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Autore: Lampih_SJ    09/04/2012    3 recensioni
Finalmente Sherlock, dopo aver finto di morire, è tornato da John. I due amici saranno impegnati in un omicidio allo Stonehenge e in una... visita dall'Inferno, grazie alle quali impareranno che l'amore e l'odio forse non sono per sempre, ma durano una vita. Ma, aspettate un attimo... Ho detto "amici"?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Lestrade , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: Lime, Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autore: Lampih_SJ
Fandom: Sherlock BBC
Titolo: La magia dello Stonehenge
Personaggi capitolo: John Watson, Sherlock Holmes, Lestrade.
Introduzione storiaFinalmente Sherlock, dopo aver finto di morire, è tornato da John. I due amici saranno impegnati in un omicidio allo Stonehenge e in una... visita dall'Inferno, grazie alle quali impareranno che l'amore e l'odio forse non sono per sempre, ma durano una vita. Ma, aspettate un attimo... Ho detto "amici"?
Introduzione capitolo: Dopo aver finto di morire, Sherlock è tornato da John appena una settimana fa e sono già immersi in un nuovo caso. Un omicidio allo Stonehenge? No, in una strana cosa chiamata "amore".
Rating generale: Arancione
Rating del capitolo: Giallo
Word: 3686
Generi: Introspettivo, Romantico, Malinconico
Avvertimenti: Lime, Missing Moments, Movieverse, Slash

 
 

CAPITOLO 1

- LA MAGIA DELLO STONEHENGE -

 
 
 
 
Il Sole era tramontato da poco. Il cielo aveva già cominciato a scurirsi e si vedevano le prime stelle. La Luna piena non illuminava granché. Le torce che stringevamo in mano erano gli unici mezzi che avevamo per poter camminare tra l’erba e i sassi della collina su cui eravamo.
Sherlock era più avanti di me e proseguiva spedito, senza timore, anzi con trepidazione e la curiosità di un bambino. Io buttavo continuamente lo sguardo a terra per non inciampare. Cercavo di tenere il passo svelto, ma a fatica riuscivo a stargli dietro. Lo zaino che avevo in spalla, contenente delle provviste e la tenda che ci sarebbe servita per la notte, di certo non mi aiutava.
La collina si affacciava con un precipizio altissimo ad una grande pianura, dove si ergevano imponenti i massi dello Stonehenge. Era lì che eravamo diretti.
Quella mattina, infatti, Lestrade ci aveva fatto visita a Baker Street per chiederci il nostro aiuto: la polizia aveva trovato il cadavere di un uomo nei pressi dello Stonehenge. Una volta arrivati sul posto, notammo che l’uomo era morto per un colpo alla schiena causatogli da un pugnale dal manico di legno con incisi alcuni strani simboli e a cui erano attaccate perline e piume di uccelli. Sherlock studiò nei dettagli il cadavere ed enunciò la sua ipotesi: dato il punto in cui si trovava (nei pressi dello Stonehenge) e data l’arma con cui era stato ucciso, l’omicida doveva essere qualcuno appartenente ad una setta che eseguiva dei rituali al centro dello Stonehenge.
- La nostra vittima ha partecipato al rituale la notte scorsa. Probabilmente faceva parte di quel gruppo da tempo: persone del genere devono fidarsi ciecamente l’una dell’altra prima di fare questi rituali - Spiegò Sherlock, dando continue occhiate al cadavere e ai massi di pietra - Ieri notte, come dicevo, ha preso parte al rituale ma, per qualche motivo che ancora non mi è chiaro, ha deciso di andarsene. Gli altri, però, evidentemente non gliel’hanno permesso, allora lui ha iniziato a correre per scappare e uno di loro l’ha ucciso.
- Correre? Come puoi capire che stesse correndo? - Chiese Lestrade, che era lì con noi.
- L’uomo è troppo lontano dallo Stonehenge per aver percorso il tratto camminando normalmente. Chi l’ha ucciso non può avergli lasciato molto tempo. L’omicida era là, al centro del cerchio dello Stonehenge, ha tirato il pugnale e l’ha colpito alla schiena.
- Non potrebbe averlo rincorso? - Suggerii io - Se è accaduto di notte dev’essere stato difficile colpire un uomo che correva (se davvero correva) con un pugnale da una distanza simile. Potrebbe essergli andato dietro.
- Oh, insomma! - Si scaldò Sherlock - Perché siete così stupidi? Voi vedete ma non osservate! Le orme, le orme! Guardate: per terra ci sono solo le orme della vittima, che iniziano al centro dello Stonehenge e finiscono qui, dove è caduto. Sono molto distanti l’una dall’altra e non sono nitide: questo significa, ovviamente, che la vittima stava correndo. E non è tutto: le orme sono di un solo uomo, quindi nessuno l’ha rincorso. Inoltre, il modo in cui la vittima da le spalle allo Stonehenge lascia intendere che le desse allo stesso modo anche all’omicida: perciò chi l’ha ucciso era al centro dello Stonehenge. Vi basta come spiegazione?
Lestrade ed io rimanemmo in silenzio, senza riuscire a dire nulla. Mi era tornata la solita sensazione, la stessa che provavo ogni volta che Sherlock dimostrava la sua intelligenza e il suo carisma. Non riuscivo a spiegarmela, a darle un nome, ma mi lasciava uno stranissimo nodo nel petto.
Eravamo ancora sulla collina, quella notte di Luna piena. Fra poco saremmo scesi, fino ad arrivare allo Stonehenge. Sherlock era rimasto affascinato dalla possibilità che una setta compisse dei particolari rituali all’interno di quella meravigliosa costruzione in pietra, perciò mi aveva convinto ad andare con lui a scoprire cosa potessero avere di così magico le notti allo Stonehenge.
Io ero tremendamente stanco. Ormai non si vedeva più nulla e Sherlock continuava ad allontanarsi.
Nonostante la torcia, non riuscivo più a vedere dove fossi e, all’improvviso, una parte del terreno sotto di me cedette e scivolai lungo il precipizio. Urlai dallo spavento e riuscii ad attaccarmi al terreno, rimanendo con le gambe a penzoloni lungo il precipizio.
- Sherlock! - Gridai a pieni polmoni.
Ma lui se n’era già accorto.
- John! John! Tieni duro!
Corse verso di me talmente velocemente che scivolò per terra. Mi afferrò con forza sotto le braccia e mi tirò su, finché non fossi di nuovo sulla collina. Ma scivolò di nuovo e finimmo uno addosso all’altro.
Io respiravo affannosamente e sentivo il mio cuore scoppiare dalla paura. Mi alzai da sopra di lui, mi tolsi lo zaino e mi sdraiai sull’erba, cercando di tranquillizzarmi.
Sherlock si rialzò, si ripulì un po’ il lungo cappotto e mi chiese:
- Dov’è la tua torcia?
- Eh? - Risposi.
Avevo capito benissimo. Ero semplicemente troppo agitato per rispondere.
Mi misi seduto e diedi un veloce sguardo in giro.
- Dev’essere caduta dal precipizio - Dissi.
- Stai bene?
- Sì, sto bene.
Mi alzai e mi rimisi lo zaino in spalla, pronto per proseguire. Sherlock raccolse la sua torcia che aveva lasciato per aiutarmi e la riaccese.
- Dammi la mano.
Io lo guardai senza capire.
- Ci è rimasta solo una torcia, dobbiamo stare vicini - Mi spiegò.
Misi la mia mano nella sua e lui la strinse forte. Ricominciammo a camminare. Rimasi sorpreso di come prima corresse con tanta fretta e ora invece andasse lento e pieno di attenzioni, quasi seguendo il mio passo.
Arrivammo al centro dello Stonehenge a notte fonda. Il cielo era pieno di stelle e senza nuvole. La Luna piena sembrava osservarci e proteggerci dall’aria di mistero che avvolgeva quel luogo. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero che, una sola notte prima, un uomo aveva ucciso un altro uomo in quello stesso luogo.
Arrivò il momento di montare la tenda.
Sherlock decise di metterla proprio al centro dello Stonehenge. Allora la tirai fuori dallo zaino insieme alle bacchette di plastica che sarebbero servite per mantenerla, i chiodi da mettere ai lati e il martello per inserirli nel terreno.
Riuscimmo a fatica ad inserire le bacchette nella tenda e a farla stare su: non riuscivo a fare tutto da solo e Sherlock non aveva idea di come si facesse.
- Non ci capisco niente!
- Oh, andiamo! È come andare a campeggio!
- Non sono mai andato a campeggio.
Lo guardai con uno sguardo sbalordito. Sembrava non avesse mai visto una tenda in vita sua. Ma stranamente quella cosa non mi sorprendeva più di tanto.
Anche con i chiodi ci fu qualche problema: all’inizio optammo che io tenessi il chiodo e Sherlock lo infilasse nel terreno con il martello; ma lui continuava a guardare le mie dita e a spostarle dal chiodo.
- Insomma, cosa aspetti? - Gli chiesi, esasperato.
- Non ce la faccio!
- Dai, dammi quel martello, ci penso io.
Ci scambiammo i compiti, ma lui tenne gli occhi serrati per tutto il tempo in cui io colpii i chiodi con il martello. Riuscimmo comunque a terminare il lavoro. La tenda non era molto grande, ma due persone ci stavamo benissimo. Sistemai lo zaino in un angolo vicino all’entrata della tenda e appesi una lampada ad olio su un aggancio nel punto interno più alto della tenda per fare un po’ di luce.
Sistemai due cuscini e due coperte, ma Sherlock non aveva intenzione di entrare.
- Questo posto è straordinario, John! - Mi disse - Queste pietre emanano un’energia incredibile! Ma io sono piuttosto scettico su queste cose: voglio vedere la magia dello Stonehenge con i miei occhi!
- Hai davvero intenzione di rimanere lì tutta la notte?
Sherlock si sedette su un piccolo masso, dandomi le spalle.
Decisi di non insistere: non sarebbe cambiato nulla. Chiusi la tenda (che aveva due cerniere, per poterla aprire sia dall’interno che dall’esterno), spensi la lampada e mi addormentai.
Ad un certo punto mi svegliai a causa di un rumore. Era quasi impercettibile, ma ogni tanto si sentiva più forte, ed era a intervalli continui. Quando fui un attimo più lucido capii che era lo starnutire di Sherlock.
Riaccesi la lampada, aprii la tenda e misi la testa fuori per vedere dove fosse. Era seduto per terra, appoggiato ad un masso poco lontano. Ogni tanto tirava la testa su per osservare le stelle, ma continuava a starnutire e a tremare.
Mi faceva una profonda tenerezza.
- Dai, idiota, vieni dentro.
Sherlock non rispose né mosse un muscolo.
- Non vorrai prenderti la febbre! Dai, cavolo, vieni qua!
Lui si girò per guardarmi, ma non sembrava avere intenzione di spostarsi di lì. Poi si rigirò.
- Ho portato il the - Gli dissi, tirando fuori il termos.
Lui non disse nulla, ma si alzò e mi raggiunse nella tenda.
Ci mettemmo a gambe incrociate uno davanti all’altro, sulle nostre rispettive coperte. Versai del the caldo in due piccoli bicchieri di plastica.
In quella fredda notte, il calore del the riusciva a riscaldare piacevolmente le mie mani e la mia gola.
Non so perché accadde proprio in quel momento, ma guardando Sherlock mi tornò quello strano nodo al petto, così doloroso eppure così piacevole. Lo osservavo bere, riscaldarsi la braccia con le mani, lanciarmi degli sguardi. Addirittura in silenzio esprimeva carisma. Per comunicare davvero gli sono sempre bastati gli occhi.
E immerso in tutti quei pensieri, mi tornò alla mente il giorno in cui ci eravamo rivisti dopo la sua scomparsa. Era accaduto una settimana prima. Quello dello Stonehenge era il nostro primo caso dopo il suo ritorno.
Nel periodo in cui lui aveva finto di essere morto stetti davvero male. Caddi in depressione. Mi ero trasferito in un altro appartamento in affitto, ma non cercai mai davvero di cominciare una nuova vita, di cercare un lavoro, di trovare nuove amicizie: ero sicuro che lui sarebbe tornato, prima o poi; ma la mia era una disperata speranza più che una certezza. Lo volevo, volevo che tornasse, e speravo che ciò bastasse.
Facevo molta fatica a tornare nella casa del 221B di Baker Street. Per un lungo periodo feci fatica addirittura ad uscire di casa, ogni via mi ricordava lui: quella in cui avevamo rincorso un uomo, quella in cui eravamo scappati dalla polizia in manette, quella in cui c’era il nostro bar preferito…
Ogni tanto però tornavo dalla Signora Hudson per prendere qualcosa che avevo lasciato lì. E ogni volta facevo fatica ad aprire la porta dell’appartamento, perché avevo una tremenda paura di ritrovarmelo davanti. Sì, paura, perché ormai lo vedevo ovunque e il suo viso era diventato un’ossessione.
Anche una settimana prima di quella notte aprii quella porta, e non trovai nessuno. Il salotto era pieno delle sue scatole, dei suoi libri, dei suoi mobili, dei suoi oggetti di lavoro, eppure a me sembrava vuota.
Dovevo prendere alcuni miei libri di medicina e dei maglioni. Ma come sempre mi fermai più del previsto. Mi lasciai sprofondare nella sua poltrona e chiusi gli occhi. Cercai una nuova testa o un nuovo dito sott’olio. Sfiorai le corde del suo violino. Guardai la sua camera da letto. Poi, per ultimo, mi feci una tazza di the.
Avevo appena finito di prepararla, quando sentii la porta aprirsi e poi richiudersi e dei passi nel salotto.
- Sì, Signora Hudson, adesso me ne vado. Mi faccia finire questa tazza di the.
Andai nel salotto, ancora con la tazza in mano. Alzai lo sguardo e lo vidi. Vidi lui. Era davanti a me, vero, vivo. Con il suo lungo cappotto scuro e quello sguardo penetrante. La tazza mi cadde dalle mani e rimasi immobile, a bocca aperta, il solito nodo nel petto.
- Ciao, John - Mi disse lui, con la sua voce calda che tanto desideravo risentire, sorridendomi.
Ma nella mia testa si accavallavano mille pensieri, mille domande, mille emozioni. Come poteva essere ancora vivo? Perché era scomparso? Perché mi aveva fatto soffrire così tanto?
Mi avvicinai lentamente a lui. Ci guardavamo fissi negli occhi, senza parlare. Sentivo le mie mani tremare, in preda a piccoli brividi, come se si fossero risvegliate dopo un lunghissimo intorpidimento. Alzai subito la mano destra. Gli sferrai uno schiaffo, pieno di rabbia e di rancore. Fu così forte che gli spostai la testa. Ma lui si rigirò e continuò a guardarmi imperterrito negli occhi, senza riuscire a parlare. Però quel brivido alle mani non finiva, anzi aumentava sempre di più, tanto che prese anche le braccia. Non riuscii più a trattenermi. Dovetti alzarle e abbracciarlo. Gli buttai le braccia al collo. E lui mi strinse forte, avvolgendomi con le sue forti braccia. Rimanemmo così per un tempo che, pensandoci ancora, mi sembrò un’eternità.
E sembrava che non ci fosse nulla, al mondo, che potesse essermi più utile.
Quella notte allo Stonehenge mi tornò in mente tutto. Cercavo di osservarlo il più possibile, quasi per paura che potesse andarsene da un momento all’altro, come aveva fatto l’altra volta. Non volevo che riaccadesse, non volevo perderlo ancora. Non avrei sopportato un altro colpo del genere. Il suo carisma, il su modo di coinvolgere tutti in tutto, il suo sguardo, la sua voce, qualsiasi cosa facesse riusciva a farla meravigliosamente bene, e lo notavano tutti, anche io. Soprattutto io, che da quel giorno in cui lo incontrai al laboratorio scientifico a Londra non riuscii più a staccarmi da lui, oppure fu lui a riuscire che io non mi staccassi più. Fatto sta che lui era lì, davanti a me, e quella notte mi sembrava che tutto fosse diverso eppure uguale a prima.
- Non farlo mai più - Sussurrai improvvisamente, sena riuscire a guardarlo in faccia.
Lui mi chiese preoccupato:
- Che cosa?
Io dovetti fare un profondo respiro prima di continuare.
- Non azzardarti più a far finta di essere… morto. Non scomparire più così. Non devi neanche pensarci. Mai più. Tu non devi andartene mai più… Hai capito?
- Sì - Rispose lui - Ma solo se…
- Se…?
Non riuscì finire la frase. Dopo un attimo sussurrò:
- Dai, finisci quel the o lo faccio io.
Quando decidemmo di dormire lui si tolse la giacca nera, rimanendo con una camicia viola, e la sistemò sopra al cappotto che si era tolto prima. Ci mettemmo a dormire sotto le rispettive coperte; lui rivolto verso di me ed io verso il mio lato della tenda.
Ad un certo punto mi svegliai. Faticavo a dormire in quel posto freddo e sconosciuto.
Mi venne sete, allora andai verso lo zaino, lo aprii e bevvi un po’ d’acqua. Una volta richiuso lo zaino, il mio sguardo cadde sulla camicia di Sherlock. Improvvisamente, ancora una volta, mi tornarono in mente i momenti passati senza di lui, credendo che fosse morto, e ripensando a quanto volessi che quei momenti non tornassero mai più.
Presi la giacca e me la portai vicino al viso. Iniziai a stringerla forte, respirando profondamente per sentire il suo profumo, per intrappolarlo nei miei polmoni nella paura che lui scomparisse di nuovo. Quante volte l’avevo fatto anche al 221B di Baker Street, quando tornavo al nostro appartamento; quante volte aprivo il suo armadio e stringevo forte a me le sue giacche e le sue camice.
Ad un certo punto, quella notte, ebbi la sensazione di sentire Sherlock muoversi nella tenda. D’istinto buttai via subito la giacca e guardai dietro di me. Lui era immobile e con gli occhi chiusi. Allora ripiegai delicatamente la sua giacca, rimettendola dov’era, e mi risistemai sotto la mia coperta per dormire.
Questa volta, però, mi sdraiai rivolto verso di lui. Era affascinante anche mentre dormiva. Ormai ogni volta che lo guardavo avevo la tremenda paura che fosse l’ultima, dopo quel suo maledetto scherzo; allora cercavo di cogliere ogni attimo di lui e vivere appieno ogni nostro momento.
Chiusi gli occhi per provare ad addormentarmi, ma avevo quasi la sensazione che qualcuno mi fissasse, come se Sherlock avesse aperto gli occhi e mi stesse guardando. Allora riaprii i miei, ma Sherlock dormiva ancora. Notai, però, che la sua mano destra era molto più vicina a me: quasi mi sfiorava il braccio.
In quel momento vidi sulle nocche della sua mano dei tagli. Mi preoccupai subito e decisi di svegliarlo.
- Ehi, Sherlock… Ma cosa hai fatto alla mano?
- Mmh… Non è niente, tranquillo. Me n’ero anche dimenticato - Mi rispose ancora assonnato.
I tagli e le escoriazioni erano già sull’avvio della cicatrizzazione e non sanguinavano quasi più, ma decisi comunque di prendere il mio kit del pronto soccorso.
Ci rimettemmo a gambe incrociate come quando avevamo preso il the e io tenni la sua mano ferita sul mio ginocchio per medicargliela. Gliela tamponai con del cotone imbevuto di disinfettante e gliela bendai. Ma solo una volta finito mi resi davvero conto che avevo la sua mano sulla mia gamba e la spostai via. Solo allora mi accorsi che aveva anche i primi tre bottini della camicia sbottonati.
Dopo un attimo di silenzio, improvvisamente Sherlock sussurrò:
- Mi dispiace.
Io alzai lo sguardo e lo osservai senza capire. Ma lui guardava a terra.
- Mi dispiace di averti portato qui, in questo posto freddo e isolato, senza motivo. Mi dispiace di averti coinvolto in questo caso e in tutti i miei casi. Mi dispiace di averti fatto correre in qualsiasi parte di Londra, per venire da me o per starmi dietro. Mi dispiace di averti sfruttato come ex medico militare per trovare indizi sui cadaveri delle vittime. Mi dispiace di averti spaventato, fatto arrabbiare, fatto piangere. Mi dispiace di non averti fatto dormire perché ti parlavo dei miei casi o perché strimpellavo con il violino. Mi dispiace di averti urlato e non averti ascoltato. Mi dispiace di aver fatto finta di morire e di non essermi fatto vedere per tanto tempo. La verità è che sono solo un egoista: tu ormai sei entrato a far parte della mia vita e non coinvolgere te in ciò che faccio sarebbe come non coinvolgere parte di me, ma mi sono dimenticato della tua testa, del tuo cuore, del fatto che un giorno potresti anche dirmi di no, che non vuoi venire con me a risolvere quel tal caso o no, non vuoi ascoltarmi mentre ti spiego cosa ho fatto durante la giornata… Forse non avrei mai dovuto accettare di dividere l’appartamento al 221B di Baker Street con te.
Gli sferrai uno schiaffo. Non potevo più farlo continuare, sentivo che la mia teta stava scoppiando. A fatica trattenevo le lacrime.
- Non azzardarti neanche a pensarlo… - Sussurrai.
Ma lui aveva afferrato subito la mia mano, che quasi tremava. La portò lentamente dove io gli avevo tirato lo schiaffo. La appoggiò con delicatezza sulla sua guancia, quasi con piacere. Rimase così, a guardarmi.
Avevo ancora le lacrime da dover trattenere e mi riusciva sempre più difficile.
La mia mano era sempre, tenuta dalla sua, sulla sua guancia. Ma il mio dito si mosse piano piano, fino a finire sulle sue labbra.
- John… - Sussurrò lui.
Ma io lo baciai. Dritto sulle labbra, con forza, finalmente con la testa libera. Le mie mani afferrarono il suo viso e le mie labbra continuavano a restare attaccate alle sue, i miei occhi serrati e una lacrima che mi tagliava il viso caldo, pulsante.
Mi staccai un poco. I nostri nasi si toccavano, i nostri occhi ormai erano immersi gli uni negli altri, i nostri respiri uno soltanto.
- John, no… - Mi disse con un voce quasi impercettibile.
Ma io lo zittii di nuovo. Lo baciai ancora, e ancora. E lui non si rifiutò, anzi portò la sue mani dietro la mia schiena, fino ad abbracciarmi con forza e ricambiare i miei baci.
Ci sdraiammo velocemente e mi ritrovai sopra di lui. Era come se finalmente riuscissi a vederlo davvero. Era come se finalmente avessi fatto pace con quel mio maledetto nodo al petto e tutti i miei mille pensieri che mi tormentavano in ogni momento.
Ogni tanto lui sembrava ancora titubante, ma mi cercava, cercava il mio viso, i miei occhi, i miei capelli, le mie labbra. Me lo faceva capire con lo sguardo e con le mani.
Persi di vista le mie mani quando le immersi nei suoi riccioli, e mi chinai su di lui per accontentarlo, per accontentarmi. Riprendemmo a baciarci, mentre sentivo le sue mani correre avanti e indietro sulla mia schiena, quasi per non farmi andare via. Era così forte, così passionale.
Mi rialzai e mi misi in ginocchio, sempre su di lui. Gli sbottonai velocemente la camicia, e lui mi seguii sbottonandosi i polsini. Poi si mise seduto e ci baciammo di nuovo mentre si toglieva la camicia e la buttava via. Lo feci risdraiare e mi tolsi la mia camicia nera. Eravamo entrambi a petto nudo e ci demmo un altro paio di baci. Ma proprio perché avevamo le menti completamente libere facevamo tutto senza neanche il tempo di un secondo per ragionare. Non esisteva più la razionalità né il tempo stesso, ogni attimo poteva durare un secondo o un’eternità.
Ero in quello stato quando le mie mani scesero dal suo collo fino ai pantaloni. Gli sbottonai il bottone e feci scorrere la zip. Ma con la forza e con la fretta che la mancanza di ragione ci causava lo girai velocemente di schiena. Avevo intenzione di abbassargli i pantaloni e metterlo in ginocchio, ma fece tutto da solo. Quindi, nel frattempo, slacciai la cintura e mi calai i jeans.
Ci sono stati momenti, nella mia vita, in cui ebbi paura di morire o soffrii per la morte di altri. Ma quella notte non m’importava più nulla. Sentivo che il mondo poteva finire in quell’istante, a me non avrebbe interessato. Ogni cosa ormai non mi toccava più. Sarei potuto morire in quell’istate. Ma non da solo, no. Saremmo dovuti morire insieme. Era quella l’unica cosa che chiedevo al mondo: nella vita, nella morte e in qualunque altro strano posto, io e lui, John Watson e Sherlock Holmes saremmo dovuti rimanere insieme, per sempre.
 
   
 
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