo sguardo lungo il corpo sottile e ben fatto del ragazzo, e poi - per inedia - seguendo la linea dritta delle gambe dello sgabello, David intravide un oggetto di forma vagamente rettangolare abbandonato sul pavimento. Un cellulare.

Il tipo teneva il proprio cappotto in grembo, accuratamente piegato, ed era probabile che il telefonino fosse scivolato dalla tasca e caduto per terra. A quel punto, fissando il guscio lucido del cellulare lampeggiare sotto le luci della pista, Karofsky si convinse di trovarsi di fronte ad un segno; qualcuno gli aveva procurato quell'occasione, e non avrebbe avuto senso sprecarla.

«Ehm, scusa...» parlò ad un tono leggermente più alto del normale, sperando che la musica non lo coprisse. Il ragazzo, fortunatamente, si girò - giusto in tempo perché Dave potesse metter su la sua migliore espressione accomodante. Neanche a farlo apposta, l'altro inarcò un sopracciglio perfetto - sicuramente rifinito a furia di laboriosi sforzi con le pinzette - e lo fissò con un lampo di diffidenza negli occhi chiari.

Ecco, aveva già capito. David ringraziò la presenza del telefono.

«Ti è caduto il cellulare». Affermò, guardandolo dritto in faccia, e gli parve - ma forse si trattò soltanto di un'impressione fugace - che il tipo fosse arrossito.

Comunque, una volta che si fu piegato ed ebbe raccolto il telefono da terra con un unico movimento fluido - e aveva davvero una bella schiena sottile - si diede persino la pena di rispondergli, segno che aveva apprezzato l'avvertimento. E, per la seconda volta in quella serata, David rimase per un attimo imbambolato a fissare lo sconosciuto.

«Oh, grazie».

Cristo santo, quella voce.

Era il timbro più strano che avesse mai sentito. Così alto da poter appartenere tranquillamente ad una donna, aveva però una cupezza di fondo che gli donava appena un sentore maschile; ed era aggraziato, forse persino aristocratico, con un accento delicato e impeccabile che somigliava a quello di un'attrice anni '60.

«Che cafone,» continuò poi, abbassando gli occhi sul bancone «non mi sono presentato. Io sono Kurt Hummel». E gli porse la mano.

David si affrettò a stringerla, un po' sorpreso da quel gesto di cortesia, così fuori luogo in un pub.

«David Karofsky. Anche tu da solo?»

Gli parve nuovamente che il ragazzo fosse arrossito.

«Be'... sì. È la prima volta che entri in un posto così, vero?»

«Come fai a saperlo?»

Prima che Dave potesse realizzare quello che stava facendo, Kurt afferrò il cappotto, si alzò e si sedette accanto a lui, accavallando le gambe - che erano lunghe e affusolate, come quelle di una ragazza. A guardarlo più da vicino sembrava una specie di folletto, forse un elfo dei boschi che per qualche strano scherzo del destino aveva deciso di materializzarsi in quella discoteca.

«Dunque,» e il suo tono, così serio e puntiglioso, lo fece sorridere «innanzitutto hai l'aria imbarazzata. E poi non hai cercato di rimorchiarmi al primo colpo, come farebbe un qualsiasi cliente navigato dello Scandals che sa come funzionano le cose qui».

«E come funzionano le cose qui?»

«Come in una qualsiasi altra discoteca gay. Hai presente Queer As Folk, no?»

Quando colse l'occhiata confusa di David, Kurt sobbalzò.

«Cosa?! Abiti a San Francisco e non hai mai visto Queer As Folk?»

«Non ho idea di cosa tu stia parlando».

«Oh, Dio». Lo squadrò con lentezza, apparentemente divertito «Sei il gay più strano che abbia mai visto, sai?»

Quella frase colpì Dave come un pugno in pieno viso. Gay.

Be', era in una discoteca nel bel mezzo di Castro Street e stava parlando con un ragazzo che indossava dei pantaloni oscenamente attillati, quindi non c'era nulla di strano nel sentirsi definire così. La cosa davvero insolita era poter annuire a quell'affermazione come se nulla fosse e continuare a sorseggiare la sua birra, senza che nessuno lo insultasse dandogli del frocio o lo guardasse come se fosse malato di cancro.

Era come se la paura su cui avesse fondato tutta la sua vita fosse improvvisamente scomparsa, fagocitata dagli occhi grandi e sereni del tipo che gli sedeva davanti. In un altra vita, nel mondo che stava al di là dello Scandals, se qualcun altro gli avesse detto che era gay l'avrebbe sicuramente preso a pugni.

Lì, poteva accettarsi per quello che era e sorridere.

Kurt doveva aver colto qualcosa nel suo sguardo, perché sorrise.

«Fammi indovinare... ancora nell'armadio?»

David annuì, incupendosi. Non gli andava di parlare di quello.

«Oh, scusa... non volevo. So che è difficile... ci siamo passati un po' tutti, qua dentro».

«Tu, quando...» Karofsky sperò di non risultare indiscreto. Per lui si trattava di un argomento estremamente delicato, di quelli che meno se ne parlava e meglio era, ma forse avrebbe potuto imparare qualcosa confrontando la propria esperienza con quella di Kurt. Non ne aveva mai avuto occasione.

«Mia madre è morta quando ero molto piccolo, e mio padre l'ha sempre saputo. Quando glie l'ho confessato, a sedici anni, mi ha detto: "l'ho capito quando avevi tre anni... per il tuo compleanno volevi un paio di tacchi alti"». E rise, inclinando leggermente la testa di lato.

«Però, sai,» riprese «sono perfettamente consapevole che non a tutti è capitata la mia stessa fortuna. Tu, invece?»

«Io...» Forza, Dave, non è mica la fine del mondo «... io sono sposato».

«... ah». Lo sguardo di Kurt si fece improvvisamente strano, quasi compassionevole «Capito. Lei lo sa?»

«No. Come hai detto prima anche tu, è la prima volta che vengo in un posto così».

«Guarda che non ti devi preoccupare». Kurt gli diede una pacca amichevole sulla spalla, con tanta delicatezza che quasi Dave non se ne accorse «Non sei il primo neanche in questo. Fare outing è difficile, ma una volta che ti sei tolto quel peso dal cuore tutto comincia ad andare per il meglio. Comunque... è davvero incredibile che tu non abbia mai visto Queer As Folk».

Spinse via il drink, un lampo improvviso ad illuminargli gli occhi, e si alzò in piedi.

«Senti, ho un'idea».

«Spara».

«Qui dentro fa caldo, tu hai finito la birra e mi è parso di capire che non ti piaccia ballare».

«Hm».

«Ti andrebbe di fare una passeggiata?»

All'occhiata scandalizzata di David, Kurt sghignazzò. Aveva una risata limpidissima, solare.

«Guarda che non ti rapisco mica. Andiamo, guardami, rischierei di rovinare il mio trench di Marc Jacobs. E poi ci siamo ufficialmente raccontati una parte della nostra vita, il che - secondo il codice dello stato della California - mi autorizza a perseguitarti per tutta la serata».

«Ah, davvero?»


***


Il culo di Kurt.

Dave era fisso su quella visione da talmente tanto tempo che si era persino dimenticato dello scopo per cui erano entrati nel videonoleggio di una delle tante traverse di Castro. Non era colpa sua se Hummel indossava dei jeans così stretti da lasciare poco o niente all'immaginazione, e se gli trottava continuamente davanti mentre spulciava tra i vari scaffali con l'aria di un frequentatore assiduo.

Quando immerse la mano tra le varie custodie del reparto "Serie TV" e ne tirò fuori una in particolare, rimirandola come un cavaliere templare davanti all'Arca dell'Alleanza, David si sentì punzecchiare dalla curiosità per quanto concerneva quella misteriosa "Queer As Folk". Da quanto era riuscito a capire ascoltando il discorso incasinato e divagante di Kurt, si trattava di una specie di soap opera di culto che trattava esclusivamente amori omosessuali.

«Ecco, facciamo così». Esclamò Kurt, dirigendosi a passo svelto verso la cassa «Io la compro per me e te la presto, così puoi guardarla, ma devi restituirmela».

Se qualcuno avesse raccontato a Dave che avrebbe incontrato un ragazzo disposto a passeggiare con lui e comprare dvd apposta per farglieli vedere, tra l'altro con l'evidente promessa di rivedersi di nuovo - il tutto dopo una decina scarsa di minuti di conversazione - molto probabilmente avrebbe riso in faccia al proprio interlocutore. Eppure, quel ragazzo esagitato con i capelli imbevuti di lacca si era dimostrato amichevole ed espansivo, un vero e proprio Cicerone per Dave che, già alla vista di una semplice Drag Queen, cadeva nell'imbarazzo più nero e fissava ostinatamente lo sguardo sul marciapiede.

Quando ebbe pagato, Kurt affidò la bustina a Dave e lo trascinò su e giù per tutte le strade più belle del quartiere, indicandogli le discoteche e i bar con una sicurezza che pareva derivare da un'esperienza notevole.

E il bello era che, nonostante la pendenza del terreno e la parlantina continua, sembrava non gli mancasse mai il fiato.

«Lo Scandals non è l'unico locale decente, sai? Ce ne sono di più belli, tipo il Boy Toy o il Babylon, però te li sconsiglio. Voglio dire, la clientela media di quei posti è molto interessata all’approccio una botta e via, e tu non mi sembri il tipo, per cui...»

«Oddio, ma quello è-»

«Godiva. Quella è Godiva. Se la becchi per strada non parlare mai di lei al maschile, altrimenti ti affetterà i bulbi oculari con quelle sue unghie perfettamente ricostruite e ti chiederà anche i danni per averle sporcato di sangue il vestito».

«E invece quel gruppo di...»

«Lesbiche. Non avvicinarti mai a loro a meno che tu non diventi un fashonista effeminato come me. E non considerarle alla stregua delle altre donne, perché non lo sono... hanno più palle di una squadra di giocatori di rugby, probabilmente».

E tra i ragazzi in abiti succinti, le donne con i capelli cortissimi e le braccia tatuate e i boa di piume colorate che circondavano le silhouette inconcepibilmente perfette delle drag queen, Dave si sentiva come un bambino in un negozio di caramelle colorate. Le luci abbaglianti della strada, i vestiti di paillette, la musica e la folla, tutto aveva un sapore di libertà cercata e a lungo desiderata, di gioia di vivere. Però – e questo il ragazzo lo avvertiva, attorno a sé, senza che ve ne fosse manifestazione alcuna – tutta quell’allegria pareva quasi una patina opaca che si era creata appositamente per coprire un baratro di sentimenti ben più cupi, una sorta di festeggiamento di massa volto a dimenticare quanto, fuori dal cosmopolitismo accogliente di Castro, la vita continuasse ad essere maledettamente difficile.

Kurt pareva la personificazione stessa di quel sentimento, con la sua grazia femminea e i vestiti eccentrici e firmati, con la pelle chiarissima e i capelli accuratamente acconciati e gli occhi traslucidi. Guardarlo mentre sorrideva al mondo con l’affettazione svagata e noncurante del carcerato che si gode la sua ora d’aria fu per Dave più doloroso di una coltellata in pieno petto, perché era come rendersi conto tutto d’un tratto che l’orgoglio gay di cui il ragazzo si ammantava non era altro che una maschera per proteggere ferite ancora fresche dall’attacco del mondo. Sarebbe diventato anche lui così, qualora avesse deciso di cedere ai propri desideri?

«Sai,» Kurt, rimasto per qualche minuto in silenzio, si intromise nel flusso dei suoi pensieri con la sua voce flautata «pensavo che potremmo rifarlo, qualche altra volta. Ci sono un mucchio di posti che ancora non conosci, e io non posso portarti dappertutto stasera».

Dave sorrise. Fanculo le paranoie, stava così bene.

«Certo, per me non c’è problema». Aveva come la sensazione che, almeno per quel mese, il numero di cene con i colleghi avrebbe subito un notevole aumento. Era sicuro che a sua moglie non sarebbe dispiaciuto troppo.

«Bene, ma non sperare che abbia finito. C’è ancora il... oh, il teatro! A te piace il teatro, vero?»


***


Quando David si svegliò, la mattina successiva, per la prima volta dopo molto tempo guardò fuori dalla finestra, ascoltò il confuso cinguettare degli uccelli e sorrise.

Sua moglie dormiva piano, accanto a lui, i capelli biondi sparsi sul cuscino, ma non era lei a interessarlo: i suoi occhi, ancora parzialmente incollati dal sonno, corsero al comodino dalla sua parte del letto, e in particolare all’ultimo cassetto in basso. In quel minuscolo vano buio, incastrato tra le pagine di una Bibbia che non si era mai dato la pena di sfogliare, c’era un biglietto che Kurt gli aveva lasciato la sera prima.

Con il suo numero di telefono.

David si alzò lentamente, facendo bene attenzione a non svegliare sua moglie, infilò le pantofole e, rabbrividendo per l’aria fresca che gli accarezzava la pelle nuda del torace, raggiunse la cucina e si mise a preparare il caffè. Patrisha, ancora schiacciata sotto le coperte, mugolò qualcosa di inintelligibile e si rigirò un paio di volte.

Karofsky non voleva pensare a lei, non quando i suoi occhi erano ancora pieni del viso di Kurt e nella sua testa la voce dolce del ragazzo si ripeteva in un loop infinito. Gli aveva detto che si era divertito e gli sarebbe piaciuto uscire per un caffè, o a vedere un film; Dave non aveva mai fatto una conquista così facile in tutta la sua vita – perché lo capiva, lo sapeva che tra lui e Hummel c’era esattamente quel tipo di chimica che mancava nella sua vita matrimoniale – e si sentiva scoppiare dalla felicità ogni volta che pensava alla prospettiva di rivedere il ragazzo.

Era rimasto letteralmente folgorato.

Forse erano stati i suoi occhi. Forse la sua voce, o il suo corpo.

Non riusciva a concentrarsi su nient’altro.

Quando Patrisha entrò in cucina la salutò con un bacio sulla guancia e si riavvicinò ai fornelli, l’attenzione assorbita da quella nuova, meravigliosa sensazione di speranza che lo faceva sentire così stupidamente felice. Lei, invece, fu più cortese.

«Che hai fatto ieri sera? Il bowling è andato bene?»

«Mh, sì. Azimio come al solito ci ha fatto perdere».

Avrebbe voluto dimenticarsi della sua presenza. Ogni volta che incrociava per sbaglio gli occhi scuri della moglie David si sentiva invadere da un disagio strano, paurosamente simile al senso di colpa: tecnicamente non l’aveva tradita, ma aveva incontrato un ragazzo con cui si era ripromesso di uscire ancora e di sicuro non perché avesse bisogno di farsi nuove amicizie. Le aveva mentito per tanti anni senza preoccuparsene, eppure... quello che era successo la sera prima lo faceva sentire meschino.

Meschino e felice.

Benvenuto nella tua vita, Dave...” pensò, sorseggiando il caffè con una smorfia. Non era mai stato in grado di prepararne uno decente.

«Questo sabato che ne diresti di andare a cena fuori?»

«Mi dispiace, Pat. Ho detto ad Azimio che ci saremmo visti con gli altri per... la partita dell’NBA».

Afferrando una fetta biscottata e osservandone la superficie bucherellata con noncuranza, Dave si domandò quale potesse essere un buon regalo da portare a Kurt per il loro primo appuntamento.

Forse dei fiori.


***


Si erano visti spesso, quel mese.

Erano andati al cinema insieme, avevano pranzato in cinque dei ristoranti preferiti di Kurt – che nutriva una predilezione particolare per la cucina italiana e francese e un odio viscerale verso i fast food, avevano visitato una mostra d’arte iperrealista che si era tenuta in quei giorni a San Francisco e David si era fatto perfino trascinare ad una svendita di Prada che per poco non lo aveva ucciso. Vedere il lato omicida di Kurt risvegliarsi davanti ad un paio di pantaloni beige di velluto a coste era quanto di più tremendo gli fosse mai capitato, ma – inspiegabilmente – tutto quello che Hummel faceva risultava al più insolito.

C’erano tante cose da sapere su quel ragazzo.

Per esempio, che amava il cioccolato ma preferiva evitare di mangiarlo per paura di ingrassare. Che considerava i suoi rituali serali e mattutini di idratazione della pelle più importanti di qualsiasi altra cosa, che partecipava a tutti i Pride perché erano l’unica occasione in cui poteva vestirsi con i colori della bandiera arcobaleno. Una volta, gli disse, suo padre l’aveva accompagnato nella parata delle famiglie, ed era stato uno dei momenti più belli della sua vita.

David lo invidiò profondamente.

Una sera – era da un paio di settimane che uscivano regolarmente ogni due giorni, e Dave si era inventato un progetto di lavoro particolarmente oneroso per calmare Pat – mentre guardavano un film horror al cinema, Kurt si era accostato al suo corpo fino ad appoggiargli la testa sulla spalla, e aveva sospirato. Karofsky aveva percepito un senso di calore piacevole e morbido, proprio al centro del petto, e aveva rilassato la schiena contro la poltroncina senza azzardare nient’altro. Aveva capito – più o meno – che Kurt era un tipo estremamente romantico, e non gli andava di correre e rovinare tutto per le sue solite fregole.

Qualche giorno dopo, in un parchetto pubblico dove, sotto l’ombra degli alberi, l’aria era meno soffocante che altrove, Dave l’aveva guardato dormire sul prato, con la testa abbandonata tra l’erba verde e l’espressione serena. Era così bello che guardarlo faceva quasi male.

Quando si era svegliato, con quegli occhi che erano blu, verdi e grigi insieme, lo aveva guardato e aveva sorriso.

«Scusami, ti ho lasciato da solo».

E David avrebbe voluto rispondergli che non gli importava, che andava benissimo così. Non aveva mai conosciuto una calma così perfetta.


***


Aveva aspettato un’altra settimana prima di decidersi a baciarlo.

Gli ci era voluta una presa di coscienza notevole e un pomeriggio di telefonate al ristorante francese preferito da Kurt, ma era riuscito a prenotare un tavolo per due con vista sul Golden Gate Bridge. Aveva usato i risparmi conservati per andare in vacanza quell’estate, ma non se ne era pentito nemmeno per un secondo; sorridendo, orgoglioso di sé stesso come poche altre volte nella sua vita, si era presentato sotto casa di Kurt – un appartamento piuttosto piccolo, in periferia – alle sette e mezza in punto.

E quando lui aprì il portone, vestito con un’eleganza a cui nessun uomo etero avrebbe mai potuto anche solo avvicinarsi, David comprese di essersi spinto troppo oltre per tornare indietro.

«Non riesco a capire come tu abbia fatto a trovare un posto».

Fissò Kurt e pensò a quando sua moglie gli aveva chiesto di prenotare in quello stesso ristorante per il loro anniversario. Alla fine, avevano ripiegato su un locale caratteristico del quartiere italiano.

«Mi sono impegnato. Queste sono per te».

Un mazzo di rose così rosse da sembrare imbevute di sangue. Hummel, vedendole, si imporporò e le accettò con un impercettibile cenno del capo, non sapendo come reagire; Dave non poteva saperlo, ma quella era la prima volta che un cavaliere realizzava il suo sogno romantico numero uno, quello del bouquet al primo appuntamento.

«Oh, io non so davvero cosa... grazie, Dave. Sono... sono stupende».

Gli tenne aperta la portiera, richiudendola delicatamente una volta che si fu seduto. Si sentiva ridicolmente galante e sdolcinato, ma sapeva perfettamente che a Kurt quel tipo di attenzioni facevano piacere e tanto bastava.

Durante il tragitto parlarono del più e del meno - la carriera di Hummel, che David aveva scoperto essere un ventunenne aspirante modello - e, come spesso accadeva, del coming-out di Karofsky. Questi era abbastanza sicuro di non poter reggere la fantomatica vita familiare ancora molto a lungo, ma abbandonare tutto per stare insieme al ragazzo che in quel momento gli sorrideva dolcemente lo spaventava, inutile negarlo.

Ad ogni modo, non era il momento adatto per pensarci.

«Alla fine ti hanno preso, quindi?»

Kurt annuì, il mento sorretto da una mano, e si soffermò per un attimo sul paesaggio buio che scorreva fuori dal finestrino. Era uno di quei momenti in cui il suo viso assumeva un'espressione assorta, pensosa, e sembrava che i suoi occhi si perdessero da qualche parte nel vuoto, impossibili da raggiungere.

«Era da tutta la vita che aspettavo quest'occasione. Sai, il mio primo catalogo importante...»

«Che marca?»

Ridacchiò, lanciando a Dave un'occhiata scherzosamente corrucciata.

«Da quando ti interessa la moda? Confondi Valentino con Chanel!»

«Da quando è sicuro che farai quelle foto. Allora, che marca è?»

«Marc Jacobs».

David fece una faccia spaesata che intenerì particolarmente Kurt. Allungò lentamente una mano e la poggiò su quella del compagno, così grande rispetto alla sua, saldamente ancorata alla leva del cambio.

«Non devi conoscere per forza Marc Jacobs per portarmi fuori a cena, Dave. Vai benissimo così come sei, e poi mi sono stufato di vedere gay che impazziscono quando racconto in giro che lavoro come modello».

Karofsky inarcò un sopracciglio, vagamente incredulo.

«Guarda che non scherzo. Ogni volta che me ne esco sui servizi fotografici i miei amici partono a urlare "Oddio, ma davveroooo? E hai lavorato per Gucci? E per Cavalli? Conosci qualche stilista italiano?"» Alzò il tono di un'ottava, atteggiando il viso in una smorfia così ridicola che David non poté astenersi dal ridacchiare.

Il viaggio durò tre quarti d’ora circa, al termine dei quali Karofsky lasciò la macchina nello spazioso parcheggio del ristorante e, un sorriso a trentadue denti dipinto sul viso, scortò Kurt fino all’entrata.

Il Palais era uno dei ristoranti più prestigiosi di San Francisco; si affacciava sul Golden Gate Bridge, era sito in un palazzo dall’aria stranamente antiquata – dissonante, si sarebbe detto, con gli edifici moderni che lo circondavano – e vi si accedeva tramite un portone a vetri, sorvegliato da un uomo in divisa che sedeva ad una scrivania con il registro delle prenotazioni. Kurt, estasiato, fissò prima la facciata – decorata da stucchi e fregi di una delicatissima tinta alabastrina – poi l’interno, ammobiliato come un palazzo europeo di grande eleganza. Il pavimento, di marmo, pareva uno specchio tanto era lucido.

«Oh, David... è davvero...»

«Spero che ti piaccia. Io non ci capisco niente di ristoranti, così-» La breve arringa di Karofsky fu troncata dall’arrivo di un cameriere, che condusse entrambi ad un tavolo appartato, apparecchiato per due. La sala in cui si trovava era estremamente ampia, illuminata a giorno da lampadari d’ottone dorato che sostenevano migliaia di gocce di cristallo; al centro stava una piccola orchestra da camera, che suonava un’aria piacevole e rilassante, delicata. Il lato della sala che era rivolto verso il ponte era quasi completamente vetrato, e dalle finestre alte fino al soffitto si poteva ammirare un panorama mozzafiato.

Gli arredi e i decori dell’ambiente erano di una tale eleganza classica che Kurt fece tutto il tragitto sino alla propria sedia appoggiandosi a Dave, troppo preso da tutta quell’opulenza per pensare a dove mettere i piedi.

«Io» proclamò, accomodandosi al tavolo con un sorriso smagliante «non so come tu abbia fatto, ma questo è incredibile! Sembra un film Disney... ah, guarda che posate! E- oh, mio Dio! La tovaglia! Quando lo racconterò a Santana e gli altri non ci crederanno mai».

«Santana, come il chitarrista?» Domandò Dave, sfogliando distrattamente un menù che proponeva piatti dai nomi impronunciabili a prezzi esorbitanti. Aveva letto un buon ventaglio di recensioni su internet, assicurandosi che la cucina di quel posto fosse all’altezza dell’ambiente e, soprattutto, dei costi.

«Sì, be’, lei è una delle maggiori attiviste della comunità LGBTQ. Quando mi sono trasferito a San Francisco abbiamo vissuto insieme per un paio d’anni, poi lei si è fidanzata e io ho dovuto trovare un appartamento mio... è la mia migliore amica, anche se a volte può sembrare un po’... stronza. Fa anche lei la modella».

«Devi avere un mucchio di amici». Il tono di Karofsky era quasi triste, per questo abbassò un po’ la voce. Non voleva che Kurt sentisse quel tono durante la loro prima cena romantica.

«Oh, non sai quanti. Un giorno te li faccio conoscere, va bene?»

Ordinarono. Dave scelse pietanze a caso, causando una risatina deliziata di Kurt che, da parte sua, capiva perfettamente il francese e si era divertito persino a conversare amabilmente con il cameriere.

«Parlami ancora dei tuoi amici».

Kurt sorrise, infilzò una lumaca con i denti d’argento dell’apposita forchettina e cominciò a raccontare episodi di vita vissuta che, nell’incapacità di comprenderli appieno, David desiderò soltanto di poter vivere in prima persona. Avrebbe potuto ascoltare quel mormorio per tutta la sua vita.

Se ne rese conto in quel momento, e per un attimo quella consapevolezza lo colse impreparato, pietrificandolo.

Poi sorrise, e tornò a sorseggiare il suo vino.


***


David davvero non si aspettava che Kurt reggesse così poco l’alcool.

Sorreggendolo per la vita – che aveva sottile come un giunco, quasi fosse costantemente sul punto di spezzarsi, lo accompagnò fino alla macchina mentre quello continuava a parlargli di quando i due papà di una certa Rachel avevano inaugurato lo Scandals, o di quando un tale Blaine Anderson lo aveva corteggiato per settimane e poi era finito a letto con uno dei suoi migliori amici, Sebastian Smythe. Sembrava tutto così divertente, in bocca a quel ragazzo un po’ brillo.

«E poi Santana ha baciato Brittany e Queen si è incazzata perché lei stava con Brittany e allora...»

«Kurt. Kurt, siamo arrivati, sali in macchina». David era più grosso di Hummel, eppure gli fu impossibile costringerlo a sedersi al posto del passeggero. Gli oppose una resistenza scherzosa, infantile, aggrappandosi alle sue braccia e spingendosi verso di lui quando cercò di infilarlo nell’abitacolo, poi lo obbligò ad invertire i ruoli e appoggiarsi di schiena contro la carrozzeria. Sarebbe più corretto dire che fu David ad assecondarlo, perché, con gli occhi brillanti a causa dell’alcool e i movimenti scoordinati, Kurt non sarebbe stato capace di smuovere nemmeno un sassolino.

«Che c’è?»

«Sai... Dave. Nessuno, nessuno mi aveva mai portato in un ristorante così costoso prima. E lo so che probabilmente ti è costato tanto e sicuramente hai dovuto raccontare qualche balla a tua moglie, per cui... grazie. Penso che-» ridacchiò, appoggiandogli entrambe le mani sul petto «penso di essermi preso una bella cotta per te».

«Spero non sia stato solo per il ristorante francese». Sussurrò Dave, le guance improvvisamente bollenti, mentre sollevava entrambe le mani ad accarezzare il viso di Kurt, con delicatezza. Aveva le dita grandi e callose, ma riusciva comunque a percepire l’incredibile morbidezza e la grana finissima della sua pelle, il calore appena accennato che emanava. Si perse per un attimo negli occhi chiari di Hummel, spalancati nei suoi, e vi colse un tale turbine di emozioni – una tale intensità, che si sentì sprofondare, completamente rapito da qualcosa che sapeva di aver aspettato per tutta la sua vita senza mai trovarlo davvero.

Capì come si sarebbe dovuto sentire quando aveva baciato sua moglie, il giorno del matrimonio. Quando si erano scambiati le fedi e avevano tagliato la torta, quando aveva fatto sesso con lei durante la prima notte di nozze. Così, mentre di chinava sul viso di Kurt, sulle sue labbra morbide, umide, mentre lo guardava negli occhi e pensava a tutto ciò che avrebbe potuto fare e non aveva fatto, Dave comprese che quello era il primo gesto realmente importante della sua vita. La società l’avrebbe giudicato, avrebbe puntato il dito e riso alle sue spalle per i suoi gusti sessuali depravati, ma non gli importava. Non gli importava.

Voleva soltanto quelle labbra.

Lo baciò.

All’inizio fu come se qualcuno avesse azzerato tutte le sue esperienze passate e tracciato un unico, indelebile segno nero nel bianco assoluto che era diventata la sua mente. Percepì il sapore dolce di quelle labbra, il sentore del vino, e una scossa fortissima di elettricità, o forse una sorta di strano brivido caldo, gli percorse tutto il corpo. Rimase immobile, pietrificato, incapace di finire quello che aveva cominciato perché frastornato dalla sensazione impossibile che derivava da quel semplice contatto.

Si sentiva bene. Così dannatamente bene che per un attimo pensò di aver bevuto troppo vino anche lui.

Fortunatamente, Kurt pareva più impaziente di lui e, sicuramente, più navigato in quel tipo di situazioni.

Mosse leggermente le labbra, accostandosi a Dave fino a far combaciare il proprio petto con il suo. Era un invito silenzioso a farsi avanti, a riprendere il controllo della situazione, e, anche se Karofsky si sentiva sul punto di svenire, accolse il consiglio con sorprendente rapidità. Strinse la presa sul suo viso e approfondì il bacio, schiudendo con foga le labbra di Kurt e sfiorando la sua lingua, assaporando ogni vibrazione e respiro e tremito del suo corpo. Gli affondò le mani tra i capelli, lo sentì cedevole e accondiscendente come una bambola sotto il suo tocco. Era così bello, con il corpo asciutto e virile e il profumo, il suo profumo, che sapeva di buono e di casa, di familiarità.

E baciarlo non era come baciare una donna – niente delicatezza, nessuna finzione. Puro istinto, passione animale e foga che parevano scaturire da quel lato di sé che Dave aveva tenuto imbrigliato per quasi trent’anni. Non si era mai sentito così bene, così giusto.

Si staccarono che avevano entrambi il fiato corto.

«Sai, Dave...» Kurt ridacchiò, appoggiandogli la testa sulla spalla «... non mi era mai capitato di incontrare un ragazzo che aspettasse la cena romantica per baciarmi».

Il motivo per cui Karofsky aveva tergiversato così tanto prima di compiere quel gesto era che anche lui si rendeva conto di ciò che rappresentava. Baciare Kurt significava creare una crepa profonda e insanabile tra tutto quello che aveva fatto fino a quel momento e il suo futuro; non avrebbe più potuto guardare la vita con gli stessi occhi – di questo era certo – e non sarebbe stato mai più in grado di toccare altre labbra che non fossero le sue.

Ancora non del tutto consapevole dell’enormità di ciò che aveva appena fatto, Dave sorrise.

«E a me non era mai capitato di incontrare qualcuno che senza nemmeno conoscermi mi regalasse il dvd di una serie tv... a tema gay, tra l’altro».

«Magari perché sei andato un po’ troppo sullo specifico».

«Ok, ok... ritento. Non mi è mai capitato di incontrare qualcuno come te, Kurt».

Hummel si sollevò in punta di piedi e lo baciò di nuovo, lentamente.

«Ancora troppo specifico, ma considerati già perdonato. A proposito di quel famoso dvd... mi avevi p-promesso che me l’avresti restituito, o sbaglio?» Benché non fosse propriamente pallido, Kurt arrossì ancora di più – quasi pronunciare quelle parole gli costasse uno sforzo immenso.

«Mh-mh». David annuì, capendo già dove l’altro volesse andare a parare e stupendosi leggermente.

Da quando Kurt era così malizioso?

«Sei fortunato... ce l’ho in macchina. Pensavo di ridartelo un’altra volta, però... se ci tieni va bene anche stasera».

«Be’, io avrei anche qualche altro film da prestarti... e le puntate di Queer As Folk non sono finite».

«Mi stai chiedendo di salire?»

Kurt divenne di un color aragosta perfettamente uniforme.

«E-ecco, io... se tu non...»

«Sali in macchina, fancy».


***


David non fece in tempo a chiudersi la porta dell’appartamento alle spalle.

Notò un vago lampo di mobilio beige, pareti di un bianco panna e mobili ton-sur-ton, di un’eleganza raffinata ed eccentrica, e poi gli occhi di Kurt invasero il suo campo visivo. Lo baciò con un’urgenza così vorace, la bocca incollata alla sua e le mani artigliate al colletto della camicia, che Karofsky fece fatica a riconoscerlo.

Che poi... come ci erano arrivati, fino all’appartamento di Kurt?

In fondo, decise, il tragitto non era un dettaglio troppo importante da ricordare.

C’era un divano, in salotto, un bel divano beige pieno di cuscini bianchi e morbidi. Se Dave si fosse trovato in compagnia di chiunque altro non avrebbe esitato un secondo a buttarcisi; invece, combattendo contro la tentazione, si spostò sul collo di Kurt e gli infilò le mani sotto la camicia – sulla sua pelle, che era morbida e liscia come quella di una donna, se non di più.

«Dov’è la camera da letto?»

Kurt ridacchiò, si staccò per un attimo da lui – David si produsse in un mugugno frustrato a quell’interruzione – e lo prese per mano. Come in un sogno, con i contorni delle cose che si facevano inutili e sfocati e il cuore che gli batteva nel petto, impazzito, seguì il ragazzo più giovane finché questi non spalancò la porta della camera da letto. E David ci provò davvero a pensare a qualcosa che non fossero le coperte bianche e Kurt Kurt Kurt, ma non ci riuscì.

Lo spinse sul letto, e quello si abbandonò sul materasso con una smorfia divertita dipinta sul viso.

«Perché ridi?» Domandò, slacciandogli la camicia. Gli tremavano un po’ le mani, si sentiva come un cercatore d’oro davanti alla miniera che ha sognato per tutta la vita e che capisce, improvvisamente, di non saper gestire fino in fondo.

«Rido perché hai un modo deliziosamente etero di tirare fuori i bottoni dalle asole».

Le sue dita pallide furono decisamente più agili di quelle di Karofsky quando gli sfilò la giacca e la camicia, scoprendo il suo corpo imponente. Non era magro, David, e aveva un fisico che molti dei ragazzi dello Scandals avrebbero bocciato senza pensarci due volte; spesso si era impensierito, rimuginando su quello che avrebbe detto Kurt, vedendolo, ma nessuno dei suoi pronostici si avverò.

Semplicemente, Hummel gli allacciò le braccia attorno al collo e lo baciò.

«Sei così bello, Dave».

Sentirsi fare un complimento del genere da qualcuno che assomigliava ad una ninfa scolpita nel marmo bianco era quasi ironico; Kurt aveva il busto sottile come un giunco, con le costole che a tratti sporgevano sotto la pelle e una vita gracilissima, che sembrava fosse quasi sul punto di spezzarsi, e sdraiato così sul copriletto, gli occhi vigili fissi sul suo viso, era quanto di più bello Dave avesse mai visto.

Gli baciò il petto, adorante. Accarezzò con la lingua la linea incavata dello sterno, i capezzoli rosa. Li sentì tendersi tra le labbra, e pensò che qualche centimetro più sotto, dopo tutta la pelle e le ossa e i tessuti che rendevano Kurt una cosa bellissima e unica, c’era il suo cuore che batteva, i suoi polmoni che si contraevano sotto la spinta di lunghi sospiri carichi di eccitazione.

E le sue dita, tra i capelli, le sue mani che gli slacciavano la patta dei pantaloni e li facevano scivolare lentamente a terra insieme ai boxer, erano percezioni così nitide da sembrare irreali. Dave non aveva la stessa dimestichezza con quel tipo di cose, tanto che le sue dita scottavano quando spogliò Kurt dei suoi ultimi vestiti. Vederlo completamente nudo, pochi centimetri sotto di lui, gli mozzò il respiro in gola.

Non riuscì a staccare gli occhi dalle sue cosce, dalla loro forma graziosamente tornita. Era un uomo, era bello, era a sua completa disposizione. Era un uomo.

«Dave, sta’ calmo. Lascia fare a me, adesso».

Karofsky lasciò che Kurt si alzasse in piedi e lo facesse sdraiare sul letto. Percepì le sue labbra sul petto, le sentì lasciare una scia di baci umidi lungo tutto l’addome, scendendo sempre di più verso il basso. La bocca di Kurt era velluto, i suoi capelli seta quando David ci affondò le dita.

Poi, Karofsky si sentì bruciare.

Una sensazione di piacere travolgente gli infiammò il bassoventre e si fece strada ad unghiate attraverso le sue viscere, fino ad abbrancargli la gola e soffocarlo. Inarcò la schiena, spingendo la testa di Kurt verso il proprio corpo, le mani che stringevano spasmodicamente i ciuffi castani; non sapeva se gli stava facendo male, ma non era in grado di pensare a quello: sentiva soltanto il rombo del sangue nelle vene, il pulsare frenetico della sua eccitazione e i gemiti che, incontrollati, gli sfuggivano dalle labbra.

Voleva di più, disperatamente di più. Voleva tutto.

«Kurt… Kurt, non è così che…»

Hummel si staccò per un attimo, e lo guardò. Le sue iridi azzurre erano come liquide, di un blu così intenso da fargli girare la testa.

Lo vide alzarsi e frugare in un comodino, per poi riavvicinarsi con una bustina quadrata stretta tra indice e pollice e un tubetto che sembrava dentifricio nel palmo della mano. Strappò la bustina con i denti, poi salì sul letto.

Quello che accadde poi, David l’avrebbe ricordato come una delle cose più belle di tutta la sua vita.

Kurt scivolò sulla sua erezione in un colpo deciso, facendo perno sulle ginocchia. A Karofsky sfuggì un singulto stentato, mentre portava istintivamente le mani sui fianchi del ragazzo e lo faceva piegare su di sé per baciarlo di nuovo.

«Oh, Dio…»

E poi poté pensare soltanto a quanto Kurt fosse stretto, a quanto i suoi gemiti suonassero melodiosi mentre si sollevava e riabbassava ritmicamente sul suo bacino, la testa gettata all’indietro e i capelli scomposti, incollati al viso umido. La sua bocca era come una ferita scarlatta nel viso arrossato.

«David... ti amo…»

Per un attimo, nella dissoluzione bruciante dell’orgasmo, quella frase lo rese imperdonabilmente felice.


***

I capelli bagnati di Kurt gli solleticavano il collo.

Si erano fatti entrambi una doccia, poi erano tornati a letto. David non aveva smesso nemmeno per un attimo di accarezzare la sua pelle, anche se non era tanto sicuro che le sue dita, così sgraziate, potessero davvero produrre un effetto piacevole. Non si preoccupava nemmeno di sua moglie: aveva spento il telefono, che pensasse quello che voleva. Non gli importava più, ormai.

«La tua camera è molto… carina».

Il letto, a due piazze, stava al centro. Per terra c’era un parquet molto chiaro, dal disegno a spina di pesce, e le pareti erano bianche; il mobilio, minimalista e piuttosto ben assortito, comprendeva un armadio a muro e una libreria, un paio di comodini bassi e una scrivania sormontata da un computer di ultima generazione. Le abat-jour, unica nota di colore, erano di una tinta molto accesa – anche se, con la penombra in cui era immersa la stanza, era impossibile determinarla con precisione. Viola, forse.

«Sembra un po’ la redazione di Ugly Betty».

Kurt soffocò una risata contro il suo pomo d’Adamo.

«Non posso credere che tu guardi Ugly Betty».

«No, è mia moglie che ci va matta. Mi ha obbligato a guardarlo più di una volta».

L’espressione di Kurt si fece improvvisamente cupa, quasi irata; appoggiò la testa sulla spalla di Karofsky, fece scorrere le dita sul suo petto e sospirò.

«Che c’è?»

«Tua moglie… è buffo odiare una persona che nemmeno si conosce, non pensi?»

«Tu la odi, addirittura?»

«Be’, lei può stare con te quando vuole. Può pretenderti, capisci?»

«Sì, però-» la bocca di Karofsky si piegò in una smorfia amara «-però io la tradisco, Kurt».

«Ti ha avuto per così tanto tempo... non credo che potrebbe farsene una ragione, se lo scoprisse. Pensi di dirglielo?»

David sospirò. Si era rassegnato all’idea di rivelare la verità a Patrisha, prima o poi. Non poteva tenerla all’oscuro della sua relazione con Kurt per sempre, e ormai era chiaro come il sole di quanto non riuscisse più a fare a meno di quel ragazzo. Avrebbe scambiato tutti gli anni del suo matrimonio per un singolo giorno con lui.

Stranamente, poi, non si sentiva in colpa. Avvertiva soltanto un profondo senso di liberazione, come se qualcuno gli avesse strappato via dal petto una cinghia strettissima che gli aveva soffocato il respiro per quasi dieci anni. E sua moglie, Pat, tutte le occasioni belle e brutte che avevano passato insieme e di cui lei, inequivocabilmente, era la rappresentazione vivente, sembravano essere svanite. Karofsky si rese conto di non aver mai provato un sentimento travolgente come quello che lo legava a Kurt.

Il resto era solo finto.

«Penso di raccontarle tutto, presto. Però, Kurt...» inspirò, cercando di calmarsi «... non so se ce la faccio da solo».

Hummel allungò una mano a stringere la sua e se la portò al petto; David sentì il cuore battere sotto i polpastrelli.

«Ti aiuterò io».


***


Era scontato che sua moglie avrebbe preteso di sapere dov'era andato.

David rientrò in casa che erano le cinque e mezza di mattina; si sentiva stanco, ma incredibilmente felice, e quando chiuse la porta non fece caso al rumore. Buttò le chiavi nella ciotola portaoggetti in cucina e si avvicinò al frigorifero per bere qualcosa, aveva sete; afferrato il cartone di latte, ne versò una buona parte in una tazza di ceramica.

«Dove sei stato?!»

Si voltò con molta lentezza, deglutendo. Doveva solo decidere se ritardare il momento della catarsi o mettere fine a quella storia una volta per tutte.

«Da Azimio».

Patrisha stava sulla soglia della cucina, appoggiata allo stipite; indossava una t-shirt slargata, che le ricadeva sul viso magro, e i capelli biondi formavano una zazzera disordinata che le copriva in parte gli occhi verdi, accesi di rabbia. Tracce di trucco colato le segnavano le guance. Aveva pianto.

«Lo so che non è vero. Pensavi davvero che non l’avrei chiamato, quando mi sono accorta che non tornavi più?»

David si chiese perché mai non aveva trovato una scusa prima. Avrebbe potuto raccontarle qualsiasi cosa e gli avrebbe creduto ciecamente: party con gli ex-giocatori di football, soggiorni pagati dall’ufficio, qualche conferenza in un posto abbastanza lontano da permettergli di rimanere fuori tutta la notte.

E allora perché non l’aveva fatto?

Forse voleva semplicemente che lei se ne accorgesse prima che il tradimento diventasse concreto. David, su questo, non era mai stato molto onesto con sé stesso.

«Pat, senti... forse non è il momento per...»

«C’è un’altra donna, vero?»

Le sue parole lo fecero sobbalzare. Rimasero per qualche secondo lì, sospese nell’aria, orribilmente pesanti, e Dave le vede scivolare e infrangersi contro il muro della sua indifferenza, disegnandovi una lunga, insanabile crepa. Perché Patrisha aveva ragione, aveva tutti i buoni motivi del mondo per usare quel tono furibondo. Nella sua voce era contenuta una tale miscela di sentimenti – rabbia, tristezza, disperazione e soprattutto amore – che per qualche secondo David valutò l’opzione di mentire e tornare alla sua vita di sempre, senza Kurt. Poi capì che non ci sarebbe mai riuscito e che, in fondo, era meglio così.

Annuì. Sapeva che quella era la parte più facile, che lei avrebbe preteso spiegazioni e lui avrebbe dovuto sciogliere prima il groppo che gli opprimeva la gola, per dargliele.

«Lo sapevo. Lo sapevo. Era da... da un mese che ti comportavi come... come... un pazzo, e-»

«Pazzo?»

«Non mi ascolti più quando parlo, fai finta che io non esista». Le parole scorrevano via dalla sua bocca come un torrente, tremanti di rabbia e dolore «Scommetto... scommetto che è una di quelle puttanelle del tuo ufficio, vero? Una lurida troia con le tette rifatte che-»

«No, Pat. Non ha le tette rifatte». Dave era come in trance, si sentiva istupidito. Oh, il grande momento pesava più di quanto avesse immaginato.

«Ed è più... più bella di me, vero? Una donna in carriera, magari. Stai mandando a puttane il matrimonio per una schifosa arrivista che vuole... vuole i tuoi soldi, cos’atro potrebbe volere da te?! Almeno glie l’hai detto che sei sposato? Saprà con che lurido stronzo figlio di puttana ha a che fare!» La sua voce era aumentata di tono sempre di più, fino a diventare stridula e fastidiosa. David rimpianse segretamente i mormorii delicati di Kurt quando l’aveva rassicurato, quella notte.

«Vaffanculo!» Come al rallentatore, Karofksy vide sua moglie afferrare uno straccio dal tavolo della cucina e tirarglielo addosso. La stoffa impattò contro il suo viso senza fare alcun danno, poi scivolò a terra; non si sforzò nemmeno di raccoglierla.

«Da quanto la conosci, eh? La ami? Tu hai... hai distrutto tutto, David. Io... io ti voglio fuori da qui, adesso».

«Aspetta, Pat...»

«FUORI DI QUI!»

«Non è una donna, Pat. Non mi vedo con una donna». Gli occhi di Patrisha si fecero a mano a mano più grandi, mentre metabolizzava quelle parole «Si chiama Kurt, ed è un ragazzo che ho conosciuto a Castro. Penso di... penso di amarlo».

Poi, David prese un respiro profondo. Sua moglie lo fissava come se avesse davanti un fantasma, le nocche della mano stretta sullo stipite bianche come la neve.

«Io non ti ho mai amata». Fu crudele, ma anche giusto. Quelle cinque parole richiesero uno sforzo notevole, e alla fine David trovò qualche difficoltà nel guardare Patrisha negli occhi.

«Io... io non ci posso credere. Io credevo che... Tu hai... con un uomo! Come hai potuto farmi questo, David?!»

David non se ne accorse nemmeno, quando cominciò a gridare. A tirargli tutto ciò che le capitava tra le mani, a strapparsi i capelli e battere i piedi e urlare che no no no suo marito non poteva essere davvero uno schifosissimo frocio.

Perché, ehi, non gliene importava nulla.

Di quella donna sciatta e ignorante che aveva preteso di sapere tutto di lui quando invece non lo conosceva affatto. Di quella vita che gli stava stretta, di quella casa scelta da qualcun altro, delle sue disgustose giornate da uomo-che-più-etero-non-si-può. Dei preconcetti della gente che – lo sapeva – l’avrebbe guardato male e additato per strada se solo si fosse azzardato a camminare mano nella mano con Kurt fuori da Castro.

In quel momento, guardando la sua meravigliosa moglie etero che spaccava soprammobili e si sgolava per rinfacciargli qualcosa che lui non poteva assolutamente cambiare, Dave comprese che tutto il suo mondo artefatto era appena crollato come un castello di carte, e la cosa non lo sconvolgeva minimamente.

Che bruciasse, quel mondo di benpensanti.

Uscì dalla cucina senza guardarsi indietro. Attraversò il salotto arredato IKEA in cui lui e Pat avevano visto tutte le partite dell’NBA, il corridoio pieno di foto che li ritraevano abbracciati, città esotiche e oceani azzurri sullo sfondo, e gettò persino uno sguardo alla camera da letto, la culla dei suoi ricordi più infamanti e dolorosi.

E capì che era libero.

Libero di pensare, di essere e agire secondo i suoi desideri. Fanculo tutto, fanculo Pat e Dio e il mondo e l’America e la famiglia e il lavoro, era libero.

Corse fuori dalla porta con le gambe che gli tremavano. Buttò la giacca sull’erba bagnata di rugiada notturna e, sollevato lo sguardo, vide il cielo dorato dell’alba, il sole bianchissimo che si sollevava tingendo le nubi di un candore iridescente. Decise che avrebbe guardato quello spettacolo con Kurt tutte le volte che avesse voluto. Pensò ad un mucchio di cose che non aveva ancora fatto con lui e che non si sarebbe fatto sfuggire.

Andare in campeggio al parco dello Yellowstone.

Giocare a biliardo come vecchi amici.

Fare l’amore sull’erba.

Sposarsi.

D’improvviso, ogni cosa divenne possibile. Dave, con le lacrime a rigargli le guance e un calore luminoso e benefico ad accendergli gli occhi e illuminargli il petto, giurò che non avrebbe più sprecato una sola occasione per essere felice.


END


























_Angolo del Fancazzismo_

Quindici pagine di una one-shot che più pointless nun se po'. Nel caso voleste uccidermi, sappiate che mi evitereste una potenziale interrogazione di latino domani e ciò potrebbe rendermi molto felice :P

Ad ogni modo, perché ho pubblicato questo orrore? Ehm.

Innanzitutto perché ci ho messo quattro giorni per scriverla, e, benché il risultato mi dia non so come l'idea di aver inutilmente sprecato il mio tempo, è comunque un prodotto dei miei sforzi. Il secondo motivo è che sto cercando di riempire la Big Damn Table (otto one shot su cento... sono a cavallo!) e ultimamente la Kurtofsky mi ha letteralmente rapita, per cui... beccatevi questa!

Sì, è affrettata e non ha praticamente nessun senso, Dave è OOC come pochi e il tutto appare come un terrificante polpettone gay friendly. Sull'orrido nome della moglie - Patrisha - è lì per un motivo, non l'ho messo a caso. Diciamo che lo dedico tutto al personaggio principale di un libro che ho particolarmente amato <3

See you soon,

Roby


ps. A proposito della BDT, ho usato il prompt #086, "Scelte"


   
 
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