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Autore: taemotional    13/04/2012    2 recensioni
[JinDa]
"...mi incamminai verso il fondo dell’autobus e trovai posto accanto a un gruppo di asiatici che parlava animatamente in americano. Evitai i loro sguardi.
Era una cosa strana per me, che non parlavo una parola di inglese, trovarmi ad ascoltare quei ragazzi che avevano i miei stessi occhi ma che erano così diversi da me.
Stavo per tirare fuori l’i-pod quando il tono di uno di loro mi fece voltare. Mi guardavano e mi chiedevano qualcosa."
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Jin, Tatsuya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prefazione(1 Aprile 2012): Bene, bene. Eccomi di nuovo in pista! Ho chiuso con il “Jin” reale e quindi se userò questo personaggio sarà solo per le AU! (*disse quella che poi scrisse l’ennesima Akame angst* lol speriamo di no xD) Questa volta credo di avere avuto delle influenze sia da persone reali che da personaggi fittizi (vedi “takumi-kun” xD Grazie Sara per avermi fatto vedere il 5! <3) e l’ispirazione mi è venuta ieri mentre tornavo dall'appartamento di Raky con l’autobus... Riferimenti nella ficci non proprio random xD Un’ultima cosa, grazie Ansy ^^ E buona lettura!!

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<< Non avrei mai pensato che il mio mondo potesse essere più perfetto di così.
Dolore, solitudine, sfinimento...
Senza permettere a nessuno di entrare nel mio spazio piatto.

Preferisco essere solo, troppo pigro per poter pensare a qualcun altro. >>
 
Los Angeles - 1 Aprile
 
Quando quel giorno di pioggia salii sull’autobus n.13, mi voltai un attimo indietro ed alzai gli occhi al cielo plumbeo. Sospirai.
Poi, una volta che le porte si furono richiuse, mi incamminai verso il fondo dell’autobus e trovai posto accanto a un gruppo di asiatici che parlava animatamente in americano. Evitai i loro sguardi.
Era una cosa strana per me, che non parlavo una parola di inglese, trovarmi ad ascoltare quei ragazzi che avevano i miei stessi occhi ma che erano così diversi da me.
Stavo per tirare fuori l’i-pod quando il tono di uno di loro mi fece voltare. Mi guardavano e mi chiedevano qualcosa.
Hey, carino, come butta?
Non ti abbiamo mai visto da queste parti, da dove vieni?
Io aggrottai le sopracciglia e cercai di dire nella loro lingua che non li capivo. Uno di loro, con i capelli biondi sparati e un tatuaggio colorato sul braccio destro, sia alzò e mi si parò davanti scrutandomi. Forse era il capo banda. In quel momento rimpiansi di non aver avuto le cuffie nelle orecchie sin dall’inizio.
Giapponese?
Questo potevo capirlo. Annuii con espressione annoiata. Non ero certo venuto in America per fare amicizia.
Ah!” esclamò il capo banda rivolgendosi a un ragazzo seduto nell’ultimo posto vicino al finestrino. “Red, vieni a fare da interprete!
Quel ragazzo si alzò dal fondo con un’aria se possibile ancora più annoiata della mia e si avvicinò. Mentre percorreva il corridoio lo scrutai attentamente. Non era vestito in maniera troppo appariscente - a differenza agli altri - ma i suoi capelli attiravano l’attenzione. Piuttosto lunghi rispetto alla media dei ragazzi americani, gli davano un’aria da tipico modello orientale. La corporatura, invece, decisamente occidentale, lo rendeva in qualche modo diverso dagli orientali. Aggrottai le sopracciglia. Nella sua figura vedevo un ibrido che non mi sembrava né l’uno né l’altro.
Cosa devo fare?” chiese al capo.
Questo qui è giapponese ma sembra che non parli inglese.
Quindi?
Non ti sa carino? Dai, chiedigli dove abita.
Non sono gay come te, non mi interessa.
Red, non fare l’idiota. E poi non avevi detto che volevi tornare in Giappone? Magari lui ti può aiutare.
Non mi serve mica aiuto.
Ma hai bisogno di un posto dove dormire. Non che i soldi ti manchino, anzi... ma hai bisogno di un supporto umano, no?
Io osservavo prima l’uno, poi l’altro, senza capire nulla, e sperai che la mia fermata arrivasse il prima possibile. Poi quel ragazzo ibrido mi guardò.
“Dove abiti?” mi domandò in giapponese e io rimasi un attimo sorpreso. Non solo nell’aspetto, era un ibrido anche nella lingua.
“In America?” chiesi.
“Sì.”
“Alloggio in un albergo in questo momento... ma perché ti dovrebbe interessare?”
“Interessa a Koki, non a me.”
Guardai il capo. Koki?
“Perché?” chiesi.
“Mah, gli piaci, dice.”
“Oh.”
“E’ un problema?”
Feci spallucce. “E’ un problema suo, semmai.”
Quel ragazzo si mise a ridere. Koki, il capo, lo guardò di traverso.
Che dice?
Che non gli interessi.
A quelle parole il capo mi guardò fulminandomi con sguardo.
Hey, tu, come ti permetti...” mi disse avvicinandosi come se mi stesse minacciando. Io ero sempre più confuso e mi ritirai contro il finestrino. Non che avessi problemi a difendermi contro quel punk, solo che non avevo voglia di litigare con una persona che nemmeno capivo. In quel momento, il ragazzo ibrido lo afferrò per un braccio e gli disse qualcosa.
Smettila, Koki, lascialo in pace.
Il capo sbuffò e, dopo avermi lanciato un’ultima occhiataccia, tornò al proprio posto. Io ignorai entrambi e mi alzai. La mia fermata era quasi arrivata e ne avevo abbastanza di quei tipi. Era stata decisamente una giornata no e volevo almeno cercare di salvare la serata.
Mi infilai finalmente le auricolari ed iniziai a spararmi la musica nelle orecchie. Di colpo gli schiamazzi cessarono e potei rinchiudermi nel mio mondo. Il mio non era vasto, era un mondo circoscritto, in cui non c’era spazio per altre persone.
Scesi dall’autobus respirando l’odore della pioggia e mi incamminai verso l’albergo. Quella mattina, quando ero uscito, non avevo pensato che mi sarebbe servito l’ombrello. Quella pioggia fine era stata piuttosto inaspettata. Ma che vuoi farci, sebbene odi gli imprevisti, è così che in quel momento andava la mia vita.
Per esempio, non mi aspettavo che quell’ibrido scendesse alla mia stessa fermata e mi offrisse il proprio ombrello. Mi fermai e lo guardai scettico.
“Cosa?” mi chiese. Abbassai il volume della musica.
“Ci conosciamo?” ribattei io rifiutando quel gesto e proseguii sotto la pioggia.
“Che domande! Ero quello che ha fatto d’interprete sull’autobus!”
“Ah, ecco dove ti avevo già visto.”
“Ahah, divertente,” commentò ironico ma io lo ignorai. Continuammo a camminare uno di fianco all’altro per un altro tratto lungo il marciapiede. Lui aveva chiuso l’ombrello e aveva deciso di volersi bagnare. Fa un po’ come ti pare.
Era notte fonda eppure in giro c’era parecchia gente. Anche lungo la strada le automobili sfrecciavano come fosse pieno giorno. Io, che venivo da un paesino sperduto di campagna, non ero affatto abituato alla vita di città che mi dava un senso di oppressione. Non vedevo l’ora di tornare a casa. Ancora qualche giorno, mi ripetevo in testa mentre evitavo di andare a sbattere contro quel movimento caotico di città.
Poi, di colpo, mi bloccai e sfilai un auricolare.
“La smetti di seguirmi?” dissi quasi gridando a quel ragazzo che non sembrava intenzionato a lasciarmi in pace.
“Che c’è? Andiamo nella stessa direzione.”
“Ma davvero?”
“Sì. Per caso hai paura delle persone?” chiese ridacchiando ma io mi congelai. Senza rendersene conto ci aveva preso in pieno. Distolsi lo sguardo e fissai il semaforo pedonale con insistenza. Diventa verde, maledetto.
“Hey, tutto bene?” mi domandò quel ragazzo sfiorandomi una spalla, “Sei impallidito di colp...”
“Non mi toccare,” scattai io sottraendomi al suo tocco, poi, non appena il semaforo diventò verde corsi a perdifiato verso l’altra parte della strada. Non mi toccate.
 
Mi richiusi nella mia camera d’albergo. Camera 313.
Gettai la giacca bagnata sul letto e mi fiondai in bagno. Per prima cosa, mi lavai le mani, poi afferrai l’asciugamano bianco in dotazione e iniziai a passarlo sui capelli mentre osservavo il mio riflesso sullo specchio.
Sto per raggiungere i trent’anni e ancora continuo ad avere le paure di quando ero ancora un adolescente. Feci una smorfia, ho davvero quasi trent’anni? Iniziai a passare le dita sulla pelle del viso. Niente, di rughe nemmeno l’ombra. Per quanto riguardava i capelli invece, dato che mi facevo la tinta tutti i mesi non potevo sapere se i primi capelli bianchi fossero già spuntati.
A quel pensiero mi misi a ridacchiare. Eddai, a trent’anni si è ancora giovani. Forse... forse ho ancora tempo per crescere.
Lo psicologo dice che ho la sindrome di Peter Pan. Tzé. L’ennesima fobia. Non mi bastava essere un maniaco della pulizia ed avere terrore del contatto umano, ora ci si metteva pure la paura di crescere.
Comunque quello psicologo stempiato era un incompetente, giusto, devo dirlo all’allenatore. Se proprio devo andare a farmi psicanalizzare il cervello, che almeno lo faccia qualcuno che ci capisca qualcosa.
Ripiegai con cura l’asciugamano e tornai in camera.
Non capivo perché l’allenatore aveva prenotato quel posto per così tanto tempo. Dopotutto l’incontro si è svolto ieri e io che cosa dovrei fare fino a sabato in questa camera?
Non è che è in combutta con quello psicologo? Vogliono farmi uscire dal mio piccolo mondo, di sicuro. E quale posto migliore di LA? Ecco, ora mi vengono pure le paranoie. Forse dovrei davvero farmi ricoverare in una clinica per matti.
Mi gettai sul letto e buttai fuori l’aria con forza.
Impossibile, più probabile che si aspettava una specie di conferenza stampa per la mia vittoria schiacciante. Cosa che, invece, non è successa. Ma ormai la camera era prenotata e quindi meglio non sprecare soldi, facciamolo restare in quel buco in una città sconosciuta in cui le relazioni umane sono impossibili a causa delle barriere culturali. Ed è proprio così, che ci fosse stata una sola persona con cui avessi iniziato una qualche specie di comunicazione accettabile.
Spensi le luci della camera e mi infilai sotto le coperte senza togliere i vestiti. Solo il ticchettio dell’orologio al polso mi ricordava che c’era qualcosa al di fuori il mio mondo. Qualcosa come il tempo. No, non avevo bisogno nemmeno di quello. A cosa serviva?
Ah, beh in effetti c’è quel tipo ibrido di oggi. Ma che problemi aveva quello? Giuro che l’ho visto seguirmi fino all’entrata dell’hotel. Un pervertito, di sicuro. Altro che quel punk tatuato, pure lui era un po’ checca. Con quei capelli lunghi poi. Ma dove si credeva di essere? Ad una sfilata di moda? Ecco, il suo habitat naturale era la passerella, con i capelli al vento e quel corpo perfetto che indossa abiti confezionati su misura. Scuri. Sì, ce lo vedrei con un completo scuro. Gilet e camicia. Gessato? No, è troppo elegante. Quel tipo stava bene con qualcosa di elegante, ma non troppo. Quindi niente cravatta, e la camicia un po’ sbottonata sul davanti. Perfetto.
A proposito, chissà se era nato in Giappone o se i suoi genitori gli avessero insegnato la loro lingua natale. Ora che ci penso non ho notato un particolare accento. Forse un po’ quello di Tōkyo? Probabilmente glielo ha insegnato la madre. Mentre il padre ha un qualche lavoro di prestigio in America. Di sicuro, non vedevo altri motivi per cui anche Koki, il capo della combriccola, avesse dovuto dargli retta quando si è frapposto tra lui e me. Di sicuro non perché gli stava simpatico. Il padre doveva essere un pezzo grosso. E quell’ibrido ce lo vedo bene a fare il mantenuto.
Certo che certa gente ha davvero tutte le fortune. Bellezza, soldi, potere. E allora, che cavolo, perché aveva quell’espressione annoiata sul viso? Mah, immagino che col tempo anche i soldi stufino. E allora si prova ad entrare in una gang per movimentare un po’ la propria vita. Ma non mi sembra che la cosa abbia avuto successo con quello là. Magari la prossima volta che lo incontro gli dico che, se è annoiato, può andare a buttarsi da una scogliera. Di sicuro, in quel contesto, l’adrenalina non mancherebbe.
Stavo per addormentarmi quando il telefono della camera squillò di colpo facendomi trasalire. Rimasi immobile finché gli squilli non cessarono. Poi, quando tornò il silenzio mi azzardai a voltare la testa verso quel marchingegno.
Il cuore non la smetteva di battermi velocemente in corpo e mi maledissi per essermi fatto cogliere di sorpresa in quel modo. Mah, mi voltai dall’altra parte, chi mai dovrebbe cercarmi in quell’hotel. E poi, di sicuro era qualcuno che mi avrebbe risposto in inglese e io non avevo intenzione di farmi venire ulteriori ansie.
Finalmente il battito cardiaco tornò normale e io potei addormentarmi tranquillamente.
 
Los Angeles - 2 Aprile
 
Quando mi svegliai, dalla finestra entrava una debole lama di luce.
Ecco, anche oggi è brutto tempo. Mi alzai a fatica e, stirandomi, mi diressi in bagno. Di nuovo osservai la pelle del viso allo specchio. Sempre identica. Guardai un po’ meglio.
“Cacchio...” mormorai notando delle occhiaie che non avevo mai avuto. La vita fuori di casa per così tanto tempo mi ucciderà.
Ecco, un’altra cosa di cui mi accusava lo psicologo. Diceva che ero una specie di hikikomori in via di formazione. Ma scherziamo? Quelle persone fanno pena alla società, io invece non facevo pena a nessuno. Né volevo far pena, ovviamente.  
Tornai in camera e presi dei vestiti puliti dalla valigia ancora quasi intatta. Mi conviene fare una doccia prima di scendere per la colazione.
 
Quando entrai nel salone della colazione al primo piano, sebbene fosse presto, c’era già parecchia gente. Mi trovai un tavolino in un angolo e lasciai la felpa come segnaposto.
Non ero abituato a quel tipo di colazione così non mangiai molto, mi feci solo un panino tostato con della marmellata. Di solito non la mangiavo a casa, ma mi piaceva molto quel sapore stucchevole e gelatinoso, così decisi di fare il bis. Da bere, solo del caffè non zuccherato. In fondo, avevo pure una dieta da seguire.
 
Tornai in camera piuttosto soddisfatto e mi lavai i denti accuratamente. Poi li osservai allo specchio. Sì, erano piuttosto bianchi. Bel lavoro. Quindi afferrai il cellulare e scesi al piano terra. Il tempo non era dei migliori ma una passeggiata senza meta mi avrebbe fatto bene. Lasciai le chiavi alla reception e la ragazza bionda che lavorava dietro il bancone mi sorrise con un po’ troppa enfasi. Mi sbrigai ad uscire.
“Ah...” guardai verso il cielo. E’ piuttosto grigio, ma non credo si metterà a piovere anche oggi. Mossi qualche passo lungo il marciapiede e mi bloccai di nuovo. Certo, ecco cos’era che non andava, avevo dimenticato l’i-pod.
Rientrai in albergo in fretta e, prima di poterli vedere, sentii gli addetti alla reception parlare con voce troppo alta per i miei gusti. Non so cosa mi spinse a proseguire nella hall e a ripresentarmi di nuovo davanti al bancone.
Ero talmente concentrato a cercare di formulare una frase in inglese del tipo: Potrei avere le chiavi della mia stanza?, che non mi resi conto del fatto che gli addetti alla reception si erano azzittiti di colpo e mi fissavano.
Quando finalmente credevo di essermi ricordato il termine inglese per chiavi alzai lo sguardo e quasi non mi venne un colpo.
“Tu,” dissi in giapponese all’addetto alla reception.
Il ragazzo ibrido era proprio là davanti, con la divisa scura impeccabile e i capelli legati in un codino non troppo stretto sulla nuca. No, aveva la cravatta...
“Non va bene!” esclamai.
“Cosa scusa?” mi chiese non troppo sorpreso di trovarmi lì. Ah, giusto, dopotutto mi aveva seguito quindi lo sapeva che alloggiavo lì. Però anche lui lavorava in quell’hotel a quanto sembrava, quindi non è che mi avesse proprio seguito... ma non è questo il punto, il punto è che non doveva avere la cravatta, e la camicia bianca sotto la giacca doveva essere sbottonata. E poi i capelli legati proprio no.
Stavo per dar forma a quei pensieri quando una vocina nella testa mi disse che non era il caso.
“Non va bene... che tu sia qui,” conclusi.
“E perché mai?”
“Non lo so, non fa per te questo posto.”
“Quest’albergo di lusso non fa nemmeno per te,” reclamò lui, mentre la ragazza bionda ci guardava perplessa. Beh, dopotutto il fatto di non essere capito aveva i suoi lati vantaggiosi. Fui quasi felice che solo lui aveva il privilegio di capirmi.
Sorrisi in una maniera totalmente irrelata al discorso che il ragazzo ibrido aggrottò la fronte. Allora mi riscossi. Cos’era stato quell’improvviso attacco di socializzazione? Tatsuya, torna in te.
“Vorrei la chiave della mia camera,” dissi secco, “313.”
L’ibrido si voltò per cercare la mia chiave magnetica appesa alla parete. Poi, mentre tornava a guardarmi mi cadde l’occhio sulla targhetta al petto col suo nome.
“Dimenticato l’ombrello?”
“No,” risposi distogliendo lo sguardo. Ma avrei preso pure quello, se solo avessi avuto un ombrello in valigia. Nessuno mi aveva avvisato che avrebbe piovuto in quella settimana, né che sarebbe stato così freddo. E non avevo con me nemmeno soldi liquidi per rifarmi il guardaroba.
“Ma tu parli per monosillabi?” mi chiese ancora porgendomi la chiave.
“Non dovresti usare un tono cortese con i clienti?”
“Ha ragione, mi scusi, Ueda-san.”
Lo guardai di traverso. Non volli sapere quali documenti aveva sbirciato per trovare il mio nome. Non mi interessava. Mi voltai e mi diressi velocemente verso gli ascensori. Era proprio un maniaco, non c’erano dubbi.
Una volta entrato nella cabina pigiai il pulsante per il terzo piano.
Non so perché ma, in quel momento, gli occhi decisero di loro iniziativa di seguire una traiettoria invisibile che mi portò a guardare verso il bancone della reception.
Jin Akanishi, il ragazzo ibrido dell’autobus n.13, stava guardando interessato un foglio che aveva tra le mani. Poi, seguendo forse la mia stessa traiettoria, alzò il viso e mi fissò. Un secondo prima che le porte si chiusero. Non aveva una particolare espressione in viso, ma, improvvisamente, sentii qualcosa dentro di me spezzarsi.
 
Quegli occhi avevano un potere speciale. Che nessun altro aveva mai posseduto prima.
E ne ebbi una paura tremenda.
 
Tornai in camera e mi afflosciai con la schiena contro la porta. Gli occhi chiusi, cercai di regolare il respiro.
Cosa diavolo era successo? Da quando ho paura persino dello sguardo della gente?
Trascorsero dieci minuti e io ero ancora immobile in quella posizione assurda. Ad un certo punto non mi sentii più le gambe e decisi che era ora di alzarsi. Con calma, raggiunsi il letto e mi distesi.
Okay, ragioniamo in maniera razionale.
Che cosa del suo comportamento aveva causato quella reazione nella mia mente? Dopotutto mi aveva solo guardato e io avevo parlato con lui fino a poco tempo prima senza problemi. Non aveva senso.
Non mi capisco, possibile che mi capitino tutte le fobie di questo mondo? Quella sensazione di vuoto, di vertigine, come quando si cade da un grattacielo, cos’era stata? Lo so, se tornassi da quel vecchio schizzato, lui darebbe un nome anche a questo ennesimo problema. Un nome per una malattia strana, che non aveva mai visto nella sua carriera ma della quale aveva letto in qualche volume impolverato.
Mi misi a ridere. Ma nemmeno morto ci torno. Oltretutto quello era un uomo che nemmeno mi credeva. Se io ti dico che in vita mia non ho mai avuto una ragazza, sarà vero, no? Oppure, se ti dico che la boxe non è ciò che voglio per il mio futuro, ci sarà una ragione.
Il motivo per cui mi sono avvicinato a questo sport è semplice: volevo affrontare faccia a faccia le persone, e, allo stesso tempo, sconfiggere questa mia paura del contatto immotivata.
Ma non ha funzionato. E ora ho capito che non è attraverso la violenza che posso comunicare, esiste un altro metodo, e sono intenzionato a seguire questa nuova strada.
Con un motivazione improvvisa spalancai gli occhi, e stavo per alzarmi ed uscire di nuovo dalla camera quando il telefono squillò per la seconda volta. Mi bloccai, questa volta non mi avrebbe preso di sorpresa. Allungai velocemente il braccio e afferrai la cornetta.
Restai in silenzio. Come si risponde al telefono in inglese? Passarono un paio di secondi e la voce dall’altra parte decise di fare il primo passo.
-Pronto?- mi disse in giapponese. Non risposi. -Sai chi sono?-
“Chi altro potrebbe parlare giapponese in questa terra se non l’ibrido dell’autobus?”
-Eh? Ibrido cosa?-
Mi misi a ridere, non so perché volli fingere di non conoscere il suo nome.
“Sai, non so come ti chiami, e a me piace dare nomignoli alla gente.”
-Ah, è tipo un passatempo?-
“Già, mi diverto con poco. E, non capendo se sei orientale o occidentale, ho pensato che il termine ibrido potesse andare bene.”
-Mnh... non mi piace. E’ un problema?-
“E’ un tuo problema, semmai.”
Si mise a ridere. -Questa l’ho già sentita. Comunque chiamami Jin.-
“Okay, Jin,” dissi io sentendomi un po’ strano. Tornai a distendermi sul letto. “Perché mi hai chiamato?”
-Ah, giusto. Non ti vedevo scendere più.-
“Quindi?”
-Quindi niente.-
“Sei un tipo strano.”
-Eeeh, aspetta un attimo! Qui lo strano sei te! Mi sembra di stare a parlare con un’altra persona in questo momento.-
Non capii.
-Perché al telefono sembri più eloquente.-
“Ah, forse.”
-Vorrà dire che ti chiamerò più spesso.-
“Non ci provare nemmeno! Tanto tra poco me ne vado di qui!”
-Torni in Giappone?-
“Già.”
-Questa mattina ha chiamato il tuo allenatore chiedendo come stavi.-
“Eh?”
-Gli ho detto che andava tutto bene, e che mi sarei occupato io di te. Quindi poteva stare tranquillo.-
“Ma che...? Ha chiamato alla reception?”
-No, ovviamente. Ha chiamato il direttore dell’albergo, e io ero nel suo ufficio in quel momento.-
“Ma non rispondere a caso ai telefoni altrui! Non ti hanno ancora licenziato per questo?”
-Purtroppo no.-
“Eh?”
-Sai, mio padre mi vuole come erede della catena di alberghi. Però potrei escogitare un modo per farmi licenziare. Dovrei compiere una qualche azione vergognosa al punto che non mi voglia più come suo erede. Mhn... sì, potrebbe andare. Mi aiuti nella missione?-
“Aspetta, aspetta un attimo. Tu sei il figlio del direttore dell’albergo?”
-Sì.-
Ah, come sospettato. Storsi un po’ la bocca. I tipi ricconi come lui avevano tutti la puzza sotto al naso e provavo ancora più ribrezzo verso di loro. Una volta era venuto un allenatore miliardario alla palestra. Disse che voleva comprarmi perché vedeva delle potenzialità in me. Avrebbe sborsato una bella cifra ma io mi ero opposto. Non sarei andato ad allenarmi nello sfarzo nemmeno se fosse stata l’unica palestra esistente sulla terra. Come aveva detto Jin, il lusso non fa per me.
“Perché non vuoi ereditare la compagnia? Avresti il futuro assicurato, e non mi sembra un lavoro troppo faticoso o difficile. Un po’ di pratica al fianco di tuo padre e ce la faresti senza problemi.”
Lo sentii ridacchiare.
-E’ proprio come dice mio padre. Ma sai, non è questa la strada che voglio seguire.-
“Eeeeh, hai un sogno?”
-Proprio così. Ti sa così strano?-
“No, non è questo...”
Restai un attimo in silenzio. Tatsuya, cosa c’è?  
-Ah! E’ appena entrato un cliente! Ti richiamo, ciao!-
“Ma che!? Non mi richiamar-” ma non mi stava ascoltando più, aveva già chiuso la cornetta.
 
Los Angeles - 3 Aprile
 
-Non fare i capricci, Ueda.-
Il mio allenatore aveva concluso la chiamata con questa frase. Io avevo abbassato il cellulare dall’orecchio lentamente, incredulo.
Come scusa? La famosa conferenza stampa che avevo ipotizzato si sarebbe tenuta il dodici? E io sarei dovuto restare in questa maledetta camera d’albergo come ghettizzato fino al tredici?
“Ma scherziamo...?” mormorai con una risata ironica. La giornata non poteva concludersi in modo peggiore.
Per prima cosa, questa mattina non avevo trovato la marmellata di pesche e io già mi ero svegliato con la luna storta di mio. Secondo, fuori pioveva come fosse il diluvio universale e non si poteva uscire. Terzo, quando oggi pomeriggio ero sceso per sgranchirmi un po’ le gambe, alla reception c’era la famosa ragazza bionda. Proprio oggi che volevo sfogarmi un po’ con l’ibrido... no, con Jin. E invece niente. Poi, il mio allenatore mi chiama tutto felice e mi prolunga questa agonia. Perfetto. Ma in questo albergo non viene nessuno? Tanto bene la camera era libera fino al tredici?
Stavo per prendere a pugni il cuscino del letto quando il telefono della camera squillò una terza volta. Presi la cornetta d’istinto.
“Cosa? Cosa vuoi?” chiesi acido. Dall’altra parte non mi rispose nessuno. Restai in silenzio anche io.
-Ueda?- rispose dopo un po’ una voce dall’altra parte, -Per caso l’allenatore ti ha detto che resti ancora un po’?-
“Lo sapevi già? Sapevi che sarei rimasto?”
-Immaginavo l’avresti presa male.-
“Eh?” sbuffai, “Come se tu mi conoscessi!”
-No, non ti conosco. Ma non mi sembri star bene in questa città.-
“Ma tu non hai da lavorare? Devi star qui a far telefonate a carico dell’albergo?”
-Scusami... okay, allora chiudo.-
“Eh?” iniziai ad agitarmi, “No, aspetta! Cos’hai? Mi sembri diverso oggi.”
-Dici? Mi conosci?-
“Mhn... no, nemmeno io ti conosco... ma mi ero fatto un’idea di te...”
-Pure io. Comunque, forse sono un po’ stanco oggi...-
Dall’altra parte del telefono seguì un silenzio di qualche minuto. Io non riattaccai e nemmeno lui lo fece. Continuai a sentire il suo respiro contro la cornetta. Non capivo perché quel tipo continuasse a chiamarmi. Aveva bisogno di qualcosa? Forse, aveva bisogno di parlare con qualcuno? Io, dal mio canto, ne avevo le tasche piene di aprir bocca. Ogni volta che andavo dallo psicologo, quel pazzo mi faceva parlare senza interruzione per ore. E forse era per questo che nel mio quotidiano non parlavo quasi mai. Però per Jin poteva non essere così. Forse lui aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi.
“Jin?” mormorai ad un certo punto, “Senti, vuoi dirmi qualcosa?”
-Io? Cosa dovrei dirti?-
“Quello che vuoi. Per esempio, perché mi chiami?”
-Non lo so...-
“A chi lo chiediamo?” domandai ridendo. Rise un po’ anche lui.
-Qui è così noioso,- disse poi di colpo.
“Immagino! Starsene dietro un bancone ad accogliere clienti è un po’...”
-No, non intendevo quello...-
“Allora cosa?”
-Qui, in America, la mia vita è noiosa. Almeno lo era, finché non ho incontrato un boxeur giapponese che è salito sul mio stesso pullman.-
Avvertì improvvisamente una vampata di calore dietro le orecchie. Ma cosa mi prende ancora? Prima il vuoto allo stomaco, ora sento di colpo caldo. Devo aver contratto una malattia davvero inusuale.
“Ah... ammazzi la noia chiamandomi allora?”
-Mhn... forse. Hai sonno?-
“No... non troppo... tu invece? Hai il turno di notte?” 
-Sì... ma ho sonno.-
“Non dovresti andare a sprecare energie con quelli là! Poi la notte hai sonno, è ovvio.”
-No, oggi non ero con Koki. Non lo vedo più da quel giorno.-
“Allora cosa hai fatto per stancarti?”
-Mi sono esercitato.-
“Eh?”
-Ho composto musica, mi sono esercitato con il canto e la chitarra... cose così.-
“Ehh? Tu canti?”
-A casa mia.-
“Capito, capito! Che bello, mi piacciono gli artisti! Mi piace la musica.”
-Davvero?-
“Sì, sì!” esclamai. “Ah, a proposito, il sogno di cui mi parlavi...”
-Un cliente,- disse in quel momento di colpo, -Ti richiamo, buonanotte.-
“Okay, ‘notte...” risposi, anche se lui aveva già chiuso. Osservai la cornetta del telefono da cui proveniva il segnale di occupato. E sospirai.
 
Il giorno dopo mi richiamò sul serio, come aveva detto. E anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Una chiamata al giorno. Mi sembrava così strano che avevo iniziato a farci caso. Solo una telefonata al giorno, e sempre di sera. Undici chiamate in tutto.
 
Los Angeles - 12 Aprile
 
-Sono come un naufrago perso nell'oceano, ho bisogno di aggrapparmi a uno scoglio. Voglio rivedere gli scogli, la terra. Ma se, tornato sulla mia tanto agognata terra, non la sentissi più come mia e mi fossi abituato a quest'infinita distesa d'acqua?-
Chiusi gli occhi annuendo. “E’ un buon inizio.”
Come al solito, era sera ed io ero disteso sul letto. La conferenza fortunatamente non era durata molto ed io ero tornato in fretta all’hotel.
Tenevo la cornetta del telefono attaccata all’orecchio. Sorrisi. Durante quei giorni di telefonate notturne Jin mi aveva detto molte cose di sé. Alla fine ero pure riuscito a scoprire il suo sogno. Lui voleva tornare in Giappone da sua madre ed iniziare una carriera da musicista. Suo padre lo aveva strappato dalla propria terra nativa quando non aveva nemmeno dieci anni e se l’era portato con sé in America, nella terra della sua catena d’alberghi. Ma quale padre non conosce l’indole ribelle e i sogni del proprio figlio? Non mi stupirebbe scoprire che Jin, di colpo, avesse lasciato gli Stati Uniti e fosse tornato a casa, da sua madre, per inseguire la strada che sentiva più propria.
E non mi stupii nemmeno quando lo ascoltai cantare quelle note malinconiche.
-E' come se tentassi di tenere stretto a me un ricordo, ma non riesco ad afferrarlo. Mi dimeno, nuoto inutilmente per raggiungere la mia riva almeno con la vista. Ma rimango ancorato nello stesso luogo. Forse sto solo aspettando che qualcuno mi venga a prendere e resto qui ad aspettare, senza nemmeno avvertire le onde che mi cullano.-
Era la prima volta che mi cantava una delle sue canzoni. Avevo lottato per quasi quattro giorni ma alla fine ero riuscito a convincerlo. Canta per me, gli avevo detto alla fine. Voglio ascoltare la tua voce.
Io, di rimando, gli avrei rivelato il mio di sogno.
-Cerco di guardare il sole ma gli occhi si bagnano sempre. Forse sono così perso nel buio che i miei occhi si devono accontentare della flebile luce della luna. Nonostante la riva avvolta dai raggi del sole sia il mio desiderio più grande, rimango inerme nell'acqua scura. Ed ho paura di toccare il mio sogno.-
Concluse quell’ultima parola con voce tremante, poi calò il silenzio. Io riaprii lentamente gli occhi.
“E’ molto bella.”
-Davvero?- domandò sorpreso, e la voce gli sorrise.
“Davvero... si sentono i tuoi sentimenti. E... Jin...”
-Mhn?-
“Sei triste?”
-Eh? Ma no, è solo una stupida canzone, tranquillo,- rispose ridendo, ma un singhiozzo lo tradì.
“Hey!?”
-Tranquillo, tranquillo! Ora mi passa! Dammi qualche secondo,- lo sentii tirare su col naso.
“Okay, vengo a darti il cambio alla reception, dammi un minuto che scendo.”
-Ehhh! No, no, non sono nemmeno alla reception ora...-
“Come? E dove sei?”
Non mi rispose. Respirava solo forte. Forse, in questo modo, cercava di calmarsi ma non mi sembrava aria.
“Se non mi dici dove sei inizio a bussare a tutte le porte dell’hotel.”
-Non c’è bisogno, ti ho detto,- era diventato improvvisamente serio. Ma che problema aveva? Se aveva bisogno d’aiuto perché non lo diceva chiaramente? Ah... Tatsuya, dimentichi molto spesso che le persone non sono fatte tutte come te. Sospirai.
“Bene, vengo a cercarti. Chiudo,” e abbassai la cornetta.
Ecco un altro sintomo della malattia sconosciuta: improvvisa empatia.
 
Uscii dalla camera e guardai a destra e a sinistra. Non c’era anima viva lungo il corridoio.
Decisi di iniziare dal primo piano e feci per dirigermi verso gli ascensori quando la serratura di una porta scattò alle mie spalle.
“Non c’è bisogno che mi cerchi...” sentii una voce.
“Jin?” raggiunsi velocemente la porta della camera adiacente alla mia ed entrai. Lui era là, appoggiato al muro e, sebbene cercava di coprirsi, aveva il volto rosso e gli occhi lucidi.
“Ahh, ma cosa combini?” gli domandai allungando una mano verso il suo viso. Gli asciugai una guancia e lui mi guardò con una strana espressione.
In quel momento mi paralizzai. Avevo davvero fatto quello? Ritirai di colpo la mano e la strinsi al petto. Avevo davvero volutamente toccato una persona?
Ero ancora scioccato del mio stesso comportamento che non mi resi conto dei movimenti dell’altro. La porta era stata chiusa e ora Jin era poggiato ad essa, gli occhi fissi su di me e quella strana espressione sul viso.
Quando tornai in me e notai il suo sguardo mossi istintivamente un passo indietro. Poi mi riscossi nuovamente: di cosa dovevo aver paura? Quello era Jin, la stessa persona con cui avevo parlato al telefono per due intere settimane. Era sempre lui.
Tornai ad avvicinarmi cercando invano di rilassarmi.
“Allora, sei venuto a prendermi e a riportarmi nella mia terra?”
Io restai in silenzio.
“Tatsuya, dimmi,” continuò lui con un tono che mi fece trasalire, “Perché fai così?”
“Eh...? Così c-come?” balbettai.
“Perché al telefono sembri un’altra persona? Di persona ti faccio schifo al punto che nemmeno vuoi toccarmi?”  
“No... non è quello.”
“Io ti ho detto tutto di me,” continuò lui staccandosi dalla porta e muovendo un passo in avanti, “Ma tu non mi hai detto nulla di te.”
Iniziai ad agitarmi e mi schiacciai al muro. Tatsuya, sei un boxeur o no? Non hai iniziato questo sport per riuscire ad affrontare fisicamente le persone? In quel momento Jin mi afferrò i polsi fermamente e io serrai gli occhi. Il cuore nel petto aveva iniziato a reclamare spazio e sembrava volermi bucare il petto.
Però... qualcosa era diverso. Schiusi leggermente gli occhi e Jin era là a guardarmi. No, infatti, è diverso. Ho reagito come se avessi paura. Invece non è questo. Lui mi sta toccando, ma io non sono spaventato in realtà. Allora cos’è che sto provando? Che diavolo di malattia è mai questa?
Mi lasciò lentamente i polsi.
“Scusami...”
“Jin, mi spieghi che mi prende?” Io non ho paura.
“Eh?”
Allungai le dita e gli afferrai la camicia chiara. Stava così bene vestito in quel modo, l’avevo sempre pensato. Lo tirai leggermente a me e lui seguì il mio volere senza opporsi. Ora il mio corpo si trovava bloccato tra il suo e il muro. Alzò le braccia e poggiò i gomiti ai lati del mio viso. Non c’era spazio, non c’era aria. Le dita strinsero il tessuto chiaro della sua camicia. Non aveva la cravatta, i primi bottoni erano slacciati. La pelle un po’ sudata del petto mi fece sorridere. Non c’era spazio. Alzai il capo e trovai i suoi occhi che mi fissavano ancora. Con quell’espressione così strana ma che forse ora sapevo cosa voleva dirmi. Non potei far altro che allungare il capo e poggiare le mie labbra sulle sue.
 
Nel momento in cui iniziò a baciarmi ripetutamente il petto, il mio corpo era arrivato ad una temperatura insopportabile. Devo avere la febbre, eppure non mi sento male.
“Jin...” iniziai, ma la bocca era impastata e non potei chiedergli di nuovo cosa mi succedeva.
Eravamo distesi sul letto. Io ormai non avevo quasi più niente addosso, mentre a lui ero riuscito a slacciare solo qualche altro bottone della camicia. “Aspetta...” mormorai prima che lui potesse infilare le dita nei miei slip. Mi tirai su seduto e finii di aprigli la camicia, quindi gliela sfilai. Lui mi sorrise un po’ divertito.
“Ti tremano le mani,” commentò sfiorandomi il viso. Poi spostò un po’ i capelli dal mio viso e tornò a baciarmi.
Si potevano chiamare malattia le sensazioni che provavo in quel momento? Non mi sembrava possibile. Sorrisi anche io e lasciai che mi ristendesse sotto di lui.
Mentre lui mi tormentava il collo io allungai le braccia e gli circondai la schiena. Anche la pelle del suo corpo sembrava bollente. Il suo respiro era spezzato quanto il mio. Possibile che avessimo contratto la stessa malattia? Forse era contagiosa. Ma cosa importava, ero felice, se era stato lui ad attaccarmela.
Quando iniziò a masturbarmi, io non potei fare a meno di gemere. Quando me lo prese in bocca, io smisi di respirare.
Come avevo fatto a vivere tutti quegli anni senza di lui?
 
Los Angeles - 13 Aprile
 
Voltai il viso verso l’orologio sul comodino e mi resi conto che la mezzanotte era già passata.
Jin era disteso al mio fianco e mi cingeva la vita con un braccio. Era ad occhi chiusi, ma sapevo che non stava dormendo. Le sue dita mi solleticavano la pelle ad intervalli regolavi e ogni tanto lo vedevo sorridere.
Sospirai e lui socchiuse le palpebre.
“Che c’è?”
Io scossi leggermente la testa.
“No, dimmelo.”
“Jin...” mormorai allora, “Torni con me?”
“Eh...?”
“In Giappone, quando oggi salirò sull’aereo, sarai con me?”
Jin rise sottovoce e mi passò le dita tra i capelli. “Mi piacerebbe, non sai quanto.”
“Ma...?” domandai, i miei occhi guizzavano come impazziti sul suo viso e si velarono di colpo.
“Ma non è ancora il momento.”
Io chiusi le palpebre di scatto e mi rannicchiai contro di lui.
“Perché?”
“Non sono pronto. E non voglio dirti che ti raggiungerò, perché non ne sono certo.”
Io restai qualche secondo immobile. Già, per un momento, pensarlo al mio fianco per il resto della vita mi era sembrata una cosa così naturale ed automatica che mi ero dimenticato dei suoi doveri. Jin era destinato a prendere in mano le redini della catena d’alberghi del padre. E se avrebbe rinnegato quel suo futuro non sarebbe certo successo per me. Chi ero io dopotutto?
“Tatsuya,” disse poi stringendomi un po’ di più, “Ti ringrazio.”
“Per cosa?” Dovrei essere io a ringraziarti invece.
“Grazie a te ho capito quello che voglio fare, e chi voglio essere in futuro.”
Io alzai il viso verso di lui.
“E...” continuò, “Non posso esserne certo, ma farò di tutto per ritrovarti in Giappone.”
Non riuscii a far altro che sorridere. Un sorriso, non so perché, pieno di tristezza.
“Jin, ti dirò il mio sogno.”
Lo sentii annuire.
“Una volta tornato a casa, mollerò subito la boxe e quello psicologo da cui vado da quando avevo dodici anni. E... voglio diventare un attore di teatro.”
“Un attore?”
“Sì,” confermai deciso, “Sento che è questa la mia strada.”
Jin sorrise, sembrava davvero felice.
“Non vedo l’ora di vederti sul palco allora.”
 
Quando il sole sorse di nuovo su Los Angeles e io aprii gli occhi, Jin non era più là.
 
Uscii dall’ascensore con le valigie e mi avvicinai alla reception.
La ragazza bionda mi sorrise come suo solito e io le consegnai la mia carta magnetica.
E’ andato tutto bene, signore?
Io la guardai e, avendo forse capito quello che mi aveva detto, annuii. Lei ne sembrò contenta.
Diedi un’ultima occhiata intorno a me ma non c’era anima viva. Stavo lasciando l’America solo, così come ci ero entrato. No, in verità non ero più solo. La barriera di quel mio piccolo mondo ristretto si era finalmente incrinata e, chissà, forse ora c’era anche spazio per altre persone. Sorrisi alla ragazza e lei ne fu sorpresa.
Ah!” esclamò tirando fuori un bigliettino. Me lo porse. -Da Jin- c’era scritto sopra in hiragana. Io la guardai, mi stava porgendo un altro pezzetto di carta bianco.
Per Jin,” mi disse in inglese, “Non vuoi lasciargli anche tu un messaggio? Lui mi ha parlato molto di te, siete amici vero?
Io, come sempre, non capii niente. Ma avevo afferrato quello che voleva farmi fare.
Afferrai il foglio bianco e scrissi solo una piccola frase: -Non ti dimenticherò.- Poi glielo porsi.
Lei mi sorrise annuendo.
Arrivederci...” mormorai in un inglese stentato. Poi lessi il suo nome sulla targhetta, “...Christina.”
Lei mi salutò con la mano e accennò un piccolo inchino. Feci altrettanto e mi allontanai.
 
Una volta fuori mi veniva quasi da ridere. Non era poi così difficile lasciare entrare le altre persone nel proprio mondo. Era possibile farlo senza rischiare di perdere la propria identità. Non c’era da aver paura.
“Ah!” esclamai mentre un taxi si fermava davanti a me. Aprii velocemente il biglietto di Jin e, di colpo, senza riuscire a trattenerle, le lacrime iniziarono a rigarmi le guancie. -Non ti dimenticherò.-
Salii veloce sul taxi.
Aeroporto, per favore,” dissi solo, cercando di nascondere il viso. Poi guardai di nuovo quel pezzo di carta.
“Siamo due idioti,” mormorai a me stesso con un sorriso. Le lacrime continuarono a scendere per tutto il tragitto. Ma quello era un pianto silenzioso. In quel mondo infinito nessuno se ne accorse, solo io. Non erano lacrime di tristezza, ma anche di questo solo io ne ero a conoscenza.
Guardai il cielo finalmente terso e smisi di piangere.
Alla prossima, Jin! E vedi di ritrovarmi, perché io non ti ho ancora ringraziato.
 

<< Nel centro del mio corpo affamato,
Resta il tuo profumo.
Quel sogno e quelle lacrime cancellarono i miei pensieri.
Anche se sono ancora incerto e confuso, continuo a credere. >>
 

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Postfazione: Bene, prima di fare il banner e postare ho pensato di scrivere qualcosa... intanto la cit iniziale viene dalla OST di Mars di Alan Kuo (grazie Ansy per la segnalazione! E’ perfetta!) mentre quella finale è da ONE DROP ^o^
Che dire di questa ficci... è finita così, non ho potuto farci niente xD E anche se ho in mente una “seconda parte” vi preannuncio che non sarà JinDa... dopotutto Jin è stato la prima cotta di Ueda, e, si sa, la prima cotta non dura se non nel ricordo dei due interessati ^^ Ma non dico altro per non rovinarvi la sorpresa! Chissà quando la scriverò xD
Grazie a tutti quelli che l’hanno letta man mano! Mi riferisco a Koko (tifo per te! Voglio una prima ficci da bomba! E grazie per avermi passato il tuo scritto! Come testo della canzone di Jin è stata perfetta <3) e Ansy, senza la quale non so se l’avrei continuata a scrivere xD Grazie anche a chi leggerà! Alla prossima!!! <3
 
Ps. Grazie Terry, Anna e Sara per i regali!!! *O* 

13 Aprile 2012

   
 
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