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Autore: xNewYorker__    02/04/2012    1 recensioni
Andrea Kennedy. Questo nome non vi dice niente? No?
E se dicessi Shannon Washington? O Robert Kennedy?
Ambientata dopo l'ultimo capitolo di "Have an awkward Christmas!", il primo giorno di scuola di Andrea e del suo gemello Harrison.
Anche dopo tutti questi anni i loro genitori non sono cambiati affatto.
Genere: Comico, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi alzai di scatto e presi uno zaino che avevo comprato la settimana prima, e se ne stava buttato sotto il mio letto, al quarto piano.
La casa dei miei non era il massimo della comodità per gente non scimmiesca.
«E’ ORA DI ANDARE A SCUOLAAAAAAA!», urlai selvaggiamente, iniziando a saltellare nei miei pantaloncini bianchi e nella mia canottiera blu, indossati per la notte.
Tenni stretto lo zaino mentre mi attaccavo al trapezio che fungeva da passaggio per il corridoio.
Scivolai fino ad arrivare in soggiorno, lanciandomi a terra con un grido di trionfo e un «WATTAAAA’!», mentre saltavo sulle spalle di mio padre.
«Kennedy, non sputare la colazione che la mamma si arrabbia», gli consigliai, ridendo e tornando coi piedi definitivamente a terra.
Mi guardò, sorseggiando il suo caffè appena preparato.
«Sei proprio quello che mi auguravo diventassi solo a metà», commentò, il sopracciglio alzato ma un’espressione d’orgoglio allo stesso tempo.
«Cioè?», cercai di farmi spiegare.
«Cioè la copia di tua madre quando aveva la tua età», «UUUUH, la mamma era bionda?».
Sorrise. «No, bionda no, ma era chiassosa e casinista come te», rispose, riprendendo a leggere il giornale.
Assunsi un’espressione amara.
Ma io non sono casinista, io sono solo attiva! O comunque meno pigra di mia madre.
Oh, ma non mi sono ancora presentata! Il mio nome è Andrea Marie Daveigh Kennedy, ho tredici anni e il quattordici Settembre del 2884 avrei iniziato a frequentare l’Aqua Academy con quella palla al piede di mio fratello Harr. O meglio, Harrison.
Mia madre dice continuamente che devo presentarmi prima di raccontare qualcosa a qualcuno, ma a volte mi dimentico, come delle volte di quando mi dice di mangiare il pesce. Non mi piace il pesce! Ma non è questo il punto.
Per Kennedy, sì, intendo Robert Gregory Kennedy, un quarantacinquenne alto, muscoloso e tanto figo secondo le mie compagne della vecchia scuola.
Uhm, per me è solo mio padre. E lo chiamo per cognome perché quando ero piccola sentivo la mamma chiamarlo così. A casa ci chiamiamo per cognome.
Cioè, io ed Harr chiamiamo i nostri per cognome.
Tradizione insolita, vero? Come la biancheria rossa della mamma durante il periodo natalizio.
Mi sedetti al tavolo accanto a mio padre, sbirciando quello che stava leggendo.
«Un altro incidente?», chiesi, sbuffando annoiata e spostando i capelli dalla faccia.
Sentimmo un tonfo e ci girammo entrambi, vedendo alle nostre spalle Coraline che portava Harrison di peso al trapezio. Scoppiai a ridere.
«Kennedy, ma tua moglie dov’è?». Inarcai un sopracciglio come lui aveva fatto prima.
«Wash…ehm, la mamma è al piano di sopra. Si sta preparando anche lei per ricominciare la scuola. Dici che sarà dura averla come insegnante?», «Non quanto avere te come insegnante». Risi.
Sarebbe stato orribile, frustrante, tremendo avere i miei come professori.
Fortuna che la mamma mi aveva educata a sopportare la fatica o, da quanto avevo sentito, sarei potuta morire.
«Buongiorno! Piccoletta, sei pronta per affrontare la scuola?», mi chiese Coraline, raggiante, già pronta per uscire coi suoi pantaloncini e la maglia larga, i capelli raccolti in un’alta coda di cavallo.
«Io sì, lui un po’ meno», col capo indicai mio fratello che dormicchiava nella stretta pressante di nostra sorella.
«Questo qui ha bisogno di una terapia intensiva. Rob, ci pensi tu?», e ammiccò verso papà con un ghigno di chi sa qualcosa.
«Subito», rispose mio padre.
«HARRISON JONATHAN CLARK KENNEDY JR, ALZATI O NON ARRIVERAI ALLA FINE DELLA GIORNATA!», urlò.
Anche la mia risata isterica, oltre al suo urlare, svegliò del tutto quel piccolo idiota, che si guardò intorno e si liberò dalla stretta di Coraline.
«Oddio, sono pronto sono pronto sono prontissimo», disse, annuendo con una veemenza inverosimile.
Sentimmo di nuovo il tonfo che si sente quando qualcuno scende in soggiorno: la mamma.
Stava con dei jeans e una camicetta a fiori che non la facevano assolutamente sembrare lei, e Kennedy senior se n’era accorto, dato che le sbavava addosso senza ritegno. Ma io ci ero abituata a queste cose strane tra i miei genitori, quindi non mi facevano più impressione.
E chi se ne frega se hanno passato i quaranta, pensavo.
«Buongiorno, marmocchi, siete pronti per il patibolo?», ci incoraggiò al suo solito, con un sorriso degno di un killer prima dell’esecuzione della sua vittima.
Io deglutii e annuii. «Certo, io sì. Lui non credo», e indicai un’altra volta Harrison, che fissava tutti con gli occhi sbarrati e un’espressione di paura fredda appiccicata al volto con la colla. «S-sono pronto, sono pronto» Annuì.
 
La mamma sgommò (letteralmente) per frenare. Si sentì lo stridere delle gomme sull’asfalto e fu una sensazione stupenda da provare stando seduti dietro, era come se stessimo per staccarci dal resto della macchina e volare via come in una centrifuga, troppo figo!
Applaudii. «Forza mamma!», esclamai, saltando fuori dalla macchina col mio zainetto blu in spalla e i pantaloni larghi che svolazzavano sotto il vento caldo di metà settembre. Harrison aveva ancora paura.
«Edddddddai, cosa vuoi che sia!». Gli diedi una pacca sulla spalla, mentre lui boccheggiava.
Mi si accostò e mi sussurrò all’orecchio: «hai idea di quanto sarà tremendo avere questi due qua come prof?», chiese.
Annuii. «Lo so, ma prima arriviamo e poi ci pensiamo». Sorrisi.
La paura di averli a farci le ramanzine private in pubblica piazza mi attanagliava già lo stomaco, ma non si notava, per fortuna.
Entrai correndo come una disperata, in scivolata sul pavimento marmoreo del corridoio, seguita da un Harrison molto più calmo.
Grossomodo dai suoi otto anni avevamo scoperto che lui era tutto papà.
Avevamo le personalità del genitore del nostro sesso coi colori invertiti. Figo, insomma, lo so. E inquietante da morire, anche, se tua madre si chiama Shannon Washington.
«Che bella questa scuola!».
Ci ero già stata a trovare i miei genitori al ritorno dalle lezioni alle medie, ma a doverla frequentare sembrava molto più emozionante.
Alzai la testa e vidi dietro di me un uomo alto col sorriso spento. Mi voltai verso di lui.
«Salve! Lei è un professore?». L’uomo annuì.
«Alvarez, matematica», rispose. Argh, la matematica, che odio.
Mi sforzai di sorridere e deglutii. «Foorte…matematica…», ma non ero brava a mentire. Gli porsi la mano.
«Io sono Andrea Kennedy», mi presentai, poi, mentre dall’altra parte comparve mia madre e diede una pacca sulla spalla ad Alvarez, che lo fece tremare per qualche istante.
«Saaaaaal, vecchia roccia!», esclamò.
«…Washington», la salutò lui, con un’occhiata d’astio. Oh, lui era il famoso Alvarez di cui lei parlava male! Meraviglioso. E a me che, a parte per la materia, piaceva già.
«Com’è essere vecchi? So che hai compiuto cinquantasei anni questa estate!», «Io so che ne hai compiuti quarantatré a Marzo, se vuoi divulghiamo la notizia». Ghignò.
La carta dell’età funzionava benissimo con mia madre. Accanto a lei arrivò mio padre, che la abbracciò, provocando il mio «ddddah» di disgusto, e anche quello di Harrison, arrivato insieme a lui.
«Kennedy», salutò Alvarez.
«Ciao, Alvarez, come va?», «Bene…a parte il fatto che tua moglie continua ad essere la stessa frattura un tipo particolare di organi senza alcun cambiamento radicale».
Quella me la dovevo segnare per ritorcergliela contro!
«Ma no, Wash è così terribile solo con te». Rise.
«Stai zitto, Kennedy», lo zittì lei. Sì, solo con lui, sicuro.
«…Solo con me?», «Tsk».
«Ho visto che abbiamo delle nuove leve qui», commentò. Ma da come ci guardava non credeva che fossimo il loro prodotto. E forse era meglio così, in fondo.
«Già, queste due nuove leve sono i nostri figli».
Bene, la mamma era già sulla mia lista nera da un bel pezzo, ma ce l’avrei aggiunta due volte.
Alvarez sembrò scosso. «A-ah…scherzi, dai», e prese a ridere.
«No, sono i nostri figli. Come ti ha detto che si chiamano?», guardò me.
«Ken…mannaggia, è vero, tu sei sposata con Kennedy. SCIAGUUUUUUUUUUUUUUUUURA!», urlò, e scappò via in preda ad un attacco di panico.
Questo mi fece capire quanto è bello, in fondo, essere la figlia di Shannon Washington.
Quantomeno spavento i prof.
   
 
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