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Autore: SaskeTheWolf    10/04/2012    2 recensioni
La stanza iniziò a roteare e la mente della giovane tornò indietro nel tempo di dodici anni.
Aveva i polsi legati alla parete. C’era una piccola finestra, sbarrata, in alto vicino al soffitto, troppo alta per essere raggiunta. Pareti di cemento, grigie e tristi la circondavano. Era buio. Era sola.
Stava tornando a casa da scuola per pranzo e l’avevano portata via con la forza. Aveva pianto tutto il pomeriggio. Aveva fame, voleva andare a casa, voleva sua madre. Quelle corde ai polsi la stringevano, aveva provato a toglierle ma si era solo fatta più male: sentiva qualcosa di caldo, sentiva il suo sangue che cadeva, macchiando i vestiti, gocciolando a terra. Pianse ancora.
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Il passato certe volte non ti permette di essere felice, Alchemy lo sa bene. Ma forse, scoprire che la persona più importante della sua vita porta un peso nell'anima a sua volta, può rendere il tutto più sopportabile.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ecco a voi quello che succede quando la vostra compagna di banco, migliore amica e parthner in crime Ciajka decide di scrivere una fanfiction e finisce per contagiarvi, complice anche un buon libro romantico e due personaggi (canidi per la precisione) che decidono di fare da cavie per la storia, umanizzandosi.

Non è la prima storia che scrivo ma è la prima che scrivo su dei miei personaggi "importanti", Dastan e Alchemy. In questa storia sono umani, nella realtà, Dastan è un misto tra un West Siberian Lajka e un lupo artico, mentre Alchemy è un Belgian Malinoin Sheperd (da qui capite anche i nomi...Dastan e Alchemy, più nomi da cani, no?). Anche in versione canina tra questi due c'è un bel po' di chimica, diciamo che in questa storia la loro relazione riceve una piccola spinta. 

Nella mia pagina di DeviantArt ci sono i loro due profili con le storie, quella di Dastan è rimasta pressocchè uguale, mentre quella di Alchemy ha subito delle modificazioni, se leggete le schede e la storia capirete (spero) il motivo delle modifiche.

Ero un po' dubbiosa sul pubblicare la storia, non è che sia un granchè ma devo dire che mi sono messa d'impegno, ma la nostra cara Ciajka mi ha spronata a continuare perchè la storia stava venedo fuori carina. Scusate la lunghezza ma, a quanto pare, quando mi metto, scrivo come una macchinetta!

Vabbè che pure i temi che scrivo a scuola mi fanno schifo, ma, comunque...questa è una delle poche cose che ho scritto che mi piace abbastanza.

Beh, buona lettura!

-Saske

 

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“Hey mein liebe! Ma dobbiamo proprio?!”

L’accento tedesco, ormai, si sentiva poco, solo quando pronunciava quelle rare parole nella sua lingua madre, la lingua della sua patria, da tanti anni scomparsa.Ma Dastan non ci faceva caso, non ci pensava mai. Aveva ben altro per la testa. Come il pranzo di Natale dai genitori di Alchemy.

“Non fare storie! Anzi, muoviti!” rispose secca lei.

“Andiamo!!” si lamentò lui.

“Dastan, non vuoi mai venire! Oggi è Natale, dobbiamo andare!” sospirò Alchemy, finendo di pettinarsi i capelli con sfumature ramate.

“Ci verrei e volentieri ma ci sono due cosucce che guastano sempre le visite: primo, perchè tuo padre mi odia! Ogni volta è una sofferenza!”

“Mio padre non ti odia!”

“Ohhhh certo, certo!” disse l’amico, ironico “Tutte le volte che mi vede mi chiama Nazista o fa altri riferimenti alquanto spiacevoli su di me per via delle mie origini!”

“Non è per cattiveria…lui…lui è fatto così, sai che ha avuto un’infanzia non esattamente felice…”

“Si, conosco la sua situazione ma io non ho niente a che fare con quello che gli è capitato! Cosa centro io?!”

“Lo so, ma-“

“E tua madre?!” la interruppe lui, esasperato “Oddio, lei a suo modo è ancora peggio!”

“Dastan, per piacere …” si massaggiò le tempie: ogni volta era la stessa storia.

“Ci chiede quando ci sposiamo, quando ti compro un anello o se funziona tutto bene qua sotto perché lei vuole dei nipoti!” disse, indicando l’inguine.

“Gliel’ho detto che non stiamo insieme e che siamo solo amici ma tu a lei stai simpatico, ecco perché fa così.” giustificò la madre Alchemy.

Dastan si lasciò cadere in una sedia lì vicino, poggiando la testa sulle mani. Andava ai pranzi e alle cene solo per l’amica, ma mal sopportava i genitori di lei, soprattutto il padre, la madre di lei ancora ancora poteva passare, ma l’uomo lo assillava e lo incolpava di cose che mai si sarebbe sognato di fare. Ma sopportava. Sopportava e non reagiva. La buttava sul ridere, come il suo solito. Alchemy gli si avvicinò, già pronta per partire, coi suoi jeans preferiti, quelli strappati, con una maglietta bianca e sopra un dolcevita nero, nuovo. Qualche ciocca dei suoi capelli rossicci con sfumature ramate, nonostante fossero legati a coda, le ricadevano sulla fronte, davanti gli occhi. Dio, anche così era sempre bellissima.

“E’ solo un pranzo.” Gli disse, posandogli una mano nella coscia “Andiamo, mangiamo e torniamo, semplice.”

Lui sospirò e la guardò con uno dei suoi sguardi provocanti, lei sorrise, intuendo che, ancora una volta, era riuscita a convincerlo.

“Va bene, mein liebe, va bene …” disse infine il ragazzo, alzandosi di scatto.

“Allora adesso vestiti, non vorrai venire in boxer spero!”

Lui si girò “Perché? Non ti piacerebbe?” ammiccò, avvicinandosi a lei.

“Ai miei genitori di sicuro no!” rise Alchemy , poi si fece seria, anzi, con un’espressione che sembrava arrabbiata “Forza! Forza!” batté le mani in direzione di Dastan “ Jeans, canottiera, camicia bianca e maglione!”

“Non anche il maglione! Dai tuoi si muore di caldo per via del camino!”

“Portalo via almeno! Fuori nevica, devi metterlo!”

“Uff d’accordo!”

“E ora sbrigati o faremo tardi!”

Dopo dieci minuti anche Dastan era pronto. Uscì dalla sua stanza intento ad indossare la sua croce Prussiana, argento e nero con un laccio di tessuto nero, bianco e nero attorno al collo,che gli dava un certo fascino.  Alchemy lo guardò, sapeva quant’era importante per lui quella specie di collana, unico ricordo delle sue origini e della sua famiglia, e per questo ne era molto geloso. E lei lo rispettava. Istintivamente mise una mano sotto la bandana blu che le avvolgeva il collo, sfiorando la cicatrice a forma di X che nascondeva con tutta se stessa. Non riusciva a toccarla. Ogni volta che ci provava, le sembrava di tornare indietro nel tempo, quando la ferita appena subita bruciava, poteva sentire la carne dilaniata in profondità, sentiva che l’osso era vicino, vedeva il sangue scorrere veloce, macchiando vestiti, pelle e pavimenti. Il pensiero le fece venire i brividi. Scostò la mano e cercò di scacciare quella dolorosa immagine.

“Pronto?” chiese, vedendo Dastan uscire dal bagno.

“Certo che sì!” rispose lui.

Ma Alchemy notò che l’amico aveva il colletto della camicia messo male, lui di solito non badava a certe cose ma lei sì e si offrì per sistemarlo. Le faceva sempre uno strano effetto stargli così vicina, col naso a pochi millimetri dal suo, il cuore partiva a battere più velocemente e sentiva le guance farsi più calde. Lui rimase fermo, immobile, respirando lentamente, a suo agio e calmo. Dopo aver piegato bene il colletto, la ragazza rimase immobile a sua volta, alzando piano gli occhi fino ad incrociare lo sguardo di Dastan. Adorava quegli occhi, dorati con sfumature scure, avrebbe potuto perdersi in quel mare d’oro, in quello sguardo, innocente e, allo stesso tempo, colpevole, uno sguardo che la desiderava e che lei sapeva perfettamente ma non riusciva a lasciarsi andare. Provava qualcosa per quel ragazzo, persino sua madre era riuscita a capirlo ma lei non era ancora sicura dei suoi sentimenti, per cui, le cose tra loro due si limitavano a sguardi, abbracci o momenti come questo, anche se Dastan, per scherzare o farla arrabbiare, si comportava sempre un po’ da playboy, visto che la cosa la faceva arrabbiare e normalmente, si ritrovava con un pugno, amichevole, nel braccio.

“C-Credo sia meglio andare …” disse Alchemy, rompendo quel momento.

L’amico davanti a lei annuì “Tu vai in macchina, io prendo la giacca e arrivo.”

Lei salì sul lato del passeggero, sospirando. Dastan la raggiunse poco dopo e i due partirono. Il viaggio era lungo, per questo erano partiti presto, alle 9, poiché avevano tre ore buone di strada da fare. Parlarono perlopiù di cosa si aspettavano per pranzo, visto che la madre di Alchemy era un’ottima cuoca che cucinava con passione e a cui piaceva provare nuove ricette ogni volta che era possibile. Ma per la maggior parte del tempo, la musica fu padrona dell’automobile. Dastan adorava la musica, passava ore seduto sul letto o sul divano a suonare la sua chitarra, melodie leggere e rilassanti, come pezzi più impegnativi e forti. All’amica non dispiaceva, la musica la metteva di buon umore e la caricava.

Verso mezzogiorno e mezzo, il viaggio finì. La villa dei genitori di Alchemy era un po’ fuori città, vicino ad un paesino circondato da prati e campi, ora coperti di neve, e in mezzo alle colline, precisamente, in prossimità di un boschetto. La stradina che bisognava percorrere, per fortuna, era abbastanza pulita, gli spazzaneve erano sicuramente passati poche ore prima. C’erano altre case lì intorno, molte erano fattorie col proprio campo. Ogni camino fumava. Ogni casa era illuminata da lucine di vari colori che addobbavano gli esterni e qualche pianta. Dastan rimaneva comunque sempre colpito dalla casa in cui si stava recando, il padre di Alchemy era ricco e si vedeva. Più che una casa sembrava un piccolo castello! L’accoglienza fu la solita, come entrambi si aspettavano.

“Oh Alchemy! Eccovi finalmente! Non potevo più aspettare per vedere la mia bambina!” gioì la madre della ragazza, abbracciandola.

“Ciao mamma.” Ricambiò l’abbraccio la figlia “Anch’io sono felice di vederti.”

“Ma … sempre con questi jeans? Perché non indossi mai un bell’abito da sera, una gonna, qualcosa di più femminile?” domandò la donna, con un po’ di amarezza.

“Sai che quella roba non fa per me, mamma …” le rispose Alchemy.

“Se vuoi che Dastan ti noti per bene, dovrai metterti un po’ più in mostra, cara!”ribatté la madre.

“Mamma! Per piacere!” disse la figlia, irritata.

Dastan, dietro di lei, roteò gli occhi. La donna non godeva nel vedere la figlia imbarazzata, solo non capiva perché i due giovani si presentavano ogni volta come semplici amici, dopotutto, vivevano nello stesso appartamento, andavano in giro sempre insieme, erano una coppia a tutti gli effetti! Si domandava infatti perché non venivano mai come fidanzati, perché non si decidevano ad aprire gli occhi . Era cosciente che non era carino punzecchiare così Alchemy ma era più forte di lei, voleva fare qualcosa, voleva dare una spinta a quei due. La ragazza superò la madre ed entrò in casa, togliendosi il cappotto.

“Ah Dastan! E’ sempre un piacere vederti!” disse la donna “Grazie per essere venuto!” gli porse la mano.

Lui la strinse e ricevette un abbraccio “Si figuri, non potevo di certo mancare!”

“Progressi con mia figlia?” gli strizzò l’occhio la madre dell’amica, dopo aver sciolto l’abbraccio.

“C-Come prego?!” chiese confuso il giovane.

“Haha! Sto scherzando, sto scherzando, tranquillo!” rise lei, invitandolo ad entrare.

Lui si sforzò di ridere ma tornò serio praticamente subito. Una volta entrato, si trovò davanti il padre di Alchemy: sguardo minaccioso, braccia incrociate, pipa in bocca.

“Accidenti …” pensò il ragazzo tra sé.

“Vedo che ti porti ancora dietro questo avanzo di galera Nazista.” Disse l’uomo per cominciare “Cos’è, ti hanno promosso? Alzato di grado? Fai la guardia del corpo e pesti chi le si avvicina?”

“Caro!” lo rimproverò la moglie.

“Papà, potresti cercare di comportarti da persona civile, almeno per oggi?”

Il padre di Alchemy sbuffò e si avviò verso la sala da pranzo con le mani in tasca. La figlia si avvicinò a Dastan, stringendogli il braccio e posando la fronte sulla sua spalla.

“Cominciamo bene …” gli sussurrò, sospirando.

Lui si limitò a fare un respiro profondo.

“Ragazzi!” chiamò la madre di lei con una pentola in mano “E’ pronto, venite!”

Delle portate, né Dastan né Alchemy avevano da lamentarsi, la zuppa era deliziosa e i secondi di carne erano cotti alla perfezione e potevano far invidia a molti ristoranti, per non parlare del dolce, la fine del mondo!

“Allora Alchemy, come va il lavoro all’università?” chiese il padre.

“Piuttosto bene, al momento sto facendo delle ricerche in modo da dimostrare alcune tesi credute errate sull’alchimia” rispose la figlia.

“Hm tieni fede al tuo nome vedo” ridacchiò l’uomo.

“Tu Dastan, invece? Come vanno gli studi?” chiese la moglie.

“Oh” si schiarì la voce “Non mi lamento. Ho trovato anche un lavoro in palestra, così metto via qualche soldo e mi distraggo un po’”

“Distrarti? E da cosa?” chiese il padre dell’amica.

“Beh, ora che ho preso la laurea sto facendo delle specializzazioni e sono parecchio impegnative. La psicologia non è semplice.”

“Studi le menti delle persone quindi, idee, concetti …” sottolineò il capo famiglia.

“Esatto.”

“Anche nelle famiglie? Nella genetica?” chiese.

“Cosa intende?”

“Voglio dire, potrebbe esserci qualche gene presente nei componenti di una famiglia che fa assumere una determinata mentalità” fece una pausa e poi tornò a fissare Dastan con gli occhi neri “Se un individuo viene indottrinato in un determinato modo, potrebbe mutare le proprie caratteristiche mentali, con la possibilità che queste passino ai discendenti.”

“Dove vuole arrivare?” il giovane sostenne lo sguardo.

“Penso sia possibile che se un padre compie determinate azioni e si comporta in un certo modo, anche il figlio potrebbe seguire le sue orme.”

“Senta, lo so che mio padre ha combattuto coi Tedeschi durante la guerra, ma io no-“

Il padre di Alchemy lo interruppe “Non era questo quello che intendevo.”

Dastan lo guardò confuso.

“Sai, tempo fa ho letto che un padre di famiglia, originario di Kaliningrad, la vecchia Königsberg, ha fatto una strage in casa sua. Il figlio non è mai stato trovato. Se fosse ancora in circolo, credi che potrebbe compiere a sua volta il gesto del padre?”

“I-Io …” io giovane si agitò “Non-Non saprei … dubito … questi comportamenti di solito, non sono ereditari …”

“Ne sei sicuro? Perché sei così agitato? C’è qualcosa che ti turba forse, del discorso?”

“Dastan, tutto bene?” chiese Alchemy.

“S-Si, si, è tutto apposto grazie” si giustificò lui “E’ solo che non sono ancora arrivato ad affrontare questo tipo di concetti coi miei studi …”

“Ma io non ti ho chiesto dei tuoi studi, ma di una tua opinione personale.” Il padre dell’amica non sembrava volergli lasciare un attimo di pace.

“Ma non sapete che notizia!” s’intromise la moglie, per alleviare la tensione “C’è una bella casetta a un’ora e mezza da qui che vorremo prendere come casa invernale! Che ne dite se andate a fare un giro?”

“Sì, buona idea, mamma!” disse la ragazza e chiamò l’amico, ancora fisso sul padre di lei.

Dastan storse la bocca, come se volesse ringhiare addosso al rivale se avesse potuto, l’uomo notò la sua espressione di rabbia ed emise un basso ghigno, quasi impercettibile. La madre di Alchemy diede istruzioni stradali alla figlia e le mostrò una foto della casa, per essere sicura che non sbagliasse abitazione. Era più piccola della casa dove si trovavano ora e decisamente più vecchia.

Il viaggio in macchina fu silenzioso, troppo per Alchemy, che detestava vedere il compagno così imbronciato.

“Mi dispiace per quello che ha detto mio padre …” disse lei.

“Riesce sempre a farmi incazzare, accidenti!” replicò lui, stizzito.

“Almeno non ha fatto i suoi soliti discorsi sulla guerra e sui Tedeschi.”

“Hmf … quasi quasi, avrei preferito quelli …” ribatté Dastan, a bassa voce.

“Come scusa?”

“Niente, niente … pensieri ad alta voce, lascia stare.”

Alchemy lo guardò sospettosa, ma lui non sembrava voler proseguire il discorso. Era pensieroso. Perché quel vecchio rompiscatole del padre dell’amica gli aveva fatto quelle domande? Non riusciva proprio a capire perché non lo avesse accusato, al solito, del fatto di essere figlio di Tedeschi o che altro, perché proprio quelle domande? … Sapeva? No! Impossibile! Nessuno sapeva. Quella storia era stata dimenticata, cronaca nera svanita da anni. Forse doveva raccontarla ad Alchemy, condividevano tutto. Dopo tutte le volte che si era sfogata piangendo con lui, forse era ora che anche lui le confidasse i suoi segreti, quei fastidiosi scheletri che infestavano il suo armadio ovunque andasse. Dastan guardò l’amica con la coda dell’occhio: lei aveva gli occhi chiusi e un’espressione serena. No, non era il momento per parlare di certe cose. La giornata, a parte quella spiacevole conversazione, piacevole, forse era meglio aspettare.

“Dovresti guardare la strada, non me.” Disse calma lei.

“Come hai fatto a sapere che ti guardavo?!” esclamò il giovane, sorpreso.

“Ci sono tante cose che so fare” rispose Alchemy, ancora con gli occhi chiusi.

“Mmmmm … mi piace questa frase” le sussurrò lui.

“E smettila!” lei gli tirò una pacca sul braccio “Devi sempre pensare a certe cose?!”

Dastan si ritrasse, ridacchiando “Tanto lo so che a certe cose pensi anche tu!”

“E da quando sai leggere ne pensiero?”

“Ci sono tante cose che so fare, mein liebe.”

“Ma non mi dire!”

“Posso anche dirti che siamo arrivati.”

Alchemy guardò fuori dal finestrino: l’amico aveva ragione, una piccola e vecchia villetta apparve alla loro destra. Il colore rosso delle pareti esterne pareva sfumato, quasi tendente al rosa a causa delle varie intemperie atmosferica alle quali era stata esposta per molti decenni. La casa in sé metteva un po’ di soggezione, sembrava una di quelle case che si vedevano nei film dell’orrore, la casetta dove i protagonisti dovevano fronteggiare chissà quali creature e la cui sagoma appariva sotto una pioggia torrenziale, illuminata dai lampi. Per fortuna di temporali non c’era traccia, dal cielo scendevano solo fiocchi di neve, non proprio leggeri. I due ragazzi scesero dalla macchina e poterono subito notare, mentre si avvicinavano all’ingresso, che nel vasto giardino prevalevano le erbacce, ormai del tutto sepolte nella neve, e gli alberi, piantanti non da molti anni, spogli e secchi, probabilmente non solo per via del freddo. Uno strato bianco che si faceva ora dopo ora, sempre più consistente, tingeva il paesaggio. Ai lati del vialetto, mescolati alla neve pestata e al ghiaino, c’erano vari pezzi di tegole, staccate dal vento. Anche i balconi alle finestre non avevano un bell’aspetto: la vernice era scrostata e lasciava vedere chiazze marrone scuro che contrastavano il rossiccio originale; tra l’altro, alcuni di essi, delle finestre più alte, minacciavano di precipitare. Il legno del portico scricchiolava.

“E’ una catapecchia!” rise Dastan.

“Forse dentro è messa meglio … entriamo, dai.” Suggerì Alchemy.

La porta d’ingresso era di legno massiccio con varie decorazioni incise, ma necessitava di una bella lucidata. L’entrata dava direttamente al salotto, spazioso ma polveroso, unito alla  cucina da un tavolo a penisola. La cucina non era grandissima ma era già arredata e presentava tutti i comfort necessari per chi amasse cucinare. Delle vecchie scale a chiocciola conducevano al piano superiore, scricchiolando ad ogni gradino. Il primo piano si allungava in un largo corridoio che portava a quattro camere da letto e un bagno. Al contrario del piano inferiore, niente era arredato e le camere presentavano solo degli alquanto instabili letti. Il bagno era grande, la vasca vicino alla finestra, però,  era da cambiare, crepata e ingiallita com’era. Ci sarebbe potuta stare una bella specchiera sopra il lavandino. Le piastrelle, con dei ghirigori orrendi, sarebbero state le prime a partire. Le camere erano alquanto spaziose, una di loro aveva pure la moquette sul pavimento, polverosa e ruvida. I letti, purtroppo, non erano degni di questo nome, brande con  molle rotte e sporgenti, ecco cos’erano, sicuramente non avrebbero sopportato il peso di una valigia, figuriamoci di una persona.

“Per fortuna che tuo padre non ha problemi economici.” Disse Dastan “Se comprano la casa, ci vorrà una fortuna per sistemarla!”

Alchemy non gli diede retta, quella casa era veramente ben lontana dai gusti dei suoi genitori, certo, era lontana dal traffico, dalla gente, era una casetta per i fatti suoi, ma non riusciva a capire cos’avesse attirato l’attenzione dei suoi. Continuò a girare per la casa, con le mani nelle tasche, immersa in quei pensieri, finché l’amico non la chiamò.

“Hey baby! Vieni a vedere cosa c’è qui!”

La ragazza si diresse in cucina, dove trovò Dastan inginocchiato davanti ad una porticina.

“Credevo fosse la dispensa ma ci sono delle scalette di legno, forse è la cantina.” Le disse, un po’ incerto.

Lei diede un’occhiata ma non riuscì a vedere nulla.

“E’ buio, non riesco a vedere cosa c’è sotto” lo informò.

“Forse c’è un interruttore nella parete” e tastò il muro interno, senza sporgersi troppo “No, niente.”

“Allora chiudi e andiamo, tanto un giro lo abbiamo fatto, come ha chiesto mia madre.”

“Ah no. Vado a prendere la pila in macchina e andiamo lì sotto.”

“Neanche per sogno! Chissà da quanto tempo qualcuno non scende quelle scalette!” sbottò Alchemy.

“Tranquilla, sicuramente ci conservavano determinati cibi da far stagionare o il vino!” ridacchiò lui, avviandosi verso l’uscita.

La giovane sbuffò, massaggiandosi una tempia. Risaliva un’aria stagnante da quella strana cantina oscura, aria vecchia e fredda, che la fece rabbrividire. Dastan tornò poco dopo, torcia alla mano, pronto a scendere.

“Eccomi! Possiamo andare!” disse e scese cautamente i gradini, i quali non si ruppero, cosa di cui entrambi avevano timore.

Alchemy quasi non si mosse, tratteneva il respiro mentre seguiva i passi del compagno. Ma era agitata. Una volta fatto l’ultimo scalino, si guardò intorno: quello che riuscì a vedere era una stanza praticamente vuota, con qualche cassa di legno lungo la parete adiacente alla scala, ricoperte di uno strato consistente di polvere e adornate di ragnatele, le quali non mancavano in ogni angolo e buco della stanza. Davanti a loro si apriva uno stretto corridoio. Sembrava ci fossero delle porte verso la sua fine. Il compagno avanzò silenziosamente, l’unico rumore che rimbombava tra le pareti era il loro respiro.

“Chissà cosa c’è in queste stanze …” disse lui, aprendo con fatica una massiccia porta di legno “Perché non guardi in questa qua davanti, tu?” chiese all’amica, indicando un’altra porta.

Lei lo guardò ma non si mosse “Io … ho un po’ di paura …”

Lui frugò nella tasca posteriore dei jeans e le porse una pila più piccola “Con questa avrai luce anche tu, non preoccuparti, sono solo vecchie stanze, cantine, nient’altro.”

La ragazza prese la piccola torcia e, con riluttanza, si avviò verso l’altra porta, guardando a destra e a sinistra, come se qualcuno potesse aggredirla da un momento all’altro, sbucando dal buio. Faticò molto per aprire quella porta e si trovò dentro una stanza buia e spoglia che somigliava più ad una cella che ad una cantina. Rimase sull’uscio, una mano teneva la porta, l’altra puntava la pila all’interno, rompendo l’alone di oscurità. Stringendo gli occhi, cercava di vedere quali strane cose potevano celarsi in quello strano posto. C’erano tre casse in un angolo, due delle quali erano rotte, sfondate, come se qualcuno ci fosse caduto sopra, anzi, nel modo in cui erano ridotte, sembrava che qualcuno vi fosse stato scaraventato con forza. Nella parete destra, poi, era appeso qualcosa che luccicava fiocamente alla luce della pila. Alchemy non riusciva a vedere di cosa si trattava, l’unica opzione era avvicinarsi, anche se la cosa non la entusiasmava. Si voltò per vedere se Dastan avesse finito la sua ispezione ma la porta della stanza dove lui si trovava era ancora aperta e lo sentiva muoversi al suo interno. Tirò un lungo respiro e deglutì, quindi lasciò la porta che, senza che lei se ne accorgesse, iniziò a chiudersi lentamente. Avvicinandosi alla parete, quella cosa appesa si fece più chiara e somigliava sempre di più a quattro anelli metallici, arrugginiti. La parete lì intorno, poi, aveva strani segni marrone rossicci, più sul marrone che sul rosso e, in quella specifica zona più che nel resto della stanza, aleggiava un odore acre, intenso, che aveva impregnato il muro.

“Ma che co-“ il suo pensiero fu interrotto da un rumore.

Un VUMP! La fece voltare di scatto. La porta, chiudendosi, mosse l’aria. Alchemy corse verso la porta, tirando e spingendo la maniglia, cercando di aprirsi l’uscita ma un TLAK! Che sentì poco dopo la mandò in panico. Si era forse chiusa dentro? No, non poteva essere imprigionata in un simile posto! Si mise ad urlare, battendo i pugni sulla porta, per farsi sentire.

Dastan non aveva trovato niente di interessante: vecchie corde consumate dalla muffa, vasi per fiori in terracotta crepati o rotti, pezzi di barattoli di vetro, niente di che, insomma. Ma degli strani rumori, al di fuori della stanza, destarono la sua attenzione. Uscito, richiuse la porta e notò che la stanza dov’era entrata l’amica era la fonte dei rumori. Il giovane provò ad aprila, senza successo.

“Alchemy! Sei lì dentro!? Cos’è successo?!” chiese, agitato.

“Stavo guardando cosa c’era appeso al muro e la porta si è chiusa!”

“Accidenti! La porta è proprio bloccata, non riesco ad aprirla da fuori!”

“Ti prego Dastan, tirami fuori di qui!”

Lui provò di nuovo a forzare la porta, lanciandosi e tirando spallate conto il duro legno ma dopo due o tre tentativi ci rinunciò, era evidente che si sarebbe fatto male e basta. Buttare giù la porta era impossibile, non c’era nulla che potesse aiutarlo per quello scopo, ma forse svitare i cardini sarebbe stato più semplice.

“Ascolta Alchemy, adesso vado a cercare qualche attrezzo per aprire la porta, stai calma, io arrivo subito, fidati di me.” Le disse.

“No, no, no, per favore! Non mi lasciare qui!” implorò lei.

“Non ti lascio, sono qui con te, guardo se nelle stanze al piano di sopra c’è qualcosa per aprire questa maledetta porta e torno, ti tirerò fuori!”

“Dastan no! Non te ne andare! Dastan! DASTAN!” ma non ricevette risposta.

Alchemy andò in panico, gli occhi le si riempirono di lacrime; batté ancora sulla porta fino a quasi farsi sanguinare le nocche. La pila le volò dalle mani, finendo sotto gli anelli metallici, la cui luce si affievolì sempre di più, fino a spegnersi. Con le lacrime che le rigavano le guance, si inginocchiò e cercò di riaccendere la piccola torcia: la lampadina all’interno dell’oggetto diede qualche segno di vita. Inginocchiata, con la parete illuminata in quel modo, dal basso, con gli anelli che proiettavano ombre sinistre, la ragazza ebbe un attacco di puro terrore. Chiusa lì, al buio. Sola. Sperava di non dover più rivivere una simile situazione. Il cuore iniziò a batterle all’impazzata. Tremori le scossero il corpo, una sensazione di oppressione, di ansia, di angoscia la dominò. Ora capiva cos’erano le incrostazioni sul muro, ora capiva perché l’odore acre le faceva drizzare i capelli. Sangue. La stanza iniziò a roteare e la mente della giovane tornò indietro nel tempo di dodici anni.


Aveva i polsi legati alla parete. C’era una piccola finestra, sbarrata, in alto vicino al soffitto, troppo alta per essere raggiunta. Pareti di cemento, grigie e tristi la circondavano. Era buio. Era sola.

Stava tornando a casa da scuola per pranzo e l’avevano portata via con la forza. Aveva pianto tutto il pomeriggio. Aveva fame, voleva andare a casa, voleva sua madre. Quelle corde ai polsi la stringevano, aveva provato a toglierle ma si era solo fatta più male: sentiva qualcosa di caldo, sentiva il suo sangue che cadeva, macchiando i vestiti, gocciolando a terra. Pianse ancora.

C’erano delle voci, le sentiva poco ma riuscì a capire il senso della conversazione: se voleva tornare a casa, viva e sana, suo padre avrebbe dovuto dare a quei bruti soldi, molti soldi. Perché stava accadendo tutto questo? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Aveva offeso qualcuno? Lei, ancora piccola, ancora bambina, appena fatti 13 anni, non capiva. Tutto quel buio la spaventava.

Tirando e tirando, dopo qualche ora riuscì a svitare il pezzo di metallo a cui erano attaccate le corde al muro e, incredula, si liberò le mani. Si toccò i polsi, non riusciva a vedere le ferite ma sentiva coi polpastrelli la pelle scorticata. Le venne in mente che sua madre le metteva un cerotto quando si faceva male, uno di quelli colorati, con le faccine sorridenti per rallegrarti, ma prima disinfettava il taglio, in modo che non s’infettasse, che non facesse altri danni. Adesso però non c’era nessuno a pulirle quelle ferite e nessun cerotto per tirarle su il morale. Ma almeno, non era più legata. Si alzò in piedi barcollando e si mise davanti la porta della cella. Si aspettava di trovarla chiusa, con le chiavi appese chissà dove ma un raggio di speranza la illuminò quando la porta, al suo tocco, si aprì. Mise fuori la testa : nessuno in vista, solo rumori e luci da un salottino a tre metri da lei circa. Chissà perché, ma lo immaginava più grande quel posto, però, forse, essendo piccolo, avrebbe trovato una via di fuga più in fretta e senza che i suoi rapitori se ne accorgessero. 

Dalla parte opposta alla saletta, alla sua destra, c’era una finestra; non le sembrava che le avessero fatto fare delle scale, dedusse che quindi si trovava al pianoterra e che il terreno fuori non sarebbe stato difficile da raggiungere, bastava un banale salto dalla finestra, tanto era buio e lei era piccola e veloce, non l’avrebbero mai presa e in qualche modo, sarebbe tornata a casa da sua madre e suo padre. Sì, era un buon piano ma doveva agire subito.

Ricontrollò di nuovo a sinistra, la saletta era calma, i rumori e le luci derivavano sicuramente da una televisione; poi guardò a destra, la finestra faceva penetrare abbastanza luce da farle scorgere una porta in fondo in fondo, ma sembrava non ci fosse nessuno dentro, silenziosa e tetra com’era. In punta di piedi, con passo felpato come vedeva fare alle leonesse nei documentari durante la caccia, si avvicinò alla finestra trattenendo il respiro. Bene, finestra raggiunta. Nell’aprirsi, i cardini emisero un alto cigolio, tanto che la piccola si girò a guardare verso la saletta, temendo che quel rumore si fosse fatto sentire più del televisore: nessun movimento per fortuna. Non fece a tempo a tirare un sospiro di sollievo che la porta in fondo, quella che sembrava tanto tranquilla, si aprì e la luce si accese, illuminando tutto il corridoio, infrangendo il suo tentativo di fuga quasi riuscito. Tre uomini la circondarono e chiusero la finestra. Purtroppo il cigolio qualcuno l’aveva sentito.

Uno di quei tre lanciò a terra una bottiglia, frantumandola. Quegli uomini emanavano un odore di alcol, soprattutto quelli che erano stati in saletta. La trascinarono nel capanno nel retro di quella casa-prigione, sghignazzando e borbottando di punizioni e cattiva condotta. Accesero un fuoco nel piccolo camino della struttura di legno e buttarono al suo interno bastoni di metallo. Volevano ammazzarla di botte? Le lacrime premevano con forza per uscire ma la bambina si limitò a singhiozzare. Come desiderava che fosse tutto uno scherzo, tutto un gioco!

L’uomo uscito dalla stanza buia iniziò a girarle intorno e a parlare: un discorso confuso uscì dalle sue labbra,  accusava la piccola di tradimento per aver cercato di scappare e via così, ma tutto riconduceva allo sgarbo che lei aveva commesso, al fatto che ai loro occhi ora, lei era una traditrice. Ma come faceva ad averli traditi se neanche li conosceva? Sicuramente, tutto l’alcol che avevano bevuto, aveva annebbiato loro la mente ma di una cosa quei tre erano d’accordo: una punizione era d’obbligo.  Blaterarono che lei non valeva niente, che suo padre era egoista e malvagio, pieno di soldi e che entrambi erano al pari delle bestie e come le bestie doveva essere trattata, le bestie che scappano si possono perdere e non tornare mai più ma le bestie marchiate, prima o poi, ritornano dai padroni. Quelle parole violente la spaventavano, era confusa. Uno dei bruti prese un bastone di metallo dal fuoco, la punta era a forma di X, le fiamme l’avevano resa incandescente,  gialla-biancastra e rossa e il calore che emanava deformava l’aria. La inchiodarono a terra con un sorriso cattivo in faccia. Il cuore le stava per uscire dal petto. Sentiva il ferro caldo avvicinarsi al collo, iniziò a sudare, cercò di liberarsi dalla presa ma invano. Chiuse gli occhi e gridò con tutta se stessa quando la X infuocata si posò sulla sua pelle morbida del collo, un odore di carne bruciata le riempì le narici, sentiva la punta premere sempre più in profondità, bruciando ogni strato di muscoli, nervi e sangue che si presentava nel suo cammino. Urlò ancora più forte quando quel ferro tornò in superficie, faticando ad uscire per via della pelle e carne ancora attaccati per il calore. Il dolore le scosse tutto il corpo, era insopportabile, allucinante, voleva solo che finisse tutto, avrebbe preferito che la ammazzassero di bastonate piuttosto che subire tutto questo. Si dimenò e provò a toccarsi il collo ma il minimo contatto le inviò un’altra scossa di dolore. Come poteva resistere? Non ci riusciva, era troppo per lei. Tutto iniziò a sfocarsi  e lei svenne.

Quando si risvegliò era di nuovo nella cella, ma, almeno, non era legata. Il collo pulsava, aveva ancora quel terribile odore nelle narici, non si mosse, non provò ad alzarsi e l’idea di scappare la fece tremare: temeva un’altra punizione, magari ancora peggiore. Non sarebbe più tornata a casa, non avrebbe più rivisto suo padre, non avrebbe più riabbracciato sua madre. Per tutto il resto della giornata, si limitò a fissare con sguardo assente la finestrella in alto, osservando i cambiamenti di luce e, una volta che il cielo si fece buio, posò la testa sul pavimento e si addormentò.

Dei rumori più intensi del solito le fecero aprire lentamente le pesanti palpebre. Forse si stavano preparando, forse stavano discutendo su come ucciderla. Rimase a fissare la luce che filtrava da sotto la porta, vedeva delle ombre che camminavano avanti e indietro. Poi la porta iniziò a tremare, a scricchiolare, qualcuno batteva. Di colpo si aprì, delle sagome entrarono, erano tante, non potevano essere quei tre aguzzini. Un’ombra, una sagoma corse verso di lei, chiamandola.

“Alchemy!”

Sembrava la voce di suo padre, ma era lontana.

“Alchemy!”

Non riusciva a vederlo, tutto era sfocato. Provò a chiudere e riaprire gli occhi. La cella si fece più buia, la finestra sbarrata sparì; tutte le ombre che erano entrate svanirono. La sagoma iniziò a prendere forma.

“Alchemy!”

No, non era suo padre. Si concentrò, mise a fuoco chi le stava venendo incontro. Tutto tornò chiaro e nitido, la scatola dei ricordi si sigillò di nuovo.

“Alchemy!”

Dastan era tornato a prenderla. Al piano superiore non aveva trovato niente di utile ma all’esterno c’era una cassetta per gli attrezzi, vecchia, ma con un cacciavite e una pinza che, nonostante la ruggine, sembravano ancora in buono stato. Era corso a tutta velocità verso la porta sigillata ed era riuscito a scassinare i cardini, riuscendo finalmente ad entrare. Alchemy gli si era lanciata sul petto appena lo aveva riconosciuto, piangendo, sfogandosi. Lui la strinse, cercando di calmarla. Lei tremava, non riusciva a parlare.

“Shhh…shhhh…sono qui, sono qui ora, è tutto apposto, non devi aver paura.” Le sussurrò.

“Er-Erano tornati…il ferro rovente…lo sento! La pelle brucia! Non ce la faccio…” le si ruppe la voce.

“Se ne sono andati, non ci sono più, siamo solo io e te..io e te…calma adesso…”

“Le bestie marchiate! L’avevano detto che tornano sempre, mi hanno trovata!” pianse lei.

A Dastan gli si stringeva il cuore a vederla così, vulnerabile, spaventata, la bambina costretta a crescere troppo in fretta tornava fuori in quei momenti e lui non sapeva che fare. Si limitava a consolarla, come adesso, abbracciandola, cercando di farle capire che lui le era vicino, che non le avrebbe mai fatto del male, era il suo appiglio. Questa volta però si sentiva in colpa, era stato lui a farla venire in quella cantina, era stato lui a dirle di guardare dentro quella stanza da sola. Sapeva la fobia dell’amica riguardo a posti simili ma l’aveva ignorata.

“Mi dispiace Alchemy…Dio, mi dispiace, è tutta colpa mia…” le disse, stringendola più forte, posando una guancia sulla sua testa.

Lei singhiozzò “C-Colpa tua?”

“Avremo dovuto andarcene quando l’avevi proposto tu…solo il giro della casa… ma da testa di cazzo che sono, ho insistito e guarda ora…” sospirò lui.

Alchemy non si mosse. I due rimasero così, inginocchiati e abbracciati.

“Credo sia meglio tornare dai tuoi…si staranno chiedendo perché ci stiamo mettendo così tanto, se te la senti…” suggerì il ragazzo.

Lei annuì e, insieme, si rialzarono. Dastan non la lasciò mai, camminò con un braccio sul fianco dell’amica, un po’ per sorreggerla, un po’ per farla sentire protetta. Durante il viaggio le tenne la mano, notò che la ragazza aveva uno sguardo spento e in parte sconvolto, sperava che le servisse un po’ di riposo.

“Mi dispiace…sai?” si scusò ancora lui.

“No, non devi scusarti…io…io…” si interrupe lei.

“E’ sempre colpa mia…sono stato egoista, ti faccio sempre star male dannazione…sono un idiota!” disse il giovane, irritato, tirando un pugno al volante che fece suonare il clacson.

“Dastan, dovresti essere arrabbiato con me, non con te…”

“Te?! Perché mai dovrei essere arrabbiato con te!” la guardò lui “Sono stato io a trascinarti là sotto!”

Lei guardò fuori dal finestrino “Ma non l’hai fatto apposta …come potevi sapere…”

Dastan non replicò. Fecero l’ultimo tratto di strada in silenzio, mano nella mano. Quando arrivarono a casa dei genitori di Alchemy, era ormai ora di cena ma era evidente che nessuno dei due avrebbe toccato cibo. La neve scendeva più intensamente.

“Ah, eccovi qua! Piaciuto il giro, ragazzi?” li accolse sorridente la madre di lei ma, vedendo la faccia della figlia, il sorriso svanì.

“Credo abbia bisogno di una doccia e di dormire…” disse il ragazzo.

“Cos’è successo?!” chiese la madre, allarmata.

“Niente mamma, io…ho solo bisogno di riposarmi…”

“Vieni tesoro, ti accompagno.” Si offrì la donna.

Dastan le guardò salire le scale, mani nelle tasche. Non si accorse che il padre dell’amica gli si stava avvicinando.

“Dov’è mia figlia?!” chiese con tono alterato.

“E’ di sopra con sua moglie.”

L’uomo lo superò e corse al piano superiore. Il giovane si spostò in salotto, prese posto in divano e si perse a guardare il fuoco.

“Devo parlarle…” pensò.

Aveva due cose che gli pesavano nel petto, forse questo non era il momento, forse non si sarebbe sentita meglio ma condividere i propri segreti con una persona di cui si fidava lo avrebbe alleggerito. Si coprì il volto con le mani e sospirò. Il rumore di passi pesanti in avvicinamento  gli fecero chiudere gli occhi.

“Che cosa le hai fatto?!” tuonò il padre di Alchemy.

Con gli occhi ancora chiusi, tutto ciò che Dastan disse fu “Niente.”

“Credi che sia stupido? Ho visto com’è ridotta psicologicamente!”

“Beh, non è stata colpa mia! O meglio, in parte forse ma-“

“Ah! Lo ammetti!” lo interruppe l’uomo.

“No!” ringhiò il ragazzo alzandosi in piedi con uno scatto.

“E allora come ha fatto a ridursi così, di grazia!?”

“Abbiamo trovato una cantina, era buio e lei è rimasta chiusa dentro! Sa che odia le stanze piccole e buie! Finché non l’ho tirata fuori è rimasta sola ed è andata in panico!”

“Tu pensi che io creda a queste storielle?!”

“Sì! Perché è la verità!”

“Ohhh andiamo! Sicuramente l’avrai malmenata, violentata o fatto chissà quale lavaggio del cervello!”

“Ma perché mi odia tanto!? Non mi sognerei mai di fare simili cose, soprattutto a sua figlia! Cos’ha contro di me?!” chiese Dastan, esasperato.

L’uomo non rispose, si voltò e andò in un’altra stanza, tornando poco dopo con due quotidiani che lanciò nel tavolino di vetro che si trovava al centro del salotto. Il ragazzo lo guardò confuso.

“Cosa sono?” chiese.

“Giornali di qualche anno fa. Prendine uno.”

Il giovane obbedì. I giornali riportavano una data risalente a circa una ventina d’anni fa, le pagine erano ingiallite e fragili. Diede una letta ai titoli in prima pagina. La vista di quelle parole e della foto allegata lo pietrificarono. In stampatello, grande e nero, c’era scritto “OMICIDIO-SUICIDIO: MARITO ACCOLTELLA MOGLIE, FIGLIO SCOMPARE, TRAGEDIA IN FAMIGLIA”. Ecco a che articolo si riferiva poche ore prima, mentre discutevano. La sua lettura fu disturbata dal padre di Alchemy, che iniziò a parlare.

“Dimmi, come sono morti i tuoi genitori?”

Dastan non alzò gli occhi dalla carta “Io…io non me lo ricordo..”

“Ne sei sicuro?” l’uomo si accomodò in poltrona.

“Ecco…io…”

“Sai, anche se non si vede bene, quell’uomo nella foto ti somiglia.”

Il ragazzo si sforzò di guardare la foto: c’erano due corpi, una donna dai lunghi capelli neri, distesa di schiena, con la gola squarciata e un uomo, al suo fianco, biondo e muscoloso, con la testa che sanguinava in vari punti, i vestiti macchiati di rosso.

“E la donna ha i tuoi stessi capelli e il tuo stesso naso, buffo eh?”

“Va bene! Va bene! Sono-erano, i miei genitori…”

Un sorriso compiaciuto apparve sul viso del padre dell’amica “Ho letto che quell’uomo, tuo padre, non era l’unico con quel tipo di problemi, anche tuo nonno e tuo zio erano in condizioni simili.”

“Non lo so, non li ho mai conosciuti.”

“Mi sembra evidente che questi comportamenti siano di famiglia e che-“

“No!” lo interruppe Dastan “Io non sono un violento. Io non sono…come LUI.” Quell’ultima parola venne marcata più delle altre.

“Come faccio ad esserne certo?”

“Beh, anche sua figlia può confermarglielo…”

“Chi mi assicura che non accada qualcosa di simile in futuro?”

Il giovane non seppe cosa rispondere. L’uomo aveva toccato un tasto dolente, il pensiero che lo faceva riflettere ogni giorno, che anche lui si chiedeva se, diventando vecchio, si sarebbe comportato come suo padre. Pregava ogni sera perché ciò non accadesse.

“Non voglio che accada niente alla mia famiglia, più di tutti a mia figlia. Non voglio trovarmi a dover seppellire una persona a me cara, già ci ero andato vicino anni fa.”

Dastan si lasciò cadere sul divano, con la testa bassa rimase in silenzio. Il padre di Alchemy prese entrambi i giornali, li ripiegò e fece per riportarli da dove li aveva presi.

“Vuole che stia lontano da sua figlia, vero?” disse il giovane, sempre a testa bassa.

Il capofamiglia si fermò “Vedo che sei un ragazzo intelligente. Sono sicuro che anche Alchemy capirà. Ce ne sono tanti di amici in giro che può trovare.”

Il ragazzo ridacchiò “Non rinuncerò a sua figlia, signore. Non posso e non voglio.”

“Certo che puoi!” sbottò l’uomo “Prendi e te ne vai, ADESSO.”

“No. Non ho intenzione di farlo.”

“Oh, accidenti!” gridò il padre dell’amica, buttando a terra i giornali “Sei pericoloso, te lo leggo in faccia! Non puoi e non devi stare qui! Non ti voglio più vedere e soprattutto, non ti voglio più vedere vicino a mia figlia, una volta per tutte!”

“Si calm-“

“Siete solo amici dopotutto, cos’hai da perdere?!”

Dopo un attimo di silenzio, Dastan si alzò in piedi e gli si avvicinò “Per me lei non è solo un’amica…capisce, vero?”

“Dettagli! Inezie! L’amore fa male e fa soffrire, prima o poi si deve imparare questa lezione! Ti ho sopportato fino adesso ma non lo farò in futuro!”

Il ragazzo rise, ironico “Lei mi ha sopportato?! Io cosa dovrei dire? Ogni volta che mi vede mi fa passare l’inferno!”

“Lo faccio per proteggere la mia famiglia perché so che genere di persona sei!”

“Si è accorto che è lei quello che sta sbraitando? Quello che si sta comportando com-“ si interruppe.

Un bruciore esplose in faccia la giovane, lo zigomo pulsava come non mai. Il padre di Alchemy era sporto in avanti, il braccio destro allungato e la mano chiusa a pugno. Aveva la faccia sconvolta. Tutte le cose che aveva detto pochi secondi prima, tutte le cose che voleva allontanare, lo avevano travolto ed era esploso. Voleva solo il bene per sua figlia, non voleva che soffrisse ancora, non voleva che le fosse fatto del male. Aveva visto i suoi fratelli e sua madre morire sotto colpi di fucile, uccisi dal nemico senza pietà quando lui era troppo giovane per poterli proteggere. Aveva quasi perso sua figlia, rapita da tre folli solo per ottenere un riscatto. Tutta la rabbia passata che aveva in corpo l’aveva sfogata su quel ragazzo, senza che lui ne avesse colpa alcuna. Aveva agito da violento.

Fece per avvicinarsi a Dastan ma questi lo bloccò.

“Non…non si avvicini, per favore.” Gli disse, cercando di mantenere la calma.

L’uomo voleva scusarsi ma dalla bocca non uscì nessuna parola. In quel momento, la moglie scese le scale e arrivò in salotto.

“Sta bene per fortuna, quell’attacco di panico è passato.” Comunicò ad entrambi.

“Si..uhm, bene, bene, mi fa piacere…” replicò il marito.

“Grazie per averla tirata fuori, Dastan.” Sorrise la donna.

Il giovane cercò di nascondere lo zigomo gonfio “Dovere signora.” Abbozzò un debole sorriso “Dov’è adesso? In camera sua?” chiese.

“Oh, è sotto la doccia.” Gli rispose la madre dell’amica, poi aggiunse “Noi dobbiamo andare giù in paese, vi ho messo a scaldare qualcosa nel forno.”

”Cosa? In paese? Per quale ragione?!” chiese l’uomo.

La moglie lo guardò stupita “Certo, come ogni anno. C’è la cena a casa della fiorista, ci invita ogni Natale.”

“Ohhh si, giusto, giusto…mi era passato di mente…” si giustificò lui.

Passò circa mezz’ora prima che i due padroni di casa se ne andassero. Dastan non si mosse dal divano. Si accorse che la camicia aveva due piccoli puntini rossi e, istintivamente, si toccò lo zigomo, ritraendo subito la mano per il dolore e notando che i polpastrelli che avevano toccato la ferita erano sporchi di sangue. Aveva colpito forte il vecchio! Era stato più difficile del previsto non reagire ma non voleva dar ragione alle parole e alle accuse che gli erano state sputate addosso con ira pochi istanti prima, non l’avrebbe fatto vincere. Prima che la coppia uscisse, li sentì bisbigliare.

“Nostra figlia sta male e noi la lasciamo da sola!” sbuffò l’uomo.

“Ora sta bene, è stata chiusa in uno stanzino e le sono tornate in mente tutte le brutte cose che erano successe quando…” le si incrinò la voce “Quando venne rapita…”

“Appunto. Sarebbe nostro obbligo stare con lei.”

“Alchemy ha 25 anni ormai. Mi ha assicurato che sta bene e che possiamo andare. Certo, è ancora scossa ma mi fido di lei. Sta facendo un bagno, si riprenderà. Fa sempre così quando sta male.”

“Si ma, lasciarla da sola…”

“Non è sola, Dastan è qui a casa.”

Sai che consolaz-“

“Oh insomma!” lo interruppe lei “Devi smetterla di fare così, devi imparare ad accettare quel ragazzo, non ha fatto nulla di male! Ora prendi le chiavi e andiamo!”

Detto questo la porta si aprì, facendo entrare uno spiffero gelido.

“Oh caro, guarda quanta neve! Ma…poco fa scendeva giusto qualche fiocco!”

La donna corse a prendere un ombrello e si chiuse la porta alle spalle uscendo, preceduta dal marito. Dastan sentì la macchina muoversi nella neve, scrocchiando con le ruote nel vialetto ghiacciato. Girò la testa per guardare dalla finestra. Era vero: nevicava per bene, anzi, com’era stato predetto dal meteo quella mattina, la tormenta sembrava essere arrivata. I pali della luce e gli alberi si scuotevano per il vento e la strada era già coperta di neve. La luce delle lampade all’interno della casa tremolò.

“Speriamo non vada via la corrente…” pensò.

Decise di andare a vedere come stava Alchemy, erano le sette di sera, era quasi un’ora che si trovava in doccia. Salì piano le scale e bussò alla porta della camera della ragazza.

“Hey Alchemy? Posso entrare? Stai bene?”

La risposta arrivò poco dopo “Si, si, vieni pure!”

Il giovane entrò e vide l’amica uscire dal bagno con un paio di vecchi jeans, ormai scoloriti, e una felpa grigio chiaro.

“Visto? Sono presentabile.” Gli sorrise lei.

“Sarei entrato anche se non lo fossi stata.” Disse lui, ricambiando il sorriso.

Alchemy lo guardò facendo finta di essersi irritata ma poi tornò sorridente. L’amico si sedette sul letto sospirando.

“Sta nevicando forte eh? Guarda che bufera!” disse la ragazza guardando dalla finestra.

“Già, a questo punto credo sia meglio rimanere qui, non mi fido a guidare con questo tempo di notte per tornare a casa.”

“Mi sa che hai ragione. Oh beh, la mamma sarà contenta!” rise, per poi diventare seria “Cos’hai fatto alla faccia?!”

Dastan si sfiorò lo zigomo “Oh questo? Uhmmm…scambio di opinioni…”

“E’ stato mio padre?!” chiese lei e, rispondendosi da sola, sospirò irritata.

“Tranquilla, è stato un incidente, non è niente…”

“Non credo proprio!” gli si avvicinò “Guarda che roba! Hai lo zigomo viola e c’è pure un po’ di sangue intorno!”

“Ehhhh ho subito di peggio. Domani sarà già passato, vedrai.”

Ma Alchemy non lo ascoltò e sparì in bagno, per poi tornare con un piccolo asciugamano, in parte inumidito.

“Forza, stai fermo che pulisco via il sangue.”

“No, no, non ce n’è bisogno.” Le disse l’amico.

“Sì che ce n’è bisogno! E ora stai fermo!”

Dastan sbuffò e la lasciò fare, meglio non discutere, tanto vinceva sempre lei. Appena la ragazza toccò il taglio, lui si ritrasse.

“Hey! Hey! Piano! Fa male!”

“Non fare il bambino! Ho finito!” ribattè lei “Ecco, semmai dopo mettici sopra un po’ di ghiaccio, così si sgonfia.”

Ricevette un borbottio confuso come risposta ma non ci badò.

“I miei sono partiti, vero? Per la cena.” Chiese.

“Sì, poco fa. Tua madre ha detto che ci ha lasciato qualcosa nel forno, in caso ci venisse fame.” Rispose lui.

“Hmh, non ne dubitavo, è sempre stata premurosa…”

“Già…” disse il giovane, sospirando.

Quello era il momento perfetto per parlarle, i suoi genitori non c’erano, nessuno li avrebbe disturbati, dopotutto, chissà quando ci sarebbe stata un’altra occasione per fare quel tipo di discorso.

“Senti Alchemy, io vol-“

Le luci si spensero di colpo.

“Oh andiamo! Cosa c’è adesso!?”  scattò in piedi di colpo lui.

“A quanto pare la neve ha causato un blackout” disse Alchemy, andando alla finestra “Sì guarda, anche in strada le luci sono spente e dal paese non vedo illuminazione.”

“Ci mancava solo questo …”

“Meglio andare in salotto, almeno c’è il camino che illumina la stanza.”

I due scesero al piano di sotto ma Dastan notò che la compagna si diresse in cucina. Lui, comunque, si fermò in salotto e gettò un pezzo di legno nel fuoco. L’amica lo raggiunse poco dopo.

“Tieni.” Disse lei, porgendoli un panno gelido “Ghiaccio. Così si sgonfia quello zigomo.”

Lui le sorrise e prese il rettangolo ghiacciato. Un rumore al piano di sopra fece voltare entrambi.

“Ah! Il mio cellulare! Sarà mia madre!” disse Alchemy, correndo verso la sua stanza.

Il giovane rimase seduto davanti al camino, sentendosi la guancia diventare sempre più fredda per via del ghiaccio. Faceva male ma almeno si era preso quel pugno per una buona ragione, per proteggere una cosa anzi, una persona a cui teneva. Sarebbe riuscito a dirle tutto? Era stato con diverse ragazze quando andava al liceo ma con lei era diverso, Alchemy era speciale, era quella che riusciva a tenergli testa, lo completava, si sentiva sereno. Doveva farlo, doveva riuscirci, doveva dirle tutto ciò che teneva dentro. Perso in quei pensieri, non si accorse che l’amica si sedette di fianco a lui.

“Avevo ragione, era mamma.” Disse lei “Sono bloccati anche loro al buio e quindi, non sanno quando potranno tornare …”

Dastan non disse nulla, guardò la stanza illuminata fiocamente dal camino. Notò che i vecchi giornali che aveva letto poco prima erano sopra la poltrona, non si era accorto che erano stati spostati dal pavimento.

“Grazie, sai.” Sussurrò la ragazza.

“Per cosa?” chiese l’amico.

“Per avermi tirata fuori da quel posto … credevo di dover rimanere chiusa per sempre …”

“Non avrei mai potuto lasciarti là dentro, lo sai. Ti avrei fatta uscire anche se ciò comportava rompere la porta a morsi.”

Alchemy sorrise dolcemente mentre fissava il fuoco davanti a lei, poi notò che Dastan posava da una parte il ghiaccio e le mise due vecchi giornali in grembo.

“Cosa sono?” chiese confusa.

“Leggi.”

La giovane lesse i titoli, le immagini in particolare la sconvolsero, una povera donna uccisa dall’uomo che amava. Una fine orribile.

“Sono … vecchi di vent’anni. E’ una notizia terribile ma … cosa significa?”

Dastan la fissò “Quelli erano i miei genitori.”

“C-Cosa?” disse lei “Avevi detto che erano morti ma … io non … io non immaginavo … in questo modo …”

“Tuo padre a quanto pare lo sapeva … voleva che me ne andassi … ha paura che io possa diventare così” rispose lui, indicando la foto.

“Come il suo solito…”

“Volevo dirtelo com’erano morti…tu…tu hai condiviso i tuoi segreti con me, anche quelli più dolorosi…volevo farti capire che so cosa si prova a vivere con questi buchi nell’anima…non sei la sola…”

La ragazza si fece più vicina “Cos’è successo?”

Il giovane trasse un respiro profondo “ Come ben sai, mio padre a dieci anni aveva già un fucile in mano, addestrato a combattere come tutti quelli della sua età, anche più giovani, anche perché erano i pochi disponibili rimasti in città…è stato quasi ucciso dai Russi quando questi hanno preso ad avanzare gli ultimi periodi della guerra, ma riuscì a scamparla. Ha visto e vissuto la violenza. Era stato cresciuto così. Mia madre l’ha conosciuta parecchi anni dopo, lei era giovane e lui adulto e maturo da un pezzo.” Rise amaro “Non so cos’abbia trovato in quel vecchio pazzo ma sono certo che si amassero. Quando nacqui io, ventisette anni fa, lui ne fu molto felice, voleva un maschio con tutta l’anima e il suo desiderio si avverò. Aveva paura di perdere mia madre, lei aveva solo ventinove anni ed era di salute cagionevole. Ma andò tutto bene.” Fece una pausa”So di avere i suoi stessi occhi e la sua stessa corporatura, ora che sono cresciuto, vedo che gli assomiglio. Mi fa schifo.” Disse secco.

“Ma hai alcune qualità di tua madre, il colore dei capelli è uno.”

“Almeno quello…” replicò lui, scostandosi un ciuffo nero di capelli dagli occhi “Io ricordo d’aver subito avuto la passione per la musica, per le chitarre soprattutto. Il mio primo natale, trovai un pacchetto sotto l’albero, un gioco a forma di chitarra che, se premevi determinati tasti, iniziava a suonare una serie di melodie. Mia madre mi disse che ci giocai per una settimana anche di notte” ricordò con un sorriso leggero “Volevo fare il musicista. Volevo suonare, cantare, vedere che mia madre mi incoraggiava e mi ascoltava sempre, mi dava la carica. Ma a mio padre non piaceva questa mia passione. Mi portava a caccia, mi insegnava a difendermi e a combattere. Voleva che prendessi dimestichezza con le armi. Cristo, come fai a dire ad un bambino di sei anni che deve sparare un colpo in testa ad un cerbiatto?!” imprecò “Non volevo fare quelle cose…non volevo uccidere solo perché per lui era divertente…no, io…io non la pensavo così. Quando piangevo perché non volevo sparare, mi metteva paura, si arrabbiava, diceva che non era degno di essere suo figlio, diceva che ero debole e codardo…”

“Ma eri solo un bambino!”

“A lui non importava. Mi ripeteva sempre che alla mia età, lui era già con la divisa! Che lui alla mia età sapeva già sparare ed uccidere!” ringhiò il ragazzo, cambiando tono di voce, probabilmente per imitare suo padre “Mia madre mi diceva di sopportare, lui era fatto così, lui era cresciuto in altri tempi e dovevo avere pazienza…ma era difficile…io non capivo perché dovevo fare tutto ciò che diceva lui, altri tempi o no. L’inizio della scuola fu la rovina.” Si fermò.

“Non volevi andarci?” chiese l’amica.

“Oh no, a me piaceva, mi divertivo, giocavo. Ma mio padre cominciò a dire che una volta finita scuola e liceo avrei fatto l’accademia militare. Iniziò ad informarsi con 12 anni di anticipo. Iniziò a sentire quanto costava e durava il corso di boy-scout, in modo che io avessi già una preparazione tra i boschi, alla vita selvaggia. Voleva che andassi tutte le domeniche a caccia con lui e i suoi amici. Per mia madre erano attività che potevo provare ma io non ne volevo sapere. Una sera mi decisi a chiarire le cose con mio padre. Forse era meglio se stavo zitto…” sospirò e gardò fuori dalla finestra, come se stesse cercando qualcosa o qualcuno in mezzo a quella bufera, poi tornò a fissare il fuoco e la cenere prodotta dal legno bruciato “Era rientrato a casa nervoso quella sera, l’azienda dove lavorava era in crisi e nessuno piacevano i suoi metodi estremi di salvataggio, non credo l’avessero licenziato ma qualcosa era successo. Non ascoltai la conversazione che ebbe con mia madre, mi stavo preparando mentalmente a cosa dirgli, volevo fare il corso di chitarra, non la caccia o i boy scout. Finita la cena gli parlai. Non potevo immaginare che si sarebbe arrabbiato così tanto. O forse intuivo la sua reazione di collera ma non credevo che le cose potessero degenerare…stava-stava tagliando delle fette di pancetta con il coltello dalla lama più grossa. Mi guardò furioso, due occhi iniettati di sangue, credo che se ne fosse stato capace, mi avrebbe incenerito. Iniziò a sbraitarmi contro, ad urlare, insultarmi. Poi perse la testa. Avanzò verso di me puntandomi addosso il coltello. M-Mia madre cercò di fermarlo, si mise in mezzo tra me e lui…e mio padre…mio padre la colpì. Le prese la gola. Mi ricordo il sangue che iniziò a sgorgarle. Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e poi il suo sguardo divenne vuoto. Io ero pietrificato in piedi vicino la porta della cucina. La vidi morire così, sul pavimento, in una pozza di sangue.” Dastan si bloccò e si passò una mano tra i capelli.

“Oh Dio…” disse Alchemy e gli prese le mani tra le sue “Mi dispiace..io…io non riesco neanche ad immaginare cosa tu abbia provato…”

Lui le strinse le mani “Mio padre si rese conto qualche istante dopo di cosa aveva fatto. Provò a svegliarla, a farla alzare ma lei morì praticamente subito, non c’era più niente che potesse fare. Era andata. Nessuno avrebbe potuto salvarla, neanche se avessimo chiamato l’ambulanza. Disse che era tutta colpa mia, che ero un egoista, una disgrazia, che non ero più suo figlio. Rimase inginocchiato al fianco di mia madre per una mezz’ora o anche più per poi prenderla tra le braccia ed andarsene. Camminò fino al capanno per gli attrezzi, lo vidi posare mia madre a terra. Aveva lasciato la porta della baracca aperta. Prese un forcone, quello più grosso, lo fissò a terra, in modo che non si muovesse e ci si lanciò sopra, infilzandosi il cranio. Sentì un urlo disumano che non dimenticherò mai. E poi ci fu silenzio.”

La ragazza chiuse gli occhi per un istante. Lei non sarebbe stata in grado di sopportare tutto quel dolore.

“Sono rimasto sdraiato nel pavimento della cucina fino all’alba e poi scappai via. Lontano. Non volevo più saperne di quel posto. Da parenti o amici era escluso andare. Sono passato da una famiglia affidataria all’altra ma non piacevo a nessuno. Ero chiuso, silenzioso, inquietante dicevano. La musica era l’unica cosa che mi faceva sorridere…mi ricordava mia madre…”

“Perché non hai deciso di intraprendere la carriera di musicista, allora?” chiese l’amica.

“Dopo aver sentito per anni notizie di tragedie familiari come o simili alla mia, volevo capire cosa spingeva certe persone a compiere determinati atti, volevo trovare la ragione per cui mio padre aveva ammazzato la donna che amava…ecco cosa mi ha fatto cambiare idea…la musica è la mia valvola di sfogo…” le spiegò lui “Poi ti ho incontrata.”

“Sei piombato su di me mentre facevo jogging nel parco!” Rise Alchemy “Cosa mi avevi detto per giustificarti? Ah si! Ti stavi allenando per il salto in lungo! Non me la sono mai bevuta! All’epoca eri sempre circondato da belle ragazze, eri proprio un donnaiolo.”

“Sì lo so…ero uno stupido, comportandomi così alla gente piacevo, facevo ridere e molti ci tenevano a stare in mia compagnia…io sono così di mio, mi piace ridere e scherzare però facendo lo stupido la gente mi accettava. Certo, dovevo ancora aprire gli occhi all’epoca.”

“Aprire gli occhi?”

“Oh, lo sai di cosa parlo, Mein Liebe.” Dastan la guardò dritta negli occhi “Lo sai che sono innamorato di te.”

Il cuore di Alchemy prese a battere più forte, nessuno le aveva mai detto quelle parole, nessuno si era mai aperto in quel modo con lei, nessuno le aveva mostrato tanta fiducia. Aveva sofferto nei confronti di quel ragazzo, soffriva vedendolo in giro con altre, sapeva che quel suo amico era l’oggetto del desiderio di molte altre ragazze, attraente, bello, misterioso, ma non dava mai a vedere questa sua gelosia, no, non l’avrebbe mai fatto sapere a nessuno. Ma mentre il tempo passava in sua compagnia, lei si era accorta che quella gelosia e quel soffrire non erano altro che gli effetti di un sentimento più profondo: l’amore. Non aveva mai voluto dar retta a quei sentimenti, era troppo orgogliosa, ma ora era impossibile zittirli, era impossibile non ascoltarli. Così, d’impulso, si sporse in avanti e baciò il compagno. Fu un bacio veloce ma che esprimeva tutto quello che non sarebbe riuscita a dire a parole. Il ragazzo sembrava voler dire qualcosa ma lei lo zittì con un dito.

“Lo sai come sono fatta. Lo sai che non sono una ragazza facile, una che esprime apertamente i suoi sentimenti. Io, ecco…”

Dastan sorrise “Ho capito mein Liebe. Forse avrei dovuto parlare prima ma avevo paura…dopo tutto quello che combinavo, temevo che mi avresti respinto.”

“Forse l’avrei fatto, forse no…chi lo sa.”

“Ti avrei comunque conquistata col mio fascino!”

“Certo, certo, come no.”

Il giovane la prese tra le braccia e la rovesciò dolcemente sul pavimento, Alchemy non oppose resistenza e iniziò a ridere. Dastan la baciò, un bacio che lei ricambiò portando le braccia attorno al collo del ragazzo. Era da tanto che entrambi aspettavano questo momento, si erano cercati per tanto tempo ma per vari motivi, non avevano mai potuto stare veramente assieme. Un brivido di piacere attraversò la schiena della giovane quando lui prese a baciarla sul collo e si strinse più vicina al compagno. Ma in quel momento, un pensiero le balenò in mente, bloccandola.

“Dastan, Dastan, aspetta un attimo!”

“Che? Cosa c’è?” chiese lui.

“Che facciamo se tornano i miei?”

Dopotutto, quella era la casa dei suoi genitori, suo padre se si metteva in testa qualcosa, avrebbe fatto di tutto pur di tornare a casa, anche al buio, anche attraverso una bufera di neve e trovarsi in una situazione al quanto ambigua davanti a sua madre e più di tutti, suo padre era da evitare. Dastan però non sembrava affatto turbato da quel pensiero.

“Ma no, Mein Liebe” disse “Con un tempo del genere torneranno come minimo in mattinata”

Lei però non sembrava ancora convinta, diede uno sguardo veloce fuori dalla finestra: effettivamente nevicava ancora e sia la casa sia la strada erano ancora buie. Il cellulare era silenzioso, nessuna chiamata o messaggio in arrivo. Forse si stava preoccupando troppo, più che altro per suo padre, già aveva tirato un gancio allo zigomo di Dastan, figuriamoci cos’altro avrebbe potuto fare!

“Ma si!” pensò la giovane “Al diavolo mio padre!”

Alchemy si lasciò andare.

Fecero l’amore dolcemente illuminati dal lieve chiarore del caminetto, avvolti da una coperta. Tutti i dubbi, tutti le paure che potevano ancora infestare il cuore della ragazza, in quel momento svanirono, si sentiva viva, si sentiva felice. Erano una cosa sola. E sempre avrebbe voluto sentirsi così. Si addormentò tra le braccia del compagno, la mano nella sua, stretta, come se non volesse lasciarlo più.

Dastan si svegliò con una spalla un po’ dolorante, prezzo da pagare per aver dormito nel pavimento con una persona appoggiata sopra, ma non ci fece caso. Prese il cellulare della compagna per controllare l’ora: le due e quarantatre. Nel display comparivano un messaggio e una chiamata persa, da parte della madre ovviamente, entrambi avevano sentito l’oggetto squillare ma nessuno aveva risposto, troppo presi l’uno dall’altra. Diede una rapida letta al messaggio, la donna avvertiva la figlia che, per via del maltempo, sarebbero tornati a casa solo il mattino dopo e che la fiorista si era offerta di ospitarli per la notte. Come immaginava. Girò la testa verso la finestra, la bufera era cessata e si vedeva solo qualche leggero fiocco scende dalle nuvole ma la strada era ancora buia, come la casa, e piena di neve. Sicuramente gli addetti stradale avrebbero iniziato solo in mattinata la pulitura delle strade, chi si sarebbe mai messo al lavoro alle tre del mattino? Un brivido gli percorse la schiena, un brivido di freddo. Si accorse che il fuoco si stava per spegnere così il ragazzo si affrettò a gettare due piccoli ceppi di legno che vennero lentamente avvolti dalle fiamme. Dopo aver indossato i boxer, si inginocchiò vicino ad Alchemy, la osservò per un momento, la coperta che prima avvolgeva entrambi lasciava scoperto il suo ventre, il piercing argentato all’ombelico luccicava sempre di più davanti al fuoco che si riprendeva nel camino, assumendo sfumature gialle e arancioni. Notò che anche la croce argentata che lui portava al collo brillava ma con meno intensità. Dastan le accarezzò lievemente i capelli e la giovane aprì piano gli occhi, traendo un respiro profondo.

“Hey Mein Liebe, che ne dici se ti porto a letto, hm?” le sussurrò.

Lei mugugnò qualcosa di incomprensibile, chiaramente era ancora dormiente, ma si svegliò di colpo quando si sentì sollevare in aria da due braccia, quelle del compagno, ovviamente, che, ancora avvolta nella coperta, se l’era presa in braccio.

“Ma che-?!” borbottò confusa.

“Ti ho detto che ti avrei portata a letto” le rispose lui “Non penso sia il caso di farsi trovare nuda nel salotto dai propri genitori!” ridacchiò.

“Oddio!” Alchemy sussultò “I miei! Cavolo! Che ore sono?!”

“Sono quasi le tre di notte. Tua madre aveva chiamato e lasciato un messaggio dicendo che, a questo punto, torneranno di mattina, se le strade saranno agibili.”

La ragazza si rilassò sentendo quelle parole; non era il genere di ragazza che si preoccupava dei suoi genitori però, in questo caso, si trovava a casa dei suoi e, certo, farsi trovare in una situazione imbarazzante era da evitare. Pensato a questo, si lasciò portare fino alla sua stanza.

Dastan l’adagiò nel letto, fu un sollievo poter sentire il morbido materasso sotto di lei invece che il duro pavimento del salotto.  La giovane, in uno stato semi comatoso da sonnolenza, agguantò un paio di slip dal comodino, dove, ore prima, aveva posato un po’ di biancheria per quando si era fatta la doccia e se li infilò. Notò che anche il compagno, sedutosi nel letto dalla parte opposta alla sua, era intento ad indossare i suoi boxer. Alchemy si sdraiò sotto le lenzuola, sospirando quando il suo viso sprofondò nel cuscino.

“Tuo padre come minimo mi spaccherò la faccia ma in questo momento me ne frego altamente.” Disse Dastan, anche lui sotto le coperte con lei.

Il giovane la cinse con le braccia sotto le coperte, la ragazza non si mosse ma sorrise.

“Non glielo lascerò fare, fidati.” Gli sussurrò lei, con uno sbadiglio.

“Che ne dici se ci facciamo una dormita, Mein Liebe? Ti vedo parecchio stanca.”

Alchemy fece cenno di si con la testa e si addormentò da li a poco. La giornata non era stata affatto tranquilla come i due avevano progettato, anzi, era stata piena di sorprese, belle e brutte, ma almeno, per la felicità della madre di lei, i due giovani erano riusciti a chiarirsi, erano riusciti a rafforzare il loro legame, erano riusciti a sottolineare quella parola speciale che li teneva legati fin dall’inizio, l’amore.

Dastan non prese sonno subito, rimase un po’ a guardarla, così serena e rilassata. Se la strinse più forte, ora che l’aveva trovata non l’avrebbe lasciata andare per nessun motivo, dal primo momento, aveva sentito che quella ragazza che con tanta furia gli corse dietro per esserle piombato addosso, era speciale. Provò a ricordare il primo Natale passato insieme. Alchemy era stata invitata dai genitori per il pranzo natalizio e, vedendo che l’amico non sembrava essere entrato nello spirito del Natale, allargò l’invito anche a lui, ricevendo, però, un cortese rifiuto. Dastan le spiegò che non festeggiava il Natale perché riportava a galla momenti felici che non amava ricordare perché riaprivano ogni volta ferite aperte, quelle dei suoi genitori, morti. La giovane, nel vederlo così malinconico, lo invitò per Natale da lei, nel suo appartamentino, dicendo che aveva detto ai suoi che un impegno l’avrebbe trattenuta, per un anno, saltare la routine natalizia dai suoi genitori, non l’avrebbe di certo uccisa. Parlarono del più e del meno, raccontandosi le proprie storie o aneddoti personali, anche se Dastan omesse la verità sulla morte dei suoi genitori, mascherandola come uno sfortunato incidente stradale ma Alchemy fu del tutto sincera e gli raccontò di come, da bambina, l’avessero rapita per estorcere soldi a suo padre. Il ragazzo era alquanto incredulo, nessuno si era mai aperto così con lui, egli stesso non aveva il coraggio di raccontarle la verità riguardante il suo passato, forse perché non aveva ancora superato il trauma ma, come poi apprese, nemmeno l’amica considerava il rapimento come un fatto passato e sepolto eppure, era riuscita a raccontarglielo. Rimasero in silenzio, il giovane non sapeva davvero cosa dire. Alchemy allora frugò nella borsa e tirò fuori un piccolo pacchetto e glielo porse “Hey, è pur sempre Natale, no?” gli sorrise. Il pacchettino conteneva un paio di occhiali da sole, ultima moda, quelli che vedevi nelle facce dei modelli sulle copertine delle riviste più famose. Si ricordò di averle detto che i suoi occhiali da sole si erano rotti e che ne avrebbe dovuto comprare un altro paio. Per fortuna ci aveva pensato lei. La ringraziò svariate volte e lei si limitò a fargli l’occhiolino. Dopo quella sera capì di essersi innamorato. Proprio a natale, tre anni dopo, era riuscito a dirglielo.

Si girò nel letto con Alchemy tra le braccia, cullato dal respiro della compagna.

  
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