Note
dell’autrice: Buona domenica a
tutti!
Secondo
capitolo di cui Vegeta è unico
protagonista. Potreste notare delle contraddizioni al suo interno, in
realtà
non è così. Ho cercato di dare voce ai pensieri
di Vegeta analizzandoli il meno
possibile e me lo sono immaginato costantemente a convincersi di cose
che non
pensa veramente. Spero vi piaccia!
La
canzone è quella famosissima dei Beatles,
capirete a cosa si riferisce! Recensite, please!!!
CAP.
2 –
STRAWBERRY FIELDS FOREVER
Quando
Vegeta smise di allenarsi il tramonto era
ormai inoltrato e la poca luce rossastra rimasta gettava lunghe ombre
su tutto
il prato curato della Capsule Corporation. Trunks era passato a
salutarlo
dicendogli che andava a dormire da Goten e lui si apprestava a salire
in casa
per fare una doccia prima della cena.
Il
suo sguardo venne attratto dalla rivista che
Bulma aveva lasciato sul tavolino. Aveva sperato ardentemente di
riuscire a
dimenticarsene o quantomeno di riuscire ad ignorarla ma, dannazione, se
non
avesse dato nemmeno un’occhiata, il tarlo della
curiosità l’avrebbe divorato
per tutta la notte. Con aria indifferente si avvicinò al
tavolo e poi, dopo
aver controllato che nessuno lo stesse spiando, prese la rivista e la
aprì
maledicendosi perché, anche con il solo interessarsi ad
sciocchezza simile, la
dava vinta a lei.
Sfilò
il biglietto e lo dispiegò. All’interno, nella
sottile e appuntita grafia di Bulma c’erano solo due parole:
Pagina
34
Che
diavolo significava? Era forse uno scherzo?
Quella donna lo avrebbe davvero mandato al manicomio prima o poi.
Sentendo
crescere l’irritazione verso quell’insulsa perdita
di tempo, appallottolò il
foglio e lo gettò via.
Pagina
34… Doveva essere la pagina 34 della rivista
quindi. Era l’unica spiegazione possibile. Sfogliando
sgarbatamente le prime
pagine in cerca della numerazione, si sentì un cretino.
Stava lasciando che
Bulma giocasse con lui in modo fastidiosamente simile a quando
organizzava per
Trunks quelle stupide cacce al tesoro.
Pagina
34, eccola. Nessun biglietto, nessun
messaggio. Niente di niente. Vegeta stava già per incenerire
il periodico
quando lo sfiorò l’ipotesi che la risposta potesse
trovarsi nell’articolo
stesso. Diresse quindi lo sguardo sul titolo che troneggiava in cima
alla
pagina…
Quello
che le donne vogliono
Seguiva
un elenco numerato di cose con accanto
la spiegazione di altre sciocche
galline terrestri che evidentemente condividevano con Bulma
l’interesse per
quelle ridicole letture. Evidentemente i terrestri erano più
minorati di quanto
pensasse, se ad una donna capace come Bulma in tutte le discipline
tecniche e
scientifiche interessava quella robaccia.
Ma
cosa si aspettava quella donna? Che lui le
procurasse tutta quella roba? Lesse distrattamente qualche punto a caso
dell’elenco. La quantità di idiozie era
impressionante.
Vorrei
un corpo perfetto. Vorrei trovare il principe azzurro. Vorrei essere
meno
stupida.
Sì, quest’ultimo sarebbe stato un regalo perfetto
per Bulma, pensò malvagio.
Un
momento. Uno dei punti era sottolineato. Ed era
sottolineato con la penna verde che Bulma aveva rosicchiato per gran
parte del
pomeriggio.
Vorrei
avere un altro figlio.
Vegeta
si bloccò con la rivista in mano e dovette
rileggere più volte quella riga prima di realizzare.
Davvero?
Sotto
la doccia Vegeta pensava a quanto quella
rivelazione l’avesse sorpreso. Bulma non aveva mai lasciato
intendere di volere
un altro figlio, nemmeno quando quell’oca starnazzante di sua
madre si era
lamentata del fatto che Trunks chiedesse sempre come mai non poteva
avere un
fratello, come Goten. Adesso che ci pensava qualcuno le aveva chiesto
se aveva
intenzione di avere altri figli, ma lei aveva risposto che stava bene
così. L’aveva
sentita lui stesso.
Infatti
stavano bene. Avevano trovato un loro
equilibrio dopo il Cell Game e dopo gli eventi dell’anno
precedente, beh… aveva
persino permesso che, nella fase degli incubi su Majin Bu, Trunks
invadesse il
sacro spazio del suo letto. Cos’altro poteva pretendere,
quella donna?
Inoltre
Bulma era il tipo che si presentava a cose
fatte, così fastidiosamente arrogante e testarda. Non gli
aveva mai chiesto il
permesso di fare nulla prima, ma del resto Vegeta aveva capito che
vietarle qualcosa
era un modo per assicurarsi che lei lo facesse al più
presto. Un maledetto
mulo, ecco cos’era. Quindi perché adesso stava
rimettendo la cosa a lui? Non si
era forse preoccupata sempre lei del contraccettivo?
Mentre
l’acqua calda gli scorreva sui muscoli
indolenziti con l’effetto di un balsamo ricostituente, Vegeta
si sintonizzò sul
conflitto interiore che ogni cosa riguardante Bulma gli generava.
A tratti
emergeva la sua parte più istintiva e ancestrale, quella che
solo l’anno prima
aveva fatto volontariamente esplodere durante la trasformazione operata
da
Babidy. Non era affar suo se la donna voleva un figlio. Poteva averne
dieci per
quanto lo riguardava, i marmocchi non gli interessavano. Anzi no, non
poteva
permettere che il suo prezioso sangue regale scorresse in altri insulsi
mezzosangue. A che pro generare degli ibridi fannulloni e svogliati,
inadatti
alla stirpe di un guerriero come lui e probabilmente forniti di
giganteschi,
disarmanti occhi azzurri?
Maledizione,
perché quell’immagine non lo disgustava
come avrebbe dovuto? Ecco che subentrava quell’altra parte
più destabilizzante di
sé, quella più difficile da accettare e di cui si
vergognava ancora, quella che
aveva preso il sopravvento quando si era sacrificato per altri, quella
che non
riusciva a dominare quando Bulma la mattina riempiva la sua schiena di
baci
soffici e caldi e quando Trunks urlava entusiasta giocando nella neve.
Lui
cosa desiderava? Per Trunks non era stato quel
che si dice un padre perfetto, ma nonostante tutto quel ragazzino
sembrava
felice di averlo come padre. Con un altro figlio sarebbe stato diverso?
Forse
no, a patto che Bulma non si aspettasse da lui cose da volgare
terrestre. Aveva
più o meno capito di cosa avesse bisogno un lattante e non
aveva nessuna
intenzione di partecipare attivamente alla sua cura. Comunque Bulma non
gli
aveva chiesto mai niente nemmeno per Trunks, a parte passare un
po’ di tempo
con lui ogni tanto. E se quel marmocchio non gli fosse piaciuto? E se
invece avesse
contribuito ad addomesticarlo ancora di più?
Chissà
per quale associazione mentale, da quando
aveva cominciato a pensarci, gli tornava in mente la prima volta che
aveva
mangiato le fragole. Era primavera anche quella volta ed erano seduti
su un
prato con Trunks che cominciava a formulare le prime parole di senso
compiuto.
Bulma lo aveva costretto ad andare con lei, ricattandolo con una serie
di
migliorie alla Gravity Room.
Quel
frutto aveva un profumo che gli piaceva.
Gradevole. Ben presto aveva capito di associarlo al profumo dei capelli
di
Bulma o meglio, al profumo del suo shampoo. Sfortunatamente in
un’altra
occasione glielo aveva fatto notare e si era rivelato uno degli errori
più
grandi della sua vita, visto che da quel momento quella serpe
ammaliatrice
soleva farsi perdonare utilizzando le fragole in modi decisamente
impudichi.
Sta
di fatto che, durante quella giornata, Trunks si
era impiastricciato dappertutto con quei frutti rossi e sugosi e ne aveva
lasciato
pezzi ovunque e su chiunque, persino su di lui che aveva cercato invano
di
sottrarsi alle sue mani disgustosamente sporche. Quel profumo gli era
rimasto
addosso e nelle narici tutto il giorno; una giornata intera in cui loro
tre
avevano avuto lo stesso odore.
Ed
ora non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine
di Trunks che rideva felice, con le manine grassocce piene di fragole
spappolate…
Vegeta
uscì dalla doccia frizionandosi i capelli con
l’asciugamano. Probabilmente lei lo stava aspettando per
cena, dove lo avrebbe
sommerso di chiacchiere inutili come sempre. Si avvicinò al
comodino di Bulma,
sopra al quale la donna teneva gli occhiali, i fazzoletti e una foto
rubata di
loro tre sulla spiaggia. Ne aprì il cassetto e non dovette
frugare molto per
trovare quello che cercava. La scatola era lì in superficie.
Se la rigirò tra
le mani e, riconoscendola come quella da cui lei prendeva le pillole
tutte le sere,
la schiacciò tra le dita e ne buttò i resti
accartocciati nel cestino.
Lei
avrebbe capito.