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Autore: Ely79    05/04/2012    4 recensioni
Il cielo, un gioco, una bambina arrabbiata. Ed un misterioso visitatore che ne condizionerà la vita.Storia prima classificata alla prima fase del contest "Il Cielo e... il Viaggiatore" indetto da Original Concorsi.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La rotta del Brandinubi
Storia prima classificata alla prima fase del contest "Il Cielo e... il Viaggiatore" indetto da Original Concorsi e giudicato da schwarzlight.

Nick dell’autore:
Ely79
Titolo: La rotta del Brandinubi
Tipologia: one-shot
Lunghezza: 4.350 parole (escluse note)
Genere: Avventura, Fantascienza, Introspettivo, Mistero
Avvertimenti: -
Rating: arancione
Credits: -
Note dell'autore: l’ambientazione della storia è steampunk.
Introduzione alla storia: Il cielo, un gioco, una bambina arrabbiata. Ed un misterioso visitatore che ne condizionerà la vita.

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Il pomeriggio scorreva sonnolento nella campagna. Di tanto in tanto il campanile batteva l’ora, scandendo il tempo fin dove i rintocchi potevano arrivare.
Tre bambini stavano supini nell’erba poco distante dal muretto di pietra di un campo arato, il naso all’aria.
«Un coniglietto che salta!» esordì una bambina.
Indossava un abito rosso punteggiato di minuscole margherite, ornato all’inverosimile di nastri e merletti.
«Dove?» chiese un’altra dai capelli ricci e la carnagione olivastra.
«Là!» trillò la prima, indicando col dito una nuvola che si allungava nel cielo con lunghe appendici simili a zampe e orecchie.
L’amica strizzò gli occhi, studiando la sagoma che si muoveva piano piano, trasportata dai venti in quota, prima di esplodere in un gridolino.
«Sì, sì! È un coniglietto che fa i salti! Brava, Caterina!» applaudì.
Lei fece un gran sorriso, battendo soddisfatta il palmo contro quello che le porgeva l’altra, scuotendo poi la testa per far ticchettare le cuffie di pelle che indossavano. Erano allacciate sotto al mento, con degli ingombranti occhiali dai bordi imbottiti, troppo grandi per i loro visini.
«Pfui!»
Le due femminucce si volsero a guardare il bambino steso alla loro destra. Aveva un buffo naso a patata e la faccia cosparsa di graffi per essersi infilato in un cespuglio di rovi.
«Cosa?» borbottò indispettita Caterina, mettendosi a sedere.
Nessuno poteva permettersi di criticarla e, per sottolinearlo, piantò i pugni sui fianchi, sotto l’arricciatura dell’abito.
«Coniglietti. Roba da femmine» rimbrottò lui.
«E allora?» chiese, sistemando un codino.
«Uffa, siete noiose. Non trovate mai niente di davvero forte!» obbiettò.
«Allora vediamo quanto sei bravo tu, Amedeo. Fino adesso non hai trovato niente» ribatté tamburellandogli con l’indice sulla fronte.
Il bambino l’allontanò con un gesto stizzito e girò lo sguardo intorno, fuggendo da una nuvola all’altra. Nessuna pareva dargli lo spunto giusto. Erano solo nuvole. Soffici, candide, lontanissime nuvole. Detestava quel gioco: non riusciva mai a trovare una sagoma familiare e quando barava veniva sempre scoperto.
«L’albero di Piazza del Comignolo!» urlò ad un tratto.
Stava mentendo per l’ennesima volta, ma era stanco di recitare la parte del perdente.
«Non è vero» mugugnò altezzosa Caterina, senza voltarsi.
«Sì, invece! Guarda! Ci sono i due rami grossi e il tronco e quel pezzo che cade un po’ di qua» continuò lui, indicandoli con foga.
«Ha ragione. Sembra proprio l’albero della Piazza» assentì stupita Pinar.
Amedeo sgranò gli occhi: la sua bugia era stata mutata provvidenzialmente in realtà dallo sfaldarsi di un cumulo che passava pigro sopra le loro teste. Sogghignò sprezzante a verso Caterina.
Solo allora la bambina si degnò di scrutare con la coda dell’occhio dove gli altri indicavano.
«A me sembrano i mutandoni di nonno Calanico. Non sono forti» commentò con sufficienza, rammentando l’orripilante capo che i ragazzi più grandi avevano sottratto all’anziano guardaboschi ed appeso sulla facciata del palazzo del podestà.
I tre bambini erano cresciuti insieme, praticamente fin dalla nascita, e trascorrevano la maggior parte dei pomeriggi immersi in quel gioco, che il più delle volte sfociava in interminabili battibecchi. Esattamente come quel giorno. Caterina si risentì terribilmente del fatto che la sua migliore amica non l’avesse sostenuta: da quando in qua si dava ragione ad un maschio? A quel maschio che, per giunta, non era capace di giocare. Discussero per un po’, rinfacciandosi a vicenda di voler imbrogliare per imporsi, finché anche Pinar non riuscì ad inserirsi nella conversazione:
«Ma che male c’è se oggi vince lui?» domandò.
Sbigottita dalla domanda, l’altra scattò in piedi. Era offesa a morte per quel voltafaccia improvviso. Senza aggiungere una parola, prese a risalire la china singhiozzando, le spalle curve in avanti. Non avrebbe permesso che un maschio vincesse la gara: avrebbe trovato lei la nuvola più bella e particolare, come sempre. Odiava perdere. Tutti dicevano che aveva una gran fantasia e molta memoria per le forme degli oggetti e degli animali; non poteva farsi superare da Amedeo, anche se era suo amico.
Superò la cima della collina e si lasciò cadere nell’erba, spazientita. Respirò lentamente cercando di calmarsi e strofinò gli occhi, ricacciando indietro le lacrime. Incrociò le gambe sotto la gonna, sistemandone con cura le balze, per poi occuparsi dei codini che uscivano dalla cuffia da aviatore. Lei e Pinar ne avevano pretese due identiche per il loro compleanni, per mostrare quanto fossero affezionate l’una all’altra. A Caterina non interessava solcare i cieli – preferiva le bambole ed i vestiti da principessa -, ma ammirava molto l’amica che aveva già deciso di divenire un pilota una volta adulta. A lei sarebbe piaciuto attraversare il cielo solo per andare a vedere i castelli del Re e dei nobili veri che governavano il mondo. Nobili con corone e scettri e begli abiti e castelli con gli unicorni e armature, diversi da quel “contadino vestito a festa” del Conte Melici. O, almeno, era così che lo definiva suo padre quando lo vedeva passare in paese sui suoi trabiccoli sperimentali.
Stava ancora sistemando gli occhialoni sulla faccia quando vide qualcosa. Da principio pensò si trattasse di un banco di quelle meduse eoliche che di tanto in tanto s’impigliavano nelle pale dei mulini a vento. Attraverso le lenti oscurate sembrava un gomitolo azzurro che avanzava fluttuando a mezza quota nella sua direzione. Era strano: le meduse somigliavano a tanti globi lucenti e filamentosi, che si rivelavano enormi bolle di gelatina quando si avvicinavano a terra, mentre questa matassa invece era opaca. Caterina si domandò se per caso fossero malate e provò un certo dispiacere per loro.
Man mano che si avvicinava, la forma si fece più nitida. Era piatta, compatta. Non si vedeva il cielo nella sua scia. Non erano meduse eoliche: era un’unica, enorme, stramba cosa.
Da principio le ricordò un lenzuolo appeso ai fili del bucato che si gonfiava nel vento e per un istante fantasticò si trattasse di un tappeto volante arrivato da un paese sconosciuto, con a bordo tante cose belle. Cambiò idea quando si accorse che si muoveva in avanti seguendo una linea zigzagante del tutto casuale, quasi che lo tirassero qua e là a casaccio. Si gonfiava, si storceva, ondeggiava, si attorcigliava.
Caterina inclinò la testa da un lato, domandandosi che razza di bizzarra cosa potesse muoversi a quella maniera.
«Forse è una mongolfiera bucata» pensò.
Non ne aveva mai visto una, ma Pinar le aveva raccontato che quando un pallone aerostatico si rompeva, poteva andarsene a zonzo nel cielo con traiettorie ridicole e molto pericolose.
Proprio mentre formulava l’ipotesi, quell’affare si fermò. Rimase sospeso nel cielo, quasi che una mano invisibile ce l’avesse imbullonato. Per lunghi istanti, l’oggetto misterioso e Caterina furono un tutt’uno con il mondo che tratteneva il respiro. Poi riprese a muoversi, avanzando verso di lei.
Comparvero altri dettagli: al centro del drappo c’era una massa dorata, che si allargava nell’aria in uno sbuffo di vapore scintillante. Al suo interno c’era un altro oggetto, questa volta tondeggiante, da cui sporgevano delle protuberanze sottili ed argentee, la sola parte rigida di tutto il curioso insieme.
Ciò che maggiormente impressionò Caterina furono le dimensioni della cosa: quell’affare venuto da chissà dove gettava ombra su gran parte del campo e continuava ad avvicinarsi. Ormai era abbastanza vicino da consentirle un paragone azzeccato e l’unico che le veniva in mente era con lo sgangherato dirigibile con cui il Conte Melici sorvolava le proprie terre, una volta la settimana.
Ora che poteva vederlo bene, si rese conto che il tondo incastonato nella nuvoletta era un volto. Una faccia gigantesca, molto più grande di lei.
Fece per alzarsi e scappare, ma l’essere, con un guizzo improvviso, arrivò a pochi palmi dal suolo, costringendola lì dov’era.
L’immenso volto della creatura aveva sostituito il cielo. Era bellissimo e indefinibile, dolce e delicato come un bocciolo, antico e potente come certe statue che Caterina aveva visto nei libri di scuola della sorella. La sua pelle era rosea, levigata, quasi lucida. Le sarebbe piaciuto toccarla, per sentire se era calda o fredda, ma aveva l’impressione che se l’avesse fatto, la cosa sarebbe scappata. Aveva labbra vermiglie atteggiate in un sorriso a metà tra il condiscendente e il beffardo, lunghissime ciglia bionde che disegnavano la linea degli occhi chiusi. Quelle che sporgevano dalla testa erano una coppia di ali lunghe ed esili, le cui piume candide spandevano piccoli arcobaleni intorno. I capelli si allargavano in tutte le direzione in riccioli ordinati che le ricordarono quelli di Pinar, anche se questi erano del colore dell’oro e non della pece.
D’un tratto, la creatura spalancò gli occhi. Due enormi iridi gialle la fissarono, incantandola. Avevano lo stesso colore dei denti di leone. Caterina si vide riflessa in una pupilla tonda e profondissima, che pareva scrutarla con malcelata curiosità. La rotondità del bulbo oculare le dava l’aspetto di una buffa lampadina rossa avvitata nel prato.
Per quanto tentasse di osservare i dettagli del silenzioso visitatore, le riuscì difficile non fissare la bocca smisurata che si stava lentamente aprendo. Somigliava ad una grotta.
«Adesso mi magia» pensò, talmente terrorizzata da non riuscire a chiudere gli occhi.
Invece, dall’immensa voragine emerse solo un soffio lieve, un respiro, che le fece ondeggiare un poco i codini. Pareva voler giocare o, almeno, così parve a Caterina che si sforzò d’inventare un sorriso incerto.
A quel gesto, l’essere si piegò lentamente verso destra, subito imitato dalla bambina. Rimasero a fissarsi per qualche istante, assorti in quella buffa pantomima, prima di ripeterla dall’altro lato. Lo fecero ancora una volta, studiandosi. Quando tornarono dritti, Caterina rise. Anche il volto si atteggiò ad un’espressione di sereno compiacimento.
La creatura si discostò un poco senza battere le ali, richiudendo palpebre e labbra. Ora si poteva vederlo in tutta sua singolare maestà. Si mosse ancora, le ali immobili che luccicavano. Levò il volto al cielo, mettendosi in una posizione perfettamente verticale. Il grande manto si tese come il tendone di un circo ed un istante più tardi era schizzato via, svanito nelle altitudini azzurre, lasciando dietro di sé un cerchio d’erba fremente.
Caterina si ritrovò sulla schiena, schiacciata come le margherite del suo vestito, a fissare la volta tersa dove un paio di minuscole piumette scendevano ondeggiando lievi.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse rimasta supina trattenendo il fiato, ma quando si accorse d’essere prossima a soffocare, il sole era ancora alto.
All’improvviso, tutta l’emozione e lo spavento la investirono, facendola scattare in piedi come una molla. Si mise a correre, incespicando nelle zolle.
«L’avete visto?» urlò superando lo spartiacque della collina.
Più sotto, Pinar e Amedeo inseguivano le lucertole lungo il muro di pietra.
«L’avete visto?» ripeté raggiungendoli.
«Cosa?»
«Quel… quel… coso! Quel coso grosso, che volava!» strillò, tornando a rotta di collo alla sommità della collina, seguita dagli amici. «È arrivato da di là, da lontano! E volava! Io pensavo che erano le meduse, ma era un’altra cosa!» spiegò concitata, sbracciandosi.
Mostrò loro ciò che restava dell’insolito ospite, ma sui loro volti scorse solo aperto scetticismo. Né Amedeo, né Pinar l’avevano visto. Come poteva una creatura grande quanto un dirigibile, muoversi senza far rumore e senza farsi vedere?
«Quelle possono essere di una colomba o di un’oca» replicò Amedeo, indicando le piume.
Caterina s’infuriò nuovamente, accusandoli di mentire, perché l’essere aveva scelto di guardare lei da vicino e non loro. Le sue insistenze servirono solo  a scatenare l’ilarità e le prese in giro.
Tornò in paese tutt’altro che avvilita, rivolgendo la stessa domanda a chiunque incontrasse. Tempo di cena ed i vicini se la ridevano della grossa, unendosi agli altri bambini negli sberleffi. Dovette sorbirsi una bella sgridata da sua madre per aver inventato una simile frottola per attirare un po’ d’attenzione.
Nei giorni successivi le cose non migliorarono affatto e Caterina finì in castigo più volte, per aver preso note di demerito a scuola. Le maestre non si capacitavano dell’improvviso calo d’attenzione che mostrava durante le lezioni: era sempre intenta a guardare fuori dalle finestre o a disegnare la stessa strana figura sulle pagine dei quaderni. L’avere otto anni non era una giustificazione a quel cambiamento repentino.
Lungi dal sentirsi scoraggiata, la piccola cominciò a frugare tutti gli scaffali delle biblioteca della scuola e del paese; cercò fra i mucchi di vecchi giornali dietro il negozio di scarpe; ascoltò daccapo tutte le favole che i vecchi raccontavano seduti nella piazza; diede il tormento ai forestieri di passaggio. Finché non trovò l’indizio che cercava.
Si trattava di una carta dei tarocchi ispirata alle leggende sulla navigazione dei cieli. Era in una scatola sgangherata che aveva scovato nel magazzino del rigattiere Malipieri, accompagnata da un volumetto sfasciato che spiegava il significato delle varie carte. Il manto ondeggiante, i capelli arricciati, la faccia misteriosa. Erano indicate persino le dimensioni, attraverso il confronto tra la cosa ed uno striminzito alberello, posto sotto di esso. Era più che sicura di aver riconosciuto la creatura che era scesa dal cielo per salutarla.
Fece scorrere con attenzione le pagine, finché trovò quella che cercava e lesse con grande concentrazione ogni sillaba. Aveva incontrato quello che i popoli antichi chiamavano Brandinubi, un angelo delle Alte Sfere Celesti.

***

La notte le passava accanto, morbida ed ovattata oltre le sponde imbottite dell’abitacolo. Una scia di stelle serpeggiava sopra la sua testa. Il mondo, distante ed immerso in un buio sonnolento, si snodava in un mosaico di strade, boschi, città, fiumi e campi coltivati. Un tappeto di vaghe sfumature su cui era impossibile poggiare i piedi.
Caterina nemmeno vi badava. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, tracciando complicate linee fra le stelle e le segnalazioni luminose sparse nell’universo, lettere di un alfabeto in codice che a pochi era dato conoscere. Il volo senza radar e geosegnalatori non era per tutti i membri dell’aviazione: chi aveva le capacità per districarsi a vista e sesto senso entrava di diritto a far parte di una sorta di circolo chiuso, un clan di eletti. E lei era una tra le poche donne a farne parte.
Trasse un profondo respiro, mascherando uno sbadiglio. La stanchezza cominciava a farsi sentire dopo nove ore di volo continuo, ma non avrebbe ceduto i comandi. Avrebbe attraversato quell’ultimo spicchio di cielo facendo il solletico ai veli di nuvole che di tanto in tanto intercettava, disturbando a malapena il brillio algido delle stelle con il tambureggiare quieto del motore ed il battere lento e ritmato delle ali.
Intravedeva il baluginio appena accennato dei raggi del sole che tentavano timidamente di insinuarsi tra la terra ed il cielo, ritagliando l’arco delle montagne. Andare incontro all’alba che nasceva era un privilegio, qualcosa di magico che si poteva fare solo a quelle altitudini. C’era un che di sacro nel vedere l’astro del giorno levarsi all’orizzonte, silenzioso ed inesorabile nel suo cammino.
Dal naso dell’Araldo Rugginoso erompeva un fascio di luce che ad una cinquantina di yard si dissolveva in una nuvola dai contorni iridescenti, che la velocità faceva piovere sulla coppia di grandi ali piumate che tenevano in aria il veicolo.
Passò accanto ad un grosso pallone geostazionario con un numero dipinto sulla tela. Al di sotto erano appese due lampade dalle luci verdi e gialle che sibilavano piano, man mano che il gas bruciava.
Caterina sgranchì le dita della mano sinistra, facendole scrocchiare dentro al guanto di pelle imbottita prima di riportarle sulla cloche. Non c’era osso o muscolo che non gridasse vendetta per la stanchezza.
«Piju» fece una voce alle sue spalle.
Lei abbozzò un sorriso fiacco, aggiustando la sciarpa attorno al bavero del pesante giaccone. Le basse temperature in quota erano di routine durante l’intero arco delle stagioni: patine di brina e ghiaccioli non erano insoliti gennaio né ad agosto. Era essenziale premunirsi ed evitare di sottovalutare il freddo, sia per l’aereo che per l’equipaggio.
«Sì, ho visto il Ventisei. Siamo quasi a casa» rispose controllando il livello del vapore nel motore.
Ne avevano a sufficienza per arrivare a casa di Pinar, circumnavigare il lago di Fior di Marzo e tornare all’aeroporto senza toccare la riserva.
Erano mesi che non vedeva la sua amica d’infanzia. Pensare che c’era stato un tempo in cui Pinar aveva amato il cielo più di ogni altra cosa. Ora viveva solo per il suo mulino ad acqua ed i bachi da seta, con cui realizzava sciarpe ed ombrellini per signora di rara bellezza. Curioso come fossero cambiate le cose, in quegli anni.
«Piju» insisté la vocina, risentita.
Girò un poco la testa, quel tanto che le consentivano le cinghie di sicurezza, e rifilò un’occhiataccia al suo assistente.
Dalla postazione alle sue spalle emergevano degli occhialoni simili ai suoi ed un lungo becco. Penne scure e filamentose fremevano nella corrente. Talvolta Caterina si domandava se prendere Piju come compagno di volo fosse stata una buona idea. Insomma, da che mondo era mondo i kiwi non avevano mai volato, figurarsi quelli giganti come lui. Bisognava però ammettere che proprio in virtù della loro inabilità erano tra i migliori navigatori e cartografi sulla piazza. La loro pedanteria sfiorava l’eccesso, rendendoli spesso stizzosi ed irritabili, insopportabilmente egocentrici, superbi, persino piagnoni oltre misura, ma presi per il verso giusto sapevano essere di gran compagnia.
«Ho detto che l’ho visto, Santo Anticiclone, l’ho visto!» ribadì stanca.
Aveva una gran voglia di arrivare a casa, fare un bagno caldo ed infilarsi a letto; quelle stupide congetture sull’aver notato che la boa di segnalazione era un po’ floscia e fuori asse la infastidivano. Conosceva a memoria la via di casa, non si sarebbe sbagliata per così poco.
«Piju» commentò aspro.
«Apri ancora il becco e ti butto di sotto» minacciò.
L’atterige emise uno sbuffo rumoroso e picchiettò sulla carrozzeria. Il segnale morse fece voltare Caterina: coppie di tremuli puntolini delimitavano una striscia sterrata.
La donna spinse le cloche laterali in avanti e subito i congegni che interagivano con le ali iniziarono a dar loro la giusta inclinazione per la planata. Il naso del velivolo cominciò a puntare verso il basso ed il faro tagliò l’oscurità, riverberando sui vetri delle lanterne e scoprendo le linee bianche ai lati della pista. Corresse di poco l’angolo della coda per allinearsi con l’asse centrale del percorso, segnato dall’abbozzo di una canaletta di scolo.
Intanto, Piju aveva cominciato a mulinare le robuste zampe sui pedali posti sotto al sedile, per azionare i diruttori1 lungo l’Araldo. Lamelle metalliche si sollevarono dai fianchi del mezzo, creando vortici invisibili. Il velivolo perse gradatamente velocità, quasi trattenesse il respiro prima di un fragoroso starnuto.
Il terreno si avvicinò, allargandosi a macchia d’olio. Anche il rombo del motore crebbe man mano che il suolo lo rispediva in alto, facendosi assordante, una cacofonia di pistoni, stropiccii, sibili e pompe. A pochi piedi dal suolo, Caterina tirò nuovamente le cloche verso di sé, spingendo sul pedale sinistro fino a farlo aderire al pavimento dell’abitacolo. Le ruote emersero dalla pancia dell’aeromobile e toccarono l’asfalto gemendo, le penne fruscianti tutt’intorno. Occorsero oltre una ventina di yard perché il mezzo smettesse di sobbalzare e procedesse di filato sulla pista. Piju premette col becco alcuni pulsanti, preparando i condotti dei freni ad aria, mentre il pilota armeggiava con le manette del vapore per convogliare il flusso nelle tubazioni appena aperte. Al segnale convenuto, il kiwi smise di pedalare e tirò con entrambe le zampe la leva dei freni. Fastidiosi stridii e scossoni accompagnarono l’ultimo tratto dell’atterraggio.
Si fermarono in prossimità del filare di tigli che divideva la pista dallo spiazzo antistante l’ufficio postale.
Il velivolo ripiegò elegantemente le ali immense, i cilindri del motore rallentarono e le valvole di sfogo eruttarono densi fiotti bianchi.
Lungo la pista non c’era traccia di alcuna attività, ogni cosa era immersa nella quiete che precedeva l’alba.
Piju si liberò delle cinture di sicurezza e s’inerpicò lungo i bordi dell’abitacolo per poi scendere a terra lasciandosi cadere sull’ala. Era alto quasi quattro piedi e pesava quanto un macigno, nonostante l’aspetto soffice. Al collo e lungo le zampe massicce portava dei cinturini dove appendeva piccoli attrezzi, bussole, sestanti, matite, mappe e quant’altro gli occorresse nei viaggi.
«Gallinaceo malfidato» commentò Caterina, scendendo lungo la scaletta ricavata nel fianco della fusoliera.
Non aveva mai sopportato le esibizioni di atleticità di molti suoi colleghi, che balzavano a terra scavalcando le protezioni del posto di guida, finendo spesso lunghi sulla pista per aver incespicato nei bulloni o nelle cloche.
Sfilò i guanti e sbottonò il giaccone, lasciando che l’ultima frescura notturna s’infilasse al di sotto. Nonostante amasse il caldo, era piacevole assaporare quei piccoli brividi. Le facevano desiderare con maggior intensità il riposo che le spettava.
Si concesse qualche istante nell’oscurità vellutata che già scoloriva nel violetto, il capo reclinato all’indietro per osservare la volta celeste. Occhi e mente solcavano ansiosi gli spazi sconfinati, ricalcando tratte percorribili solo nei sogni. Cercava, con calma e metodo. Ma la notte era avara di risposte, come sempre.
Si riscosse udendo il sacco di iuta strisciare a terra, accompagnando lo zampettare sordo di Piju, diretto all’ufficio postale.
Era un edificio a due piani, tozzo e tronfio, dipinto di un improbabile color senape e decorato con cornici di pietra chiara. Sulla facciata, le bandiere del Regno di Savoia e del Regio Servizio Postale pendevano flosce in attesa della brezza.
Il campanello tintinnò un paio di volte mentre la porta si chiudeva alle loro spalle.
Nell’aria c’era odore di colla per francobolli, carta da pacco e polvere vecchia di giorni. Una sottile lama di luce arrivava da una stanza sul retro, accompagnata dal borbottare allegro e familiare di una caffettiera. Girarono attorno al bancone, lanciando un rapido sguardo al casellario miracolosamente vuoto, e si affacciarono nel piccolo ambiente da cui proveniva un aroma invitante.
Dentro, seduto in bilico su una sedia, c’era un uomo. Stava leggendo l’ultimo numero de Il Dispaccio, fresco di stampa. Il profilo da pugile era visibile poco oltre il bordo delle pagine. In un angolo, sopra una panciuta stufa in maiolica, la cuccuma reclamava attenzione.
«Buon giorno» salutò Caterina, appoggiandosi allo stipite mentre Piju gettava il sacco vuoto su una pila di suoi simili.
«Ben tornati, viaggiatori» rispose lui senza voltarsi, ripiegando il quotidiano. «Caffè?»
«Per cominciare» sbadigliò, sedendogli in grembo e gettandogli le braccia indolenzite sulle spalle robuste.
Lui cercò di scrollarsela di dosso, simulando un certo fastidio.
«Hai fatto il tuo dovere?»
«Sì» confermò, avvolgendogli il collo con un lembo della sciarpa per tirarlo più vicino a sé.
«Hai portato tutto ai destinatari?» insisté, seguitando a fingere tentativi di fuga dalle sue avances.
«Sì» ripeté dolcemente, sfilando cuffia ed occhiali.
I lunghi codini dell’infanzia avevano lasciato il posto ad un taglio corto e mascolino, meno impegnativo.
«Ogni lettera, bigliettino, pacco,…»
«Falla finita, Amedeo!» sbottò, zittendolo con un lungo bacio, che interruppe solo quando l’altro la fece scivolare giù dalle ginocchia per potersi avvicinare alla stufa.
«Tutto, tutto, tutto» riprese lei, stiracchiandosi. «Non è rimasto neppure un francobollo, vero Piju?»
Il grosso uccello era accucciato all’altro capo dello stanzino, il becco affondato in un secchio. Drizzò il capo dopo aver selezionato una lumaca particolarmente succulenta ed annuì, inghiottendola.
«Visto?»
«Allora te lo sei quasi meritato» scherzò arruffandole i capelli e porgendole una tazza capiente e colma.
Caterina sorseggiò piano il caffè, muovendo di tanto in tanto le dita sulla ceramica. Guardava l’Araldo fuori della finestra che prendeva colore nel giorno nascente. La carrozzeria rossiccia aveva bisogno di un lavaggio, il motore di un’ingrassata, le penne grigio-brune di una spazzolata energica e forse di un trattamento antiparassitario. Poi il suo sguardo salì, superò i fili del telettrofono2 che graffiavano il cielo, e là si perse.
Amedeo si limitò a fissare quegli occhi sognanti e malinconici. Tanto lui era cambiato negli anni – irrobustendosi al punto di meritare il soprannome di “Monte”, perdendo la simpatica rotondità del naso in una rissa, scoprendo dentro di sé una riserva di pazienza pressoché infinita ed una sincerità che spesso diventava problematica -, tanto quegli occhi erano rimasti gli stessi di quando erano bambini. Sapeva a cosa stava pensando. Aveva smesso da molto tempo di insistere perché lasciasse perdere la ricerca del Brandinubi. Sapeva fin troppo bene che lassù in alto, mentre trasportava la posta da un capo all’altro della nazione e dell’Europa, la testa di Caterina era divisa in due: da una parte c’era l’aviatore diligente, che seguiva rotte accuratamente tracciate stando ben attento ad ogni possibile imprevisto; dall’altra, c’era la bambina sognante, che frugava gli angoli del cielo e l’ombra delle nuvole in cerca di una creatura che nessuno – eccetto lei sola – aveva mai veduto.
La vide infilare una mano sotto la giacca, passandola attorno al collo. Una fiala trasparente dondolò appesa ad un cordoncino. Sul fondo riposavano due piumette candide.
«Sono pronta. Adesso posso davvero andare» disse ad un tratto la donna.
Lo stomaco di Amedeo si contorse a quelle parole. Parole che avrebbe voluto non sentire mai. Fin da quel lontanissimo incontro di vent’anni prima, Caterina aveva deciso che sarebbe andata in cerca dell’angelo, per rivederlo, per toccarlo e convincere chiunque che le sue non erano sciocche fantasie. Aveva sperato che col passare del tempo avrebbe desistito, che sarebbe arrivata a farsene una ragione, che capisse che l’inseguire un sogno come quello avrebbe causato solo inutile dolore. Purtroppo sapeva altrettanto bene che se non fosse riuscita a mettere la parola fine a quella questione, neppure lei avrebbe potuto essere felice. Aveva fatto qualche breve tentativo in passato, tornando con uno sbaffo di nebbia e la voglia di insistere, una volta superata la delusione. Era un tarlo che non le dava tregua, che minava ogni sua decisione. Compresa quella di costruire un futuro al suo fianco.
«Questa volta ce la posso fare, me lo sento. Lo troverò, Amedeo. Troverò il mio angelo» dichiarò, la mano stretta al petto. «Però credo che prima farò una bella dormita. Vuoi farmi compagnia? Sai che dopo una settimana di volo mi alzo depressa e ho bisogno delle tue bollenti coccole da letto per tirarmi su» ammiccò, prendendolo per mano.
L’uomo sospirò accennando un sorriso. Dentro di sé sperava che dopo il consueto intermezzo a base di sonno e sesso, Caterina avrebbe pensato con meno impeto al suo progetto, procrastinandolo nuovamente. Sfortunatamente avvertiva nella sua voce una nota che lasciava presagire sviluppi differenti.
Si lasciò trascinare fuori, seguendola per le strade che odoravano di pane appena sfornato, latte fresco e biscotti, aggrappato alla speranza d’essere smentito.


1 Diruttori: detti anche spoiler, sono dei piani mobili che consentono di far perdere portanza alle ali degli aerei, migliorando l’aderenza a terra durante l’atterraggio ma possono essere usati anche con funzione di aerofreni.
2 telettrofono: nome del primo prototipo di telefono, inventato da Meucci.
   
 
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