Capitolo 2
Accasciata alla luce del mattino da poche ore nato,
la grande villa sembrava una bestia addormentata tra i ciuffi verdeggianti
degli alberi che la circondavano oltre le basse aiuole di pietre bianche, da
cui spuntavano, cresciute nel tempo con pioggia e baci di sole, le teste lunghe
e vivaci dell’erba. Luisa si fermò trionfante ad osservare la sua nuova
conquista.
Da sotto le suole delle sue scarpe, una lunga via
lastricata si sdipanava per metri e metri, correndo tra le labbra di quelle
recinzioni di masso come le linee sinuose di una donna, seguendo un disegno
estraneo da tutti quelli che sino ad ora si erano affacciati al panorama
dell’edilizia, punteggiato di onde quasi invisibili.
Lo sguardo incontrava diversi ostacoli, spingendosi
sino alla facciata scrostata della casa. La donna, alle cui spalle si era
chiuso un pesante cancello in ferro, levigato da sapienti mani e graffiato da
lunghe tempeste, posò i bagagli a terra. Qua e là, avventurieri della natura,
alcuni rami si erano stirati sino a coprire il selciato con la loro tenue
ombra, promettendo ai visitatori una passeggiata da incubo in quello che pareva
un tunnel naturale in costruzione. Non
sei tu il padrone di questo luogo.
Luisa, la cui mente di scrittrice aveva il brutto
vizio di galoppare, quella volta rabbrividì. Non era ancora vicina a quelle
scale vittoriane di quel bianco slavato, eppure una sensazione inquietante si fece
largo sino a lei mentre le sue pupille fini si posavano sull’orbita scura del
portone della casa. Sotto le carezze tiepide del sole, la donna rabbrividì.
Dalle viscere dei giardini – due ampie ali incolte
che si univano nel retro della proprietà in un glorioso spiazzo verde –
proveniva un soffocante sentore. La donna si guardò attorno, sbirciando oltre i
tronchi degli alberi.
Occhi di tenebra la colsero, sguardi antichi che, ne
era sicura, erano parte della villa e che, tra poche ore, sarebbero già stati
familiari.
Luisa si mosse, riprendendo i bagagli. Lasciandosi
alle spalle quell’avvertimento sussurratole da quelle stesse pietre su cui
camminava, da quelle foglie, da quel silenzio.
Occhi di pietra, infossati nell’intrico del
giardino, la seguirono.
Al centro di quella singolare bacinella che
formavano le aiuole – una coppa tra mani giunte come nel desiderio di
raccogliere acqua piovana – s’alzava verso il cielo una struttura di muratura a
tre piani, alla cui sommità sbocciava un giglio, che fissava il cielo con
l’apertura armonica tra i suoi petali. La fontana, perché di questo si
trattava, era percorsa, almeno per i primi due piani, da gigli stuccati in
rilievo, che riportavano la loro fantasia su quel memoriale acquatico che, anni
prima, aveva illuminato di giochi il parco.
Luisa passò una mano sul parapetto della fontana,
seguendone il levigato tratto. Sul fondo vi erano i segni dell’acqua che vi
aveva ristagnato, le dentature verdastre di quell’antica abitante.
Tutto era silenzio, tra le volute dorate della luce
che si specchiava su quella tavolozza verde e bianca. Luisa oltrepassò la
fontana e si appressò lenta verso la casa, ritrovandosi infine davanti ai suoi
scalini bianchi.
Salì, portandosi dietro le valigie, osservando le
lingue di terreno che sottostavano ai corrimano a scivolo, che come le aiuole
si aprivano in una foca larga e sinuosa per abbracciare il sentiero lastricato.
Incassato in una cornice macchiata dal tempo stava il portone, che con la sua
tinta bruna spiccava come l’alfiere nero in una folla di prede bianche. La sua
lignea figura era incastonata di quadrati intagliati, su cui spuntava un batocchio
ossidato che raffigurava un gargoyle dalla cui bocca spuntava un elaborato
anello metallico.
La donna trasse le chiavi dalla borsa che teneva a
tracolla, un paio di pesanti oggetti lustrati a cui era ancora appeso il
cartellino immobiliare, su cui una grafia frettolosa e tonda aveva appuntato
l’indirizzo dell’immobile.
La testa metallica s’incastrò perfettamente nella
serratura, alzando uno squittio cupo alla pressione. Luisa girò con fatica la
chiave, che si inceppò come un cavallo imbizzarrito.
Il sudaticcio omino dell’agenzia immobiliare che le
aveva mostrato la villa le aveva annunciato le serie problematiche nell’aprirne
la porta, ma lei non demorse, e con un paio di calci e vigorose spinte la porta
s’aprì, svelando i tenebrosi intestini dell’edificio.
Alla luce gettata dall’intrusione, dal pavimento
labirintico s’alzò una nuvola di polvere. La donna entrò coprendosi la bocca
con una mano, mentre le particelle granulose s’infrangevano sulla sua figura. I
suoi passi lasciavano impronte lucide sulle piastrelline bianche e nere che
formavano il disegno del pavimento, una grande e semovente girandola
sfaccettata, che rendeva quell’ambiente, se possibile, ancora più grande.
Sulla destra, lontana e nascosta, doveva essere la
porta per immettersi nell’ala est, celata da un paio di drappi sporchi che,
pochi giorni prima, l’agente dell’immobiliare aveva spostato con un bastone
rimasto abbandonato proprio lì, accanto alla porta.
Luisa lo prese, utilizzandolo come un bastone da
passeggio.
Sulla sinistra, la lunga onda delle scale si apriva
riportando la figura della scalinata esterna, ma questa volta con intagli
impressi nel lucido legno, che occhieggiava da sotto la polvere.
I passi che lei e l’uomo avevano disseminato erano
già coperti di pulviscolo, e si riconoscevano solo aguzzando la vista. Luisa
spalancò una persiana accanto alla rampa di scale, e la luce piovve attraverso
i vetri sporchi come una benedizione.
Si sentivano le urla silenti di quel mostro
addormentato, si disse; si sente la sua ira nell’essere stato svegliato. Era
come un grande gatto arruffato. Le scale, al suo passaggio, cigolarono appena.
Più assordanti furono i passettini di bestie invisibili che si ritiravano di
gran carriera nell’ombra.
Per tutto il reticolo della casa, le porte delle
stanze si rivelarono socchiuse. Attraverso gli spiragli, che Luisa si divertì
ad allargare, solo una panoramica si intravide: grandi stanze vuote, finestre
chiuse, a volte inchiodate, a volte semplicemente accecate dalle persiane, a
volte senza alcuni vetri. Polvere e silenzio, e scarti di dubbia provenienza
lasciati dai topi.
Solo una porta si rivelò aperta.
Luisa le passò davanti ormai senza darci conto,
quando già aveva abbandonato l’intento di aprire ogni porta che le si
presentava, stanca di assistere allo stesso panorama desolato. Tornò indietro
di qualche passo, individuando una fonte di luce.
Se ne era quasi dimenticata, di quella stanza in cui
era entrata col suo cicerone dell’agenzia. La donna sorrise, andando incontro
all’unico mobile della casa, investito da una lama di luce che cadeva obliqua
da un vetro della finestra, la cui metà persiana era caduta inesorabilmente.
Poggiò le mani sul piano levigato, aprendo
nuovamente i cassetti. Di nuovo quel profumo stantio di trucchi, e un vago
sentore di fiore e alcool. Di nuovo quel cassetto.
Posò a terra le valigie, senza curarsi troppo della
polvere. Il suo senso del mistero si accrebbe miracolosamente, e la invitò a cercare
un fermacapelli in una delle tasche della borsa.
Scrivere di scassinatori e ladri aveva dato i suoi
frutti, e dopo un paio di minuti trascorsi nel tentativo di aprire il cassetto,
finì trionfante la sua opera, tirando infine il gancio lavorato assicurato al
legno.
Una nuvola di polvere s’alzò, e con uno strofinio la
carta che ricopriva i cassetti si mostrò, scolorita e macchiata.
Sul fondo, solo un oggetto, liscio e sporco.
Un cipollino d’argento.