«Cos’è che stai cercando?»
Se ne era uscita così, all’improvviso, una domanda senza contesto e per questo
incomprensibile; Shion aveva dovuto fermare la mano – con grande disappunto del
cagnone che stava lavando – la presa sulla spugna s’era allentata, segno che la
sua attenzione era altrove. Aveva alzato lo sguardo su Inukashi e l’aveva
osservata, un’occhiata di quelle che cerchi di chiedere tacitamente “che
intendi?” o “in che senso?”.
E lei lo aveva fissato spazientita, scocciata, come a dire “lo sai che intendo”
o “non fare il finto tonto con me”, cose molto da lei, ma anche molto da lui.
«Che ti aspetti da uno come quello là.» si era data la pena di spiegarsi,
perché a Shion certe cose dovevi dirle tutte per farti capire e lei non era
paziente, lo sguardo da pesce lesso dell’albino non la rendeva tale.
“Quello là” era il modo con cui si riferiva solo ed esclusivamente a Nezumi,
non senza uno sforzo più che discreto per raggiungere un compromesso
accettabile tra il “Nezumi” che usava lui e il “bastardo” di Inukashi.
Così è iniziata la conversazione, e ora si stanno guardando da una manciata di
secondi.
Lui le risponde innanzitutto con un sorriso, uno di quelli che significa
qualsiasi cosa tu voglia leggerci e che può dirti tutto e niente; poi, dopo una
pausa che sembra calcolata come in un tic che si ha da anni, finalmente parla: «Niente.»
dice. Lei sbuffa, lui ridacchia e – per la gioia del cane che stava lavando –
riprende diligentemente a fare il proprio lavoro.
Shion non dice mai cosa si aspetta da Nezumi, perché in realtà non è da lui che
si aspetta qualcosa; e nonostante capisca che quel che Inukashi chiede sia più
di quanto pronunci, preferisce sorriderle che mentirle visto che non le
saprebbe spiegare la verità. Perciò anche se Inukashi – e tutti gli altri che
ha conosciuto e sta conoscendo – si chiedono come sia possibile affezionarsi a
Nezumi, o fidarsi di lui, o se pensano che sia assurdo arrivare un giorno,
così, dopo essersi fatto salvare e iniziare a vivere con il proprio salvatore
rinunciando a tutta la vita che hai avuto – tua madre, la città, la scuola, un
lavoro – Shion preferisce fingere di non accorgersi che si chiedono tutte
queste cose.
Sa che da fuori sembra tutto troppo strano, breve, veloce, insensato, quasi
morboso e assolutamente, irrimediabilmente irreale. Ma non lo saprebbe
spiegare. Non saprebbe e basta.
Non saprebbe con che parole, con quale espressione, se dirlo in maniera triste
o felice, se farlo somigliare a un rimpianto o ad una speranza.
«Cos’è che stai cercando?» così gli ha chiesto Inukashi.
Cercava qualcosa che a Nezumi non avrebbe mai potuto confessare; un futuro nel
quale non lo avrebbe tradito.
Da bambino Shion non ci aveva dato importanza:
all’inizio aveva pensato, semplicemente, che si trattasse di sogni e
nient’altro. Erano confusi, fatti spesso di volti poco nitidi e situazioni
sempre concitate; c’erano tanti rumori, scalpiccii, oppure persone adulte e i
toni alti di un litigio che gli erano estranei – non ricordava suo padre e
quindi, tanto meno, una qualsiasi discussione con sua madre.
Anche le sensazioni erano confuse: Shion non si svegliava mai particolarmente
agitato come un qualsiasi bambino faceva con gli incubi. Tuttavia non era stato
raro ritrovarsi seduto sul proprio letto, oppure a fissare il soffitto, le lenzuola
strette fra le dita e addosso la sensazione di aver fatto o assistito a
qualcosa di brutto, orribile.
A volte, sua madre aveva dovuto passare il tempo nella sua stanza a calmarlo;
altre, per non preoccuparla quando si svegliava piangendo, aveva infantilmente
cercato di “far sparire” tutte le cose brutte affondando il viso nel cuscino,
sfogandosi finché – pur senza capirne il motivo – non restava che il suono del
suo respiro e tanta stanchezza.
Era così che funzionava, e lo sapeva. Lo sapevano entrambi.
Se lo erano detto all’inizio, no? Non si pestavano i piedi ai superiori, non
era una cosa saggia: per abituarti all’assenza di sentimenti come la
compassione – che in guerra non potevano e non dovevano esistere – non veniva
rivolta nemmeno tra soldati della stessa fazione.
Come loro.
«Ehi. Hai una visita.» la voce aspra della guardia, pensò, ti faceva sentire
persino irritato per avere qualcuno che si prendeva la briga di venire a
trovarti.
Alzando appena lo sguardo, lo vide – grande e grosso oltre le sbarre – voltarsi
seccato dalla sua solita routine: «Cinque minuti.» come da copione lo pronunciò
verso qualcuno non ancora nel suo campo visivo e si girò, per andarsene
altrove.
Lo sapeva, chi era a fargli visita; l’assurdo stava nel fatto che l’unico a
preoccuparsi di lui fosse la causa del suo essere in una puzzolente ed umida
cella.
«Mpf» incurvarsi di labbra, ironia «sei tu.» non
pareva affatto sorpreso. Non che volesse sembrarlo. Non lo era.
Nel momento in cui i loro sguardi si incrociavano, avrebbe dovuto
essercene uno – quello del soldato fuori
dalla cella – sicuro di sé, forse anche sprezzante verso un compagno che si è
meritato la prigionia e l’altro rabbioso, pieno di vergogna. Invece mentre si
guardavano, sembravano l’uno sulle spine mentre lasciava vagare lo sguardo
tormentato, l’altro disilluso e divertito al tempo stesso.
«Non vedo medaglie nuove.» era sempre stato così: provocatorio, irriverente, e
non solo quando poteva permetterselo ma anche – o soprattutto? – quando non era
in condizione di esserlo.
«Non è divertente.» e lui era sempre stato così, fin troppo serio persino
quando avrebbe potuto lasciarsi andare almeno un poco.
Erano stati reclutati insieme, erano stati compagni di camerata e dello stesso
plotone e molti si erano chiesti come fossero riusciti a convivere, essendo
così diversi: uno dei due così votato alla causa, così pieno di speranza e di
fiducia in quello che faceva – che facevano tutti quelli che si arruolavano – e
l’altro che sembrava stare lì più per le scazzottate tra reclute che per tutto
il resto.
«Come no? Hai assicurato alla giustizia un traditore, come minimo dovresti
avere una menzione di merito, non credi?» lo aveva pronunciato alzandosi dalla
piccola brandina che avevano a disposizione nelle celle e avvicinandosi
all’unica cosa che c’era fra loro: le sbarre.
«Dico davvero,» probabilmente l’idea sarebbe stata interromperlo: «non è diverten—»
Probabilmente quel che avrebbe voluto fare era…
«Il perdono non sarà la tua menzione di merito. Ci dovrai vivere, con il senso
di colpa.»
Un sibilo feriva molto più di una mano stretta attorno al collo.
Da quei sogni, per mesi, si era svegliato senza mai ricordare particolari
importanti.
Era dovuto passare molto tempo perché Shion iniziasse a rammentarne qualcosa di
più specifico delle semplici sensazioni, che peraltro erano sempre sembrate –
anche se un bambino quale era lui non poteva arrivare a definirle in quel modo
– familiari come qualcosa che ti si scatena dentro, e al tempo stesso estranee
come se appartenessero effettivamente a qualcun altro, ma fossero così forti da
avere il sopravvento su chiunque vi entri in contatto.
Tuttavia, anche quando aveva iniziato a ricordare qualche particolare in più,
spesso stralci di conversazioni ma quasi mai l’aspetto dei protagonisti dei suoi
sogni, non c’erano mai stati dei nomi o qualcosa che lo aiutasse a capire se ci
fosse un aspetto che li accomunasse fra loro.
Da subito a sua madre era stato chiaro che Shion, per
quanto giovane, avesse un dono: un’intelligenza fuori dal comune, che sarebbe
stato quasi un reato non coltivare. Non appena vi era stata la possibilità,
dunque, anche suo figlio – come tutti i bambini – fu sottoposto ad un test di
valutazione; si classificò con un punteggio molto alto che era valso loro varie
agevolazioni: Shion aveva appena due anni. Da allora in diversi ambiti – tra
cui, era quasi superfluo dirlo, l’istruzione – aveva goduto come molti suoi
coetanei del massimo che No.6 potesse offrire.
A nessun genitore con un figlio simile parevano strani quei comportamenti che
avrebbero magari impensierito un padre o una madre con dei figli dal quoziente
intellettivo nella norma; nessuno, come Karan stessa,
si preoccupava se il proprio figlio preferiva un pomeriggio in più da dedicare
ad una ricerca sulla botanica o sulla chimica, rispetto ad uno passato a
giocare al parco. Era semplicemente una questione di predisposizioni: dal loro
punto di vista, chiedere ai propri figli di comportarsi diversamente avrebbe
significato limitarli. A spiegarla con un paragone – aveva sentito dire una
volta ad un genitore di un compagno di classe di Shion – sarebbe come chiedere
ad un bambino qualunque di chiudersi in casa in un pomeriggio assolato e
obbligarlo a studiare chimica organica: non solo non vi riuscirebbe, ma lo
troverebbe a dir poco noioso. Non avrebbe il minimo stimolo.
Karan aveva cercato una sorta di verità nel mezzo:
Shion era un bambino speciale, e di questo era più che cosciente; rimaneva,
tuttavia, per l’appunto un bambino. Ed in quanto tale, lo aveva comunque
spronato a dedicare almeno qualche ora al giorno al divertimento all’aria
aperta. Soprattutto nei primi periodi di quei sogni che, erroneamente – ma non
poteva saperlo – attribuiva allo stress di un’istruzione così complessa ad
un’età così giovane.
Era convinta che l’essere speciale non dovesse diventare, a sua volta, una
limitazione; che Shion dovesse poter essere in grado di passare del tempo
divertendosi non solo con i compagni di cui condivideva interessi di studio, ma
anche con tutti gli altri coetanei – voleva crescere un bambino così.
Quel che Karan non sapeva, era che Shion
all’effettivo stesse crescendo in qualche modo “distante”: non era un bambino
scortese – tutt’altro – né di difficile approccio o scostante, anzi. Ma non era
affatto raro, per esempio in classe, magari durante un intervallo o le pause
fra una lezione e l’altra, notarlo perdersi con lo sguardo fuori dalla finestra
e la mente alla deriva chissà dove, alla ricerca di chissà cosa. Probabilmente
nemmeno Shion lo sapeva o lo capiva; probabilmente neanche si accorgeva di quei
momenti in cui si estraniava completamente dalla realtà che lo circondava.
Silenziosamente, Shion cercava:
andava alla disperata ed inconscia ricerca di due soldati – o due fratelli, due
amici, a volte mercanti, altre studiosi, con ruoli sempre diversi ma
fondamentalmente due anime – che non
avrebbe trovato mai.
Non ancora.
La sala era illuminata splendidamente: toglieva il fiato.
Il grande lampadario al centro illuminava il luogo e al tempo il prezioso
materiale di cui era fatto risplendeva dei riverberi degli altri più piccoli
della sala; i naturali giochi di luce che si creavano riuscivano a guadagnarsi
senza difficoltà gli sguardi ammirati degli invitati che varcavano la soglia
appena arrivati.
Tutti i presenti sfoggiavano i loro abiti, gioielli e sorrisi migliori, come si
confaceva – per sentimento o per educazione – a feste come quella; dopotutto,
essere invitati all’ufficializzazione di un fidanzamento era una tacita
occasione soprattutto per chi aveva figlie da sistemare. Nessuno lo diceva, ma
il caso voleva che o per fortuna o per l’umore che aleggiava in occasioni come
quella, qualche nuova coppia si formasse inevitabilmente ogni volta. Il
chiacchiericcio degli invitati si mescolava quasi abilmente con la musica che
veniva suonata dall’orchestra in un angolo della sala; nulla di pomposo, quanto
bastava ad accompagnare la serata come conveniva e a rallegrare gli animi,
nonché – ma era un compito inespresso seppur tacitamente conosciuto e condiviso
da tutti – a sopperire in qualche modo alla mancanza di conversazione e,
talvolta, al silenzio imbarazzato che ne conseguiva.
Era un ambiente allegro nel quale aleggiavano leggerezza di spirito e un misto
di curiosità e aspettativa ora per il fidanzato, ora per la fidanzata del caso
– a seconda, quindi, che si fosse conoscenti dell’uno o dell’altra.
Lui stava, in quel momento, intrattenendo una coppia di amici di famiglia; lei,
il sorriso radioso e per nulla imbarazzato sebbene nemmeno sfrontato,
accoglieva gli invitati insieme alla madre del fidanzato – che era
fondamentalmente sinonimo di “futuro sposo” a quel punto. Dopotutto ci si
fidanzava ufficialmente non certo per poi lasciarsi, salvo eccezioni rare o
gravissime.
Con uno sguardo meravigliato alla complicità che già sembrava essersi creata
fra sua madre e la sua fidanzata dopo così poco tempo, si accomiatò dalla
coppia con un «Vogliate scusarmi un momento.» e si spostò verso un angolo della
sala meno affollato.
Quando fu certo di essere in un punto almeno un poco più appartato, si concesse
un sospiro sollevato: nonostante l’etichetta del suo tempo esigesse, quasi,
serate di società come quella – o fossero esse quantomeno all’ordine del giorno
– non le amava tanto quanto facesse invece credere. Un tempo, forse, vi era più
incline; quando la buona educazione ostentata per etichetta e non per il
piacere di essere cortese non gli provocava alcun fastidio. Ma non era più così
da diverso tempo, ormai, ed era sempre più un peso se non addirittura una
fatica forzare un sorriso in determinate situazioni. Come, per dirne una,
l’ufficializzazione di un matrimonio combinato. Come il suo.
«Sembri teso. O dovrei dire infelice, forse.» lo raggiunse una voce vicina; non
aveva bisogno di voltarsi in sua direzione per riconoscerne il padrone, ma lo
fece ugualmente: di fronte a lui, vestito come ogni gentiluomo della sala,
stava il suo amico d’infanzia. Nonostante ogni qualvolta si incontravano – in
occasioni non ufficiali come una semplice visita di cortesia per scambiare
qualche parola – l’altro avesse chiaramente fatto intendere di preferire abiti
informali o comunque poco impegnati, l’abbigliamento che indossava anche ora
gli donava senza alcun dubbio.
Gli rivolse un sorriso leggero, ma non fasullo: «Direi più teso. Mi sento come
un raro animale chiuso in una stanza dalle pareti di vetro, al di fuori delle
quali un pubblico esperto debba giudicare quanto effettivamente possa valere
acquistarmi.» rivelò.
«Mpf, con la tendenza a fare poesia come sempre, mh.»
lo apostrofò «Ma dopotutto, si può dire che te la sia cercata.» aggiunse, con
una voluta sfumatura di malignità nella voce.
«Per favore…» lo pregò lui con un’occhiata breve ma
che rifletteva il tono usato. L’altro sembrava occupato ad osservare la sala e
gli invitati che la riempivano; lasciava vagare gli occhi chiari – di un colore
così bello e particolare – in uno sguardo generale che sembrava abbracciare
tutti ma non soffermarsi su nessuno di preciso. Non lo fecero nemmeno quando,
parlando, fece riferimento a qualcuno senza dubbio rientrato nel suo campo
visivo: «Carina, la futura sposa.» commentò. Sarebbe potuto sembrare, dal
commento, che la vedesse per la prima volta; non era così.
Erano cresciuti insieme, loro tre. Amici d’infanzia, si sarebbero potuti
definire. Eppure con il tempo si era creata una strana situazione: lui si era
ritrovato come tra due fuochi – l’altro e lei – con la differenza che non c’era
stato alcun litigio o la minima discussione tra loro. Non aveva mai davvero
compreso cosa fosse cambiato – qualcosa,
per quanto insospettabile, doveva esserci – almeno per qualche tempo. Poi,
quando erano passati alcuni anni in cui quel loro strano rapporto non era mai
mutato di una virgola, era stato il suo amico stesso a chiarirgli le idee.
Almeno per quel che lo riguardava.
«E dimmi» interruppe il flusso dei suoi pensieri «conosce tutto di te come una
moglie dovrebbe?» ironizzò, il tono basso ed udibile solo per lui. Lo notò
abbandonare l’osservazione della sala come si interrompe blandamente un gioco
che non ha appassionato fin dall’inizio: «Conosce il modo di convincerti quando
ti intestardisci?» chiese, voltandosi ad osservarlo, un sorriso sarcastico ad
incurvargli le labbra. Non stava ironizzando bonariamente. Lo sapeva bene.
«Sa che appena sveglio non ti piace mangiare nulla di troppo dolce?» insinuò,
senza vergogna: non stava esponendo solo abitudini quotidiane che un amico
scopre in tanti anni, no; lui stava elencando esattamente tutte le cose che
solo un amante avrebbe potuto apprendere con il tempo fino in fondo.
«O che la sera, a prescindere dalla stagione, quando ti corichi hai sempre i
piedi curiosamente freddi?» continuò, totalmente voltato verso di lui, gli
occhi che non abbandonavano un istante il suo viso mentre i suoi fuggivano da
un punto all’altro – il terzo bottone dell’abito di lui, la manica della
camicia, una scarpa, il pavimento, poi di nuovo il suo viso, ma mai troppo a
lungo.
«Per favore» ripeté «sul serio.» aggiunse, facendo un mezzo passo indietro in
corrispondenza di quello in avanti fatto dall’amico… che
definizione ipocrita di lui, quella.
«Lo sa dove ti piace essere baciato mentre fai l’amore? Conosce l’ordine giusto
in cui toglierti i vestiti per accrescere il tuo desiderio?»
Passo avanti, uno indietro in risposta. Sala e folla che si allontanavano, e
nessuno che sembrasse badare a loro.
«Sa dove il tuo corpo è più sensibile?»
Continuo avanzare silenzioso fino ad essere coperti dalle grandi tende bordeaux
che abbellivano vari punti strategici della sala.
«Sa che ci sono luoghi di questa casa in cui scambiarsi persino gesti poco
consoni in presenza di ospiti?»
Schiena contro il muro. La supplica di fermarsi sussurrata, il tono poco
convinto; si conoscevano troppo bene e da troppo tempo per non aver imparato
entro quali limiti – limiti reali, nulla a che vedere con l’etichetta –
potevano spingersi. Tenda che, traditrice e complice, li copriva agli sguardi
ebbri di atmosfera festosa.
Falsa.
«Sa che sto per baciarti a pochi passi da lei?»
Labbra su labbra. Mordicchiare leggero, provocatorio.
Lingua su labbra, con malizia.
«Sa che la tradirai?»
Mano che gli tiene la mano.
Mano che gli sfiora il viso con la familiarità che solo un amante può avere.
«Potrai tradire me sposandola» un sussurro «ma non sarò l’unico che tradirai.
Lo sai, vero?»
Considerando il bambino che era, fu sicuramente un bene il fatto che molte
volte non ricordasse con precisione le parole o i contenuti dei sogni che
faceva; e così, Shion cresceva.
In lui non si era mai fatto strada nulla di strano che fosse imputabile a
quegli ambienti onirici, né alle persone che li abitavano: continuava ad essere
“diverso” solo per l’intelligenza. Nulla sembrava sconvolgere la sua infanzia
più di quanto avrebbero fatto degli incubi come tanti altri.
Solo una cosa – infantilmente ed ingenuamente mai riconosciuta, smascherata –
cresceva con e dentro di lui: la consapevolezza dell’assenza di qualcosa. Un puzzle dal pezzo mancante, una scatola di
colori che, se piena, fa risaltare maggiormente la mancanza di quell’unico
colore che normalmente non useresti né noteresti mai, ma che nell’unico spazio
vuoto che lascia appare come indispensabile.
Negli anni, i sogni si erano a volte susseguiti ad intervalli regolari, altre
erano sembrati scomparsi (finalmente) del tutto; quando meno se lo aspettava,
tornavano, e proprio quando invece si arrendeva – o quasi attendeva speranzoso – ad un ennesimo sonno
agitato, Shion si ritrovava ad avere notti tranquille.
Di quei sogni, tutto mutava continuamente: gli scenari, gli ambienti, le
sensazioni che vi aleggiavano, le atmosfere – rabbia, rimpianto, tristezza, a
volte un profondo affetto, sempre nascosto da qualche parte, in qualche modo.
Poi c’erano i punti fermi: i protagonisti di quei sogni, di cui a volte era
riuscito a scorgere vagamente le fattezze, sebbene fossero poi sempre offuscate
dal risveglio. Ma i nomi, quelli non li aveva colti mai, o forse li aveva poi
sempre dimenticati.
E un giorno – o meglio, una notte – l’aveva sentito in un sogno già visto altre
volte, quello con i soldati, quello in cui si sentiva peggio al risveglio:
aveva colto dei nomi che non aveva più dimenticato.
«Il perdono non sarà la tua menzione di
merito. Ci dovrai vivere con il senso di colpa, Shion.»
«Nezumi…»
Era successo così. All’improvviso.
Al suo risveglio, era il giorno del suo dodicesimo compleanno.
Normalmente non avrebbe mai fatto entrare qualcuno a
quel modo.
Ma normalmente nessuno camminava sotto un tempo simile fino ad entrare in casa
altrui dalla finestra. Shion era troppo giovane per pensare di credere ad una
cosa strana e sconosciuta come il destino, ed era troppo abituato ad un
pensiero scolastico, scientifico e razionale nonostante la giovane età, per
crederci davvero. Eppure, quando si presentarono l’un l’altro – “Nezumi”, “Mi chiamo Shion” – che altro avrebbe dovuto fare?
Se ricorda occhi mai visti durante le ore di veglia, se ricorda capelli mai
sfiorati nella realtà, se quell’espressione arrabbiata gli sembra tristemente
familiare da stringergli il cuore, se non ha mai desiderato così tanto far
sorridere qualcuno… a soli dodici anni, cosa mai si
dovrebbe fare in una situazione simile?
E la mattina seguente, poi, ciò che aveva fatto sì avesse quell’espressione
mortificata in viso non era stata né la vergogna di essere tenuto sotto
interrogatorio dalla polizia di No.6 di prima mattina e nella propria casa alla
sua giovane età, né il dispiacere che sapeva di stare dando a sua madre, né –
ancora – la consapevolezza della preoccupazione che le aveva visto riflessa
negli occhi.
Quello che lo aveva fatto tremare di vergogna, seduto su quella sedia – le mani
a tenersi l’un l’altra come a trovare il coraggio in se stesso anche se non ce
n’era poi granché, lo sguardo basso e mortificato – era stato il ricordo del sogno
di quella notte: la prima in cui avesse mai preso consapevolezza del
significato di quei mondi onirici così simili e diversi fra loro al tempo
stesso, in cui aveva sbirciato da spettatore indesiderato e inconsapevole
protagonista senza mai comprenderne nulla, se non una pesantezza che ti schiacciava
il cuore al risveglio.
Persino un bambino come lui, lo poteva capire: doveva essere perché aveva
dormito con quel ragazzo – Nezumi,
Nezumi, Nezumi – accanto, doveva essere perché non poteva scappare per
sempre, doveva essere perché era una punizione, perché era stato crudele.
Doveva essere per tutte quelle cose lì, che faceva così male.
«Dovrai viverci con il senso di colpa, Shion.»
«…non sarò l’unico che tradirai. Lo sai, vero Shion?»
«Lasciami
morire, è meglio.»
«Non
sono fedele, ma nemmeno un traditore.»
«Tanto
non capiresti, Shion.»
«Va
bene, se sei tu ad uccidermi, sai?»
«Lo
sapevamo, che sarebbe finita così.»
Non aveva pensato, lì seduto, di poter risolvere tutto
così facilmente.
Non aveva creduto nemmeno per un istante, mentre aveva inspirato prima di
parlare con voce debole e impaurita, che sarebbe bastato così poco a cancellare
tutto il resto.
Eppure, non avrebbe potuto dire altro quella volta.
«Dove si trova la persona che hai nascosto qui durante la notte?»
«Non c’è nessuno, qui.»
Non tradirlo poteva essere un inizio, vero?
Nel calore di una casa che di certo non è una reggia ma che a lui sembra ormai
l’unico luogo che potrebbe definire casa, siede a terra nonostante sia il
divano che il letto sarebbero più che disponibili ad accoglierlo – ed indubbiamente
più comodi.
Generalmente, quando entrambi leggono come in quel momento, nessuno dei due
interrompe se non alzandosi quando ha finito la propria lettura o quando decide
di alzarsi a sgranchirsi le gambe; regna un silenzio quasi religioso, fatto
solo di respiri, squittii quasi inudibili e zampettare sul pavimento di legno.
Ma sono diventati rumori così abituali, per loro – per lui – che non alzano
nemmeno più lo sguardo dai volumi che tengono fra le mani per controllare a
quale percorso, fra un mobile e l’altro, si stiano dedicando i piccoli roditori
che sono a tutti gli effetti loro coinquilini, praticamente.
Potrebbe sembrare un’atmosfera pesante, a descriverla così o a vederla da
fuori, senza viverla. Invece, per loro è il modo più rilassante per passare una
giornata. Non hanno necessariamente bisogno di dirsi nulla; più che una novità
divenuta noiosa routine, tuttavia, somiglia più ad un iniziale disagio
trasformatosi in familiare abitudine.
È indubbio, comunque, che se mai qualcuno rompe il silenzio con un’osservazione
o una domanda, quello è inevitabilmente Shion. Ogni volta, con le richieste più
disparate e banali – “vuoi del tè?”, “Cosa leggi? È interessante?” – che durano
il tempo necessario ad essere pronunciate e ricevere una risposta, e poi
lasciano docilmente spazio di nuovo alla calma quasi piatta che li circonda
come una coperta.
Nezumi si è arreso. Ha capito che è semplicemente fatto così e che non c’è
speranza; pure Amleto – o Shakespeare – ha abbandonato la pretesa di avere la
completa attenzione di Nezumi per tutta la durata della lettura come ai vecchi
tempi.
Non c’è proprio speranza, contro Shion.
«Oi, Nezumi.»
Raramente una frase che l’albino inizia così è un buon segno; d’altra parte,
Nezumi gli dà ancora il beneficio del dubbio, il che si dimostra costantemente
un errore madornale. Quel ragazzo pensa troppo.
«…ci hai mai pensato?» chiede all’improvviso, come se
aver letto una parola a caso sul libro che ha sotto gli occhi gli avesse fatto
balenare in mente – per chissà quale collegamento, sicuramente contorto –
qualcosa che ora ha la necessità di condividere con lui. E, come sempre, sia
mai che il soggetto sia chiaro fin dall’inizio.
«A cosa?» domanda pigramente e con una certa dose di pazienza che ha dovuto sviluppare
forse per disperazione. Non alza nemmeno lo sguardo dal tomo, quasi il contatto
fra la sua schiena e quella di Shion fosse l’equivalente che guardarsi negli
occhi.
«A come sarebbe stato se ci fossimo conosciuti… in un
mondo diverso.» pronuncia l’altro in risposta, appena tentennante.
Nezumi non ci dà peso, non più di tanto. Non si stupisce nemmeno più, a dirla
tutta.
Shion da parte sua resta in silenzio: ha sempre evitato di forzare quella
consapevolezza che ha rispetto all’altro, tutta quella questione dei sogni che
se non l’hai vissuta non potresti nemmeno crederci, figurarci capirla. È solo
che il discorso con Inukashi gli ha messo l’inquietudine addosso.
Si è chiesto se un futuro come quello che sta cercando lo troverà mai.
Si è chiesto se esiste.
Si è chiesto se sia quello che avrà in questa vita.
E se non lo fosse… si chiede ogni giorno quando
tradirà di nuovo la persona per lui più importante; perché non c’è modo di
scamparla. Pare che proprio non ci sia anche se lui ci pensa fino alla nausea.
Lo sente sospirare contro la propria schiena: «Shion.»
«Dimmi.»
«Non sarei vivo.» pronuncia, in maniera quasi secca.
Non può non voltarsi, se dice una cosa così. Non può non voltarsi a guardarlo
per cercare di capire se c’è più di quanto dice, in quelle parole: «…Cosa?»
Lo vede incontrare il proprio sguardo, poi alzare il suo al soffitto come per
rassegnazione, poi chiudere il libro e abbandonarlo sul letto al loro fianco.
Infine, alzarsi: «Se ci fossimo conosciuti in un altro mondo» specifica dunque «non
sarei vivo. Mi secca ammetterlo, ma è con te che ho un debito di vita. Con te,
e nessun altro.»
Lo fissa con tanto d’occhi, mentre lo vede più vicino al fornelletto.
«Lo vuoi del tè?»
«Sì, grazie.»
Gli scappa un sorriso, e torna a fingere di leggere.
Almeno finché non sarà pronto il tè.
Avevo in mente questa fan fiction già da tempo,
precisamente da quando la serie era all’episodio uno *muore*
O meglio, avevo in testa di scrivere qualcosa su uno Shion che aveva tradito
Nezumi, colpa del fatto che alla fine del suddetto episodio avevo ipotizzato un
tradimento da parte del moccioso quando c’era la polizia di No.6 a casa sua,
cosa poi mai avvenuta. Ma l’idea m’era rimasta lì.
Poi, non so perché l’ho accantonata fino a che il compleanno di due bestiole
non mi ha dato l’occasione di scriverla: ed eccoci qui.
Non mi dilungherò oltre, ma prima degli auguri di rito mi scuso se la fan
fiction risulterà confusionaria: purtroppo per esigenze di trama non potevo
nominare direttamente i due protagonisti finché mi giostravo uno Shion che al
risveglio non ricordava nomi. Temo che, nonostante l’attenzione, a volte i
pronomi che ho sfruttato per ovviare alla cosa abbiano causato caos.
Idem per i diversi cambi di tempi verbali nella narrazione: solitamente ne uso
uno e rimane sempre quello, ma ho approfittato di una trama che a mio avviso si
prestava per sperimentare. Spero sia stata godibile lo stesso.
Mi limito ad augurare un buon compleanno rigorosamente in ritardo – se così non
fosse non sarebbe degno di me 8D – a Xia e Nexy.
…Voi e i vostri maledetti fandom
comuni che non coincidono quasi mai con i miei D: *impreca*