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Autore: Back To Vegas Skies    18/04/2012    6 recensioni
“Ho… ho paura, okay? Ma non è del mondo che ho paura quando tu sei con me. Non ho paura degli altri. Ho solo paura che tu vada via.”
-
Ryan soffre di depressione. È solo, impaurito. E si fa del male. Crede che la vita gli abbia voltato le spalle. O almeno fino a quando non incontra Brendon.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brendon Urie , Quasi tutti, Ryan Ross
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Bene, eccomi qui con una Ryden nuova di zecca. Ce l’ho in cantiere da un po’, ma ho sempre avuto paura a pubblicarla. Paura perché è spaventosamente personale, spesso autobiografica. Spero adesso non scapperete via urlando! xD Comunque, questa storia è un pezzo di me e spero si capisca.
Non vedo l’ora di leggere cosa ne pensate, sul serio :)
Non so quanto sarà lunga, anche perché, come avrete notato, la lunghezza di questo primo capitolo è abbastanza considerevole e appunto per questo non so nemmeno dirvi se sarò costante nel postare. Scusate :(
A presto, Ros.]
 
 

Brendon smiles like Brendon doesn’t care.


Capitolo 1.

Odio tutta la gente intorno a me. Odio come mi guardino con i loro occhi vuoti e i loro sorrisi finti. Odio come le loro dita inquisitrici siano puntate contro di me. Io non sono pazzo. Non sono pazzo. Sono solamente solo. La vita mi ha voltato le spalle e adesso io sto voltando le spalle alla vita. Mi faccio del male perché… Beh, perché così almeno mi sento capace di sopportare tutto il male che mi fa il mondo. Ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo.
Io non sono pazzo. Non sono un caso clinico. Sono stanco. Stanco della vita che vedo scivolarmi via, stanco del tempo che so di perdere e che non faccio nulla per recuperare. Sono stanco. Sono stanco di ricevere insoddisfazioni e porte in faccia. Sono stanco di essere solo. Sono stanco di non essere abbastanza. Sono stanco di quelle fottute pillole. Medicina, così la chiamano. Un piccolo “aiuto”, solo per “aiutarmi a ingranare”. Ma nessuno ha pensato che forse non sono gli antidepressivi quelli di cui ho bisogno? Nessuno ha pensato che forse avrei bisogno di qualcuno che mi tenda una mano, invece che una scatola di farmaci?
Lo psichiatra mi guarda con un sorriso mellifluo, le mani incrociate davanti a sé sulla scrivania. Non mi è mai piaciuto il suo studio. È piccolo e soffocante, ma le pareti sono così bianche da farmi venire il mal di testa ogni volta. Ed è così stretto che c’è posto a malapena per una scrivania e due sedie. Odio questo posto e odio quel sorriso idiota. E odio anche avere pochi soldi e non potermi permettere un dottore migliore.
- Fammi vedere le braccia, Ryan, da bravo.
Con uno sbuffo mi sollevo le maniche e gli porgo i polsi, pieni di cicatrici rossastre.  Alcune sono più fresche, altre quasi sparite. Sfiora con l’indice grassoccio quelle più vicine alle vene, quelle che mi sono fatto due giorni fa.
- Perché l’hai fatto? Volevi ucciderti? - mi chiede con una calma inadatta alla domanda che mi ha porto e con un sorrisino che mi fa venire voglia di colpirlo in faccia.
- No, certo che no - rispondo secco, tirando il braccio indietro e coprendo subito la mia vergogna con la manica del maglione. Mi fa questa stupida domanda ogni volta e come ogni volta comincia a sproloquiare come sempre sul fatto che è normale che io mi senta così dopo solo due anni che sono morti i miei genitori, sul mio modo di fuggire la realtà, sul fatto che solo perché sono omosessuale non devo sentirmi rifiutato dal mondo, sul fatto che devo essere ottimista alla vita. Sul fatto che forse dobbiamo aumentare la dose di antidepressivo.
Mi porge la ricetta che ha scribacchiato in fretta, poi mi saluta con il suo solito sorriso stupido e io esco. Sempre più solo, sempre più vuoto.
 
Andare a scuola è un altro aspetto della mia vita che vorrei cancellare. La gente mi guarda come se avessi la lebbra. Adesso sono “il depresso”. Quelli che non mi fanno sorrisini costernati mi evitano. E quelli che non mi evitano mi trattano come se potessi aprire la finestra e lanciarmi giù da un momento all’altro.
Ma io non sono pazzo. Non sono anormale.
Finché la gente non sa, vengo considerato come un ragazzo qualunque. Finché la gente non sa, posso ancora fingere di essere come tutti gli altri.
- Ciao, Ryan! Come va?
Sobbalzo e alzo lo sguardo. Accanto a me si è seduto Brendon Urie e adesso mi sta guardando con un sorriso. Sono spiazzato. È un sorriso sincero, non come quelli che si fanno ad una persona malata. Non c’è compassione o pietà. È… una sensazione nuova e… bella.
Per riflesso mi copro ancora meglio i polsi con le maniche del mio maglione a quadri.
Conosco Brendon da quasi cinque anni, ma non avevamo mai avuto un contatto così diretto. Seguiamo le stesse lezioni, ma in generale non parlo quasi mai con nessuno.
- Posso sedermi, vero? - continua, senza badare al fatto che non gli abbia risposto.
Vedo i suoi amici, Smith e Walker, guardare verso di noi in modo strano.
Non m’importa che lui sia qui, comunque. Il mio unico obiettivo è quello di finire le lezioni e poi correre a casa, chiudermi in camera e aspettare che un altro giorno passi. È così ogni giorno e oggi non sarà diverso. Nemmeno con tutti i Brendon Urie e i bei sorrisi del mondo. Perché, c’è da dire, il suo, di sorriso, è veramente incantevole. Annuisco, comunque, forse un po’ troppo tardi, ma non me ne preoccupo. Probabilmente già mi considera un ritardato.
Estrae i quaderni e il libro di letteratura dallo zaino e li mette sul banco, prima di guardarmi e sorridermi di nuovo. Mi sento nervoso, con i suoi occhi addosso. Con i suoi bellissimi occhi addosso.
Gli sorrido timidamente in risposta, pochi secondi prima che il professore entri .
L’ora sembra passare più velocemente del solito. Cerco di concentrarmi, ma finisco sempre per pensare al braccio di Brendon vicino al mio, al calore della sua pelle, al suo sorriso. L’ho sempre reputato un bel ragazzo, ma non mi ero mai accorto di quanto lo fosse veramente. E il fatto che non mi tratti come un caso clinico lo rende ancora più bello ai miei occhi.
Per tutto il pomeriggio non faccio che pensare a lui. Il mattino seguente mi ritrovo a sperare che si sieda di nuovo accanto a me. Patetico.
Entro in classe, come sempre con lo sguardo basso e la voglia di sparire. I nuovi tagli che mi sono fatto ieri sera bruciano più del solito. Brendon scapperebbe via se solo li vedesse. Eppure si siede di nuovo accanto a me. E lo fa di nuovo alla lezione successiva. E a quella dopo. Mi parla. Non chiede nulla, parla con me e basta. Mi sorride, mi racconta tante cose. E sembra non fregarsene se io non rispondo o se non dico nulla. Lui sorride lo stesso.
 
- Ti va di pranzare insieme a noi? - mi chiede indicando i suoi amici, una volta finita la lezione di matematica, durante la quale mi ha raccontato che i suoi genitori sono dei mormoni bigotti e io ho evitato accuratamente di raccontargli che vivo da due anni con mia zia perché i miei genitori sono morti in un incidente.
- O- okay - rispondo, spiazzato. Me ne pento subito, ovviamente. Mi odio, sono uno stupido. Uno come lui non potrà mai trovare interessante uno come me. E se vedesse i tagli? Mi reputerebbe uno psicopatico. Forse lo sono.
Alla mia risposta,comunque, lui sorride. Metto in fretta i libri nella borsa, sperando non si accorga di quanto sono arrossito.
Arriviamo in sala mensa, mentre mi sento decisamente fuori luogo. Loro ridono, scherzano, parlano. Io no. No ci riesco. Vorrei poterlo fare anch’io.
- Tutto bene? - mi chiede Brendon, guardandomi preoccupato.
- Certo - rispondo, cercando di sorridere.
Ci sediamo e lui si mette accanto a me.
E se scoprisse i tagli? Se scoprisse la mia vergogna? Se scoprisse che riesco a sentirmi meglio solo vedendo le gocce scarlatte scivolarmi sulla pelle e poi cadere sul pavimento? Io non sono pazzo. Ho solo bisogno di qualcuno che mi ami. Ho solo bisogno di qualcuno che mi accetti così come sono.
Durante il pranzo non parlo molto, ma per un po’ riesco a dimenticare. Mi sono ritrovato a sorridere più di una volta. È stato bello, credo.
Brendon è l’ultimo a finire di mangiare e, mentre gli altri due parlano tra loro, io lo guardo meglio. È così bello che potrei disegnarlo. Perché uno come lui si è avvicinato ad uno come me? Decido di non chiedermelo e di pensare positivo. Devo essere ottimista, così dice il dottore. Lascio scorrere lo sguardo sui suoi lineamenti, sul suo naso che starebbe male a chiunque altro, ma che su di lui non fa altro che migliorare l’insieme, sulle sue guance, sui suoi zigomi squadrati. E le labbra. Non credo di averne mai viste di così belle. Si gira verso di me e mi becca a fissarlo. Mi sorride, arrossisco, distolgo lo sguardo. Sono un idiota.
Poco dopo Spencer e Jon, i suoi amici, ci salutano, balbettando qualcosa sull’essere in ritardo per gli allenamenti  di football.
- Giocano a football? - chiedo a Brendon, una volta che i due si sono allontanati.
Brendon ridacchia, poi si passa una mano tra i capelli. Bello, è davvero bello.
- E’ il loro… uhm.. linguaggio in codice.
Lo guardo perplesso, mentre mi accorgo che più i minuti passano, meno mi è difficile parlargli.
- Vedi, “progetto di scienze” sta per “farsi una canna”, “ripasso di storia” sta per “fare sesso” e il mio preferito, “allenamento di football”, sta per “sbavare sui nostri muscolosi e decisamente sexy componenti della squadra della scuola mentre sudano in campo”. Anche se in estate quest’ultimo è decisamente più divertente!
Ride di gusto, ma io non riesco a fare altrettanto.
- Spencer e Jon sono gay? - chiedo, serio.
- Lo sono anch’io - dice, con aria di sfida - È per caso un problema?
- Oh, no no! Certo che no! - rispondo, forse troppo tempestivamente. Ho fatto una figura pessima, è tutta colpa mia. Mi odio, sono un idiota. Forse dovrei dirgli che anche io lo sono, ma non ne ho il coraggio.
Brendon sorride di nuovo.
- Bene, meglio così.
Restiamo in silenzio, per quelli che sembrano secoli. Lo sapevo, l’ho offeso. Non volevo. È tutta colpa mia.
- Anche tu hai francese adesso, vero? - mi chiede dopo un po’.
Annuisco.
- Vieni, ci andiamo insieme - mi sorride, prima di alzarsi. Sono sollevato.
- Mi piace il francese - dice, mentre camminiamo lungo il corridoio.
- Io lo odio - ammetto, un po’ imbarazzato. Sono sempre stato una schiappa. Ma ricordo che lui ha una pronuncia invidiabile e il professore non fa altro che elogiarlo. Alcune volte l’ho invidiato, altre semplicemente odiato. Mi chiedo come abbia fatto. Come ho potuto odiare uno come lui?
Lui ride, mentre entriamo in classe e sento gli sguardi di tutti su di noi. Certo, deve essere uno spettacolo inedito. Io, Ryan Ross, insieme a qualcuno. Qualcuno che per di più è bello e solare e che soprattutto non mi tratta come se fossi uno stupido. Anche se lo sono.
Si siede accanto a me, continuando a chiacchierare fino a quando non entra il professore.
Ovviamente Brendon comincia a sfoggiare un linguaggio impeccabile e inevitabilmente tutti gli sguardi sono su di lui. E di conseguenza su di me. Vorrei essere invisibile. Comunque, sono le ragazze quelle che sembrano più ipnotizzate da lui. Se sapessero…
- Bene, eccellente Urie. Scommetto che andrai benissimo nel test di domani! - squittisce il professore, con la sua erre moscia.
- Abbiamo un test?! - chiedo spiazzato. Cazzo. Un’altra insufficienza e mi sono giocato l’anno. E non posso permettermi di stare ancora così tanto tempo in questa scuola.
- Non ce la farò mai a studiare tutto - sospiro, poggiando la testa sulle braccia.
- Se vuoi ti aiuto io! - sorride Brendon.
- I-io… non so… non vorrei disturbarti…
No, assolutamente no. Non posso farlo entrare nella mia vita ancora di più, non devo. E se mi ferisce? Non basta già il male che mi procuro da solo?
- Stai tranquillo. Si studia meglio in compagnia - continua, senza smettere di sorridermi. Se non fosse così bello sarebbe tutto più facile.
- Okay… Ma ti avviso che sono una frana.
- Allora dovremo lavorare sodo - si limita a dire, facendo spallucce.
Non so perché, ma la prospettiva di dover passare un pomeriggio con lui mi fa battere il cuore in modo pazzesco. Dovrei avere paura. Dovrei aver detto di no. Mi sarei dovuto inventare un impegno. Invece riesco ad essere solo emozionato, quasi elettrico.
- Grazie - riesco solo a dire, sperando che non cambi idea.
Una volta finita la lezione di francese, usciamo di nuovo insieme dalla classe.
- Vuoi che venga io da te? Sai, a casa mia c’è sempre casino - mi dice, un po’ imbarazzato.
Cazzo. E se mia madre zia facesse un’altra scenata delle sue? Se vedesse le lamette sporche? So che sono nascoste nel mio comodino, ma non si sa mai.
Ma  non riesco ad avere paura.
- Non c’è problema - rispondo, avviandomi verso il portone - Se ti va puoi venire anche adesso…
- Perfetto - sorride lui - andiamo allora.
Jon e Spencer lo stanno aspettando fuori e ci salutano quando ci vedono.
- Ragazzi, io vado da Ryan. Studiamo insieme per il test di francese - gli dice lui, tranquillamente.
- Oh, il test di francese, eh? - ridacchia Jon, beccandosi un’occhiataccia da Brendon. Il mio cuore batte in modo assurdo.
- Sei un coglione, Jon - dice poi, alzando gli occhi al cielo.
Spencer sorride. Mi accorgo solo adesso che si tengono per mano.
- Beh, ciao allora - sorride, tirando via l’altro.
- E non studiate troppo! - aggiunge Jon, beccandosi uno schiaffo dietro la testa da Spencer - Ahi! Che ho detto?
Brendon è paonazzo e guarda verso di loro come se volesse incenerirli. Promemoria per me: Brendon è bello anche quando si arrabbia. Comunque, ci avviamo verso casa mia in silenzio.
- Scusalo, è un idiota - si giustifica poco dopo, senza guardarmi.
- Tranquillo, è tutto okay.
Sorride ancora una volta. Potrei abituarmi alla sensazione.
- Sai, sono simpatici, se ci fai l’abitudine - dice, guardando avanti a sé.
- Lo immagino. Sembrano a posto.
- Lo sono - annuisce lui.
Dopo qualche secondo, sono io, per la prima volta, a rompere il silenzio.
- Da quand’è che stanno insieme?
Lui sembra sorpreso da questa domanda.
- Li ho… li ho visti tenersi per mano prima - spiego, cercando di concentrarmi sulle foglie secche che scricchiolano sotto i nostri piedi e non sulle nostre braccia che si sfiorano.
- Oh. Da… dal primo anno credo.  
Lui sembra un po’ imbarazzato su questo argomento, io invece sono curioso. Non ho mai creduto nell’amore. Non mi sono mai innamorato. Nessun ragazzo mi ha mai colpito veramente, ovviamente escludendo Brendon. Ma non so se quello che sento per lui si può definire attrazione. Forse è dovuto principalmente al fatto che non mi tratti come un malato mentale. O forse mi piace davvero. Non ho mai creduto nell’amore, forse per il fatto che i miei genitori litigavano sempre e le loro urla sento ancora risuonarmele nelle orecchie. Non ho mai creduto nell’amore, forse per il fatto che intorno a me vedo continuamente coppie scoppiare, ragazze in lacrime, ragazzi traditi. Ma questi due ragazzi sono insieme da cinque anni. Probabilmente non è molto, ma per me è comunque una cifra significativa. Sono due ragazzi, eppure la loro coppia dura da molto più tempo rispetto alle coppie etero formate da ragazzi e ragazze che hanno la loro stessa età.
- Stanno bene insieme - sorrido. Sì, sorrido. È una bella sensazione sapere che esiste ancora qualcosa di simile all’amore. Se solo potessi provarne un po’ anche io… Forse non soffrirei così tanto. Forse non sentirei il bisogno di farmi del male.
Anche Brendon sorride e annuisce.
- T-tu… Tu ce l’hai un ragazzo?
- No - risponde lui, secco, le orecchie scarlatte e lo sguardo basso.
La cosa mi stupisce e mi solleva allo stesso tempo. Non che io possa mai avere una speranza con uno come lui.
- Tu? Hai una ragazza? - mi chiede poi, ma solo per educazione, ne sono certo. Nessuna ragazza uscirebbe mai con me.
- Oh, no - bisbiglio, imbarazzato. Raramente qualcuno che non sia il mio psichiatra mi chiede qualcosa riguardante la mia vita privata.
Arriviamo a casa mia qualche minuto dopo. Con sollievo noto che tutte le finestre sono chiuse e le tende della camera di mia zia sono tirate. Chiaro segno che non è in casa.
- Vuoi qualcosa da bere? - chiedo, incerto. Non so bene come devo comportarmi, non invito mai nessuno.
- No, tranquillo, mangeremo qualcosa dopo - sorride, guardandosi intorno.
Lo porto di sopra, fino alla mia camera. Anche stavolta guarda tutto con i suoi grandi occhi castani, che, potrei giurarci, qualche volta si posano anche su di me. No, non devo illudermi. Mi sta aiutando perché probabilmente gli faccio pena.
Quando vede la mia chitarra acustica poggiata contro il muro sembra illuminarsi.
- Suoni? - mi chiede con un sorriso enorme.
- Sì, ma non sono un granché - rispondo, facendo spallucce.
- Fammi sentire qualcosa! - esclama, battendo le mani. Sembra un bambino. Ed è la cosa più dolce che abbia mai visto. No, fermo. Non devo. Non posso.
- Io… Magari dopo, okay?
Annuisce e si siede sul ciglio del letto. Mi siedo accanto a lui, con il quaderno di francese tra le mani sudate.
- Bene, cos’è che non hai capito? - inizia, aprendo anche il suo libro.
- Uhm… Tutto?
Ride, prima di avvicinarsi di più per guardare sul mio quaderno.
Le nostre teste quasi si toccano mentre lui cerchia un verbo che ho sbagliato in un esercizio.
- Qui ci voleva l’imperativo e tu hai messo il passato - mi spiega, indicando la frase.
- Oh - riesco a dire, cercando di non morire. Difficile quando hai il profumo dello shampoo di Brendon Urie che ti entra dritto nelle narici. Quando finalmente si allontana, riesco a concentrarmi. Devo ammettere che come insegnante non è niente male, anche se spesso mi sono distratto guardandolo gesticolare. O sorridermi.
Passano due ore, comunque, e ho imparato più francese di quello che abbia imparato in dieci lezioni.
Passano due ore e non ho pensato neanche una volta a quelle lame metalliche nascoste nel secondo cassetto del mio comodino.
- Ho bisogno di una pausa - dice poi, alzandosi e stiracchiandosi. Un lembo di pelle esce da sotto il suo maglioncino e io non riesco a non guardarlo. No, non devo. Non posso prendere una cotta per lui. Quando si accorgerà di quello che faccio mi abbandonerà. E mi lascerà di nuovo solo. È solo questione di tempo.
- I tuoi genitori sono al lavoro? - chiede poi, accorgendosi che la casa è completamente immersa nel silenzio.
- Mia zia dovrebbe tornare tra poco. Suppongo sia a fare la manicure o roba del genere. Sai, vivo con lei. I miei sono morti - gli dico, facendo spallucce.
- Oh, mi dispiace! - esclama, davvero dispiaciuto - Da… da quanto?
Si siede di nuovo accanto a me, guardandomi.
- Da due anni. Si sono schiantati mentre andavano a 120 all’ora. C-ci siamo schiantati. Io ero sul sedile posteriore.
Sorrido, guardando la sua espressione triste. È carino vedere qualcuno che si preoccupa per me.
- Mi dispiace così tanto - dice, accarezzandomi una mano. Contatto fisico. Tilt.
- Oh, stai tranquillo, è tutto a posto.
- Vorrei poter fare qualcosa per te , Ryan, davvero.
Mi accarezza il braccio, prima di aggiungere:
- La prossima volta vieni da me, okay?
Annuisco, con il cuore che mi batte forte.  
- Grazie, Brendon - gli dico, sperando riesca a cogliere almeno un po’ della mia gratitudine.
- E’ il minimo, sul serio - risponde, prima di regalarmi un altro dei suoi sorrisi meravigliosi.
Mi stringe per un attimo la mano, prima di toglierla velocemente.
No, non devo. Mi abbandonerà. Mi lascerà solo, come mia madre. Come mio padre. Come tutte le persone appena sanno che soffro di depressione e che ho dietro le spalle una situazione del genere. Lo farà, prima o poi. Non posso perdermi ancora nei suoi occhi, perché so che dopo saranno l’ennesima cosa che la vita mi toglierà.
- Mi suoni qualcosa? - mi chiede dopo un po’.
- Ti ho già detto che non sono un granché… Sei sicuro?
Annuisce, poi dice:
- Se tu suoni, io canto, okay?
Sorrido, mentre mi alzo per prendere la mia chitarra.
- Bene, cosa vuoi cantare?
- Uhm, non lo so. Tu cosa sai suonare?
- Ti piacciono i Fall Out Boy?
Mi rivolge un sorriso gigantesco, e io quasi svengo.
- Certo, non ho la voce di Patrick Stump, ma possiamo provare. “Sugar we’re goin’ down”? - dice poi.
- Okay - sorrido sedendomi accanto a lui, prima di imbracciare la chitarra e cominciare a suonare.
Gli faccio un cenno quando può iniziare a cantare.
“Am I more than you bargained for yet? I've been dying to tell you anything …”
La sua voce riempie tutta la camera ed è la fottuta cosa più bella che abbia mai sentito. È calda e… morbida, non so definirla bene, ma mi fa venire i brividi.
Mi fermo di botto e lo guardo esterrefatto.
- Sei il fottuto figlio illegittimo di Patrick Stump o cosa?
- Cosa?
- Hai una voce che… cazzo, Brendon, dove hai imparato?
- Il coro della chiesa vale? - sorride, incerto.
- Hai… hai la voce più bella che abbia mai sentito.
Sorride in un modo ancora più bello di tutti i precedenti messi insieme. Quasi gli brillano gli occhi.
Riprendo a suonare e lui riprende a cantare. Canto insieme a lui il ritornello, sperando di non rovinare il tutto. La voce mi trema e spesso sbaglio gli accordi, ma lui sembra non accorgersene. Continua a cantare e a sorridere.
“We’re goin’ down, down in an earlier round, and sugar, we’re goin’ down swingin’”  
Prende una penna che avevamo poggiato sul letto e comincia ad usarla come se fosse un microfono. Balla e si muove come se fosse una rockstar professionista, facendomi ridere e ridendo a sua volta. Mi fa ridere. Da quanto tempo non sentivo il suono della mia risata… anche lui se ne accorge e mi guarda.
- Dovresti ridere più spesso - mi dice, con il fiatone per essersi agitato tanto.
Arrossisco e poso la chitarra sul pavimento, mentre lo guardo gettarsi pesantemente sul letto, dove si stende con le braccia aperte, cercando di tornare a respirare normalmente.
Tanti pensieri non troppo casti mi attraversano la mente e cerco di allontanarli. È bello, lo so che lo è. Ma non posso. L’amore non esiste. E il sesso non è una cosa positiva. Entrare nel corpo di qualcun altro, lasciare che lui ti veda nudo e vulnerabile… no, assolutamente. Già sono abbastanza vulnerabile così, senza spogliarmi.
Mi stendo accanto a lui, a pancia in su, guardando il soffitto. E poi, anche se cedessi alle mie tentazioni, non è detto che lui ci starebbe. In effetti sono quasi sicuro che scapperebbe via urlando.
Si gira verso di me e mi sorride di nuovo. No, non posso. Non devo.
Si mette su un fianco, senza smettere di guardarmi.
Vorrei dire qualcosa, ma non ne ho il coraggio. Mi volto anche io e adesso ci troviamo faccia a faccia. Non siamo molto vicini, anche se vorrei tanto poter sentire il suo respiro. Mi copro le mani con le maniche del maglione e non riesco a guardarlo negli occhi.
Io ho paura. Lui sorride.
Allungo una mano e gli sfioro il viso. Sto tremando. Ho paura. Il suo sorriso si allarga al contatto e il mio cuore accelera. Gli intreccio le dita tra i capelli, gli sfioro l’orecchio e gli zigomi. Lui socchiude gli occhi, lasciandomi fare. Arrivo alle guance e poi alle labbra morbide, desiderando con tutto me stesso di poterle baciare, mordere, farle mie. Ma no, non posso. Non devo. Assolutamente no.
Si avvicina a me, così tanto che le nostre gambe si toccano e tra i nostri petti c’è a stento un palmo di distanza. Ho paura.
La mia mano è ancora sulla sua guancia. Stavolta non sorride, mi guarda in silenzio, il suo respiro caldo che mi finisce sulla pelle. Brividi. Brividi e paura.
Visto da così vicino è maledettamente bello.  Mi avvicino di più, anche se il mio cuore minaccia di scoppiare.
Metto la mia fronte contro la sua, ormai le nostre labbra sono così vicine che posso sentire il suo fiato sulla mia bocca. Ma non posso farlo. Non devo farlo. Se lo bacio sarà la fine. La voce del mio cervello continua a darmi migliaia di motivi per non farlo. Ma io, per una volta, non lo ascolto. Ho paura. Ma mi sporgo verso di lui e lascio che le nostre labbra si incontrino. È un contatto dolce e umido, che dura pochi secondi. Giusto il tempo per pentirmi di quello che ho appena fatto. Mi metto seduto sul letto, alzandomi di botto. Con il viso tra le mani, ripenso al danno irreparabile che ho causato. Non avevo mai lasciato che qualcuno si avvicinasse a me così. Per un attimo ho abbassato le difese e quell’attimo è stato sufficiente a demolirmi. Mi merito dieci, venti, trenta tagli. Profondi tagli. Devo far scivolare via la paura, liberare la mente, concentrarmi sul dolore. Niente più Brendon.
Si alza anche lui e si mette accanto a me.
- Va… va tutto bene - sussurra, accarezzandomi un braccio.
- No! Non va niente bene! - urlo, alzandomi in piedi e mettendomi di fronte a lui. Non può capire. Nessuno può.
- N-non è successo niente, dopotutto - dice lui, mortificato.
Sospiro e mi passo una mano tra i capelli. Non dovevo farlo. Forse è già troppo tardi.
- Scusa, è colpa mia. Dimentica tutto, okay?
Mi guarda per un attimo, prima di alzarsi in piedi.
- No.
- Eh?
- Io non dimentico proprio niente! - grida, guardandomi minaccioso.
- Non…
- Ho aspettato cinque fottuti anni per un mezzo bacio schifoso, Ryan Ross! E di certo non lo dimentico!
Si siede sul letto con le braccia incrociate e la fronte aggrottata.
Cinque anni.
Lo guardo perplesso, la bocca semiaperta e il cuore che ha ripreso a battere come non mai.
- C-cosa?
Si morde le labbra, continuando a non guardarmi.
- Sono cinque anni che aspettavo questo momento, Ryan. Forse non ci credi, ma mi piaci da sempre. E tu, proprio la volta in cui ho trovato un po’ di coraggio e sono riuscito ad avvicinarmi, cosa fai? Ti tiri indietro?
Le sue parole mi trafiggono. Non è possibile. Io non posso piacere a nessuno. Mi sta prendendo in giro, solo perché gli faccio pena.
- Io… io non posso piacerti… - riesco a dire.
Facevo bene ad avere paura.
- Io non posso piacere a nessuno - bisbiglio. Mi siedo sulla moquette, prendendomi le ginocchia tra le braccia.
- Non posso piacere a nessuno, t-tantomeno a te. Sono p-pazzo, diverso, anormale. P-perché non scappi?
Le lacrime mi cadono calde sulle guance, sento il petto scosso dai singhiozzi.
Brendon mi guarda, spaventato.
- Su, vattene via! Scappa! T-tanto se non lo fai adesso, lo farai tra p-poco!
- Io non vado da nessuna parte - bisbiglia, inginocchiandosi accanto a me.
- S-sono pazzo.
- Non lo sei - ribatte, spaventosamente serio.
- Nessuno potrà mai amarmi, nessuno - continuo a piangere, il volto nascosto tra le mani.
- Certo che qualcuno può farlo… io - mi accarezza i capelli, cercando di calmarmi.
Ma non devo credergli. Non posso. Resterò ferito.
- Non illudermi! - urlo, allontanandolo. Mi alzo di nuovo, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano.
- Io sono un pazzo, Brendon! Un malato! Guarda! Guarda cosa mi faccio!
Devo farlo. Devo mostrargli chi sono davvero. Così può odiarmi già da subito. Così può scappare via da questo pazzo finché è in tempo.
Apro con rabbia il cassetto del comodino e prendo una delle mie lamette sporche di sangue. Brendon mi guarda con gli occhi sgranati e un’espressione spaventata dipinta sul volto. Non posso piacergli davvero.
Mi alzo la manica del braccio sinistro e lo vedo sobbalzare quando scopro tutti i tagli.
- Ryan, cosa..?
Non lo lascio finire. Con un colpo secco e deciso mi procuro un taglio decisamente profondo.
- Fermati! - urla lui, fiondandosi su di me.
- Guarda cosa faccio! - il sangue scorre lungo la mia pelle, fino a macchiare il pavimento. Sento il dolore e il bruciore crescere e un senso di angoscia mi prende il cervello, fino ad indolenzirlo e a farlo smettere di pensare.
Anche Brendon piange. Mi prende il braccio sfregiato, sporcandosi la mano del mio sangue. Afferra il rasoio che tengo nella mano destra e lo lancia lontano contro il muro della stanza.
Guarda prima le ferite e poi me, c’è tristezza pura nei suoi occhi.
Non mi chiede perché. Non mi chiede da quando. Non mi chiede se ne ho mai parlato con qualcuno. No. Le uniche parole che pronuncia mi fanno più male dei tagli.
- Sei uno schifoso egoista, Ryan. Credi di fare del male solo a te? Ogni ferita su questo fottuto braccio è come una coltellata per me.
Mi guarda fisso negli occhi.
- E io che credevo che tu fossi degno di stima. Pensavo che fossi un esempio da seguire. I tuoi genitori sono morti, eppure tu… tu sembri uno che sa affrontare la vita. Invece…
Tira su col naso, prima di lasciarmi il braccio.
- Scusa - bisbiglio, senza sapere per quale delle mie numerose colpe lo sto facendo.
- E’ con te stesso che devi scusarti, non con me.
Ho paura, ancora una volta. Ma stavolta, ho paura che vada via.
Scoppio a piangere e mi aggrappo a lui, senza fregarmene che probabilmente gli sto sporcando tutto il maglione. Lui mi stringe forte e mi accarezza i capelli. Lascio che le lacrime portino via tutto.
Io non sono pazzo, non sono anormale. Ho solo bisogno di essere amato. Io non sono pazzo. Sono solo stanco. Stanco del fatto che ho smesso di credere nelle cose belle della vita prima ancora che me ne accadesse una. Sono stanco di non sorridere. Sono stanco degli antidepressivi, dello psichiatra. Sono stanco di farmi del male.
Brendon mi culla piano tra le sue braccia, senza dire nulla.
- Giura che non lo farai mai più. Giuramelo - mi dice poi, lentamente.
Annuisco, prima di bisbigliare un “Te lo giuro” soffocato nel suo collo.
Lo guardo per un attimo, prima di sporgere la testa verso di lui e provare a baciarlo. Provo. Lui si tira indietro, con un sorrisino.
- No, non adesso. Sei sconvolto.
Sono esterrefatto, ma non dico nulla. Comunque, lui continua a tenermi stretto. E questo, per adesso, basta.
Mi da un bacio sulla fronte, poi mi prende per il polso.
- Dov’è il bagno? Dobbiamo darci una ripulita - chiede, tranquillamente.
Lo conduco in silenzio in fondo al corridoio e lui mi tira verso il lavandino. Prende il mio braccio e lo mette sotto l’acqua fresca. Brucia.
- Dovremmo disinfettarlo - dice, tra sé e sé.
- E’… è tutto nell’armadietto - rispondo sottovoce.
Il fatto che continui a non darmi del pazzo mi spiazza. Non mi sta accusando. Non mi sta insultando. Mi sta aiutando. Non l’ha mai fatto nessuno.
Senza lasciarmi, si allunga verso il mobiletto dei medicinali. Prende disinfettante e garze, poi mi guarda.
- Brucerà un po’.
È… non so definirlo. Sa quello che mi faccio, eppure mi avvisa che sentirò dolore. Annuisco, lui mi prende il braccio e lo sciacqua di nuovo. Stappa la bottiglia di disinfettante con i denti e, tenendo il tappo in bocca, comincia a mettermene un po’ sui tagli nuovi. Sarebbe più facile se usasse entrambe le mani, ma sembra non avere intenzione di lasciarmi il polso. E a me va bene così.
Brucia terribilmente. Strizzo un po’ gli occhi, ma non mi lamento.
- Ecco fatto - dice, sorridendo lievemente, dopo avermi fasciato il braccio.
- Grazie.
Restiamo in silenzio per qualche minuto, mentre lui si guarda le dita ancora macchiate di rosso. La mano che tiene stretta intorno al mio polso destro comincia a sudare, ma sembra non importargli. Ricomincio a piangere. Mi sento umiliato. Non da lui. Da me stesso.
- Vieni qui - dice piano, notando le lacrime sulle mie guance.
Mi tira verso di sé e mi abbraccia di nuovo. Mi tiene stretto e io lo lascio fare. Mi sento protetto. Non mi sento pazzo. Mi sento bene.
Mi da un bacio tra i capelli, mi accorgo che sorride.
- Andrà tutto meglio, vedrai - mi rassicura e io annuisco. Andrà tutto meglio. Sarà così se lui non andrà via.
Si stacca e si lava le mani. Non sembra schifato. Non sembra impaurito da me.
Si guarda per un attimo allo specchio e si accorge di avere tutta la spalla del maglioncino grigio macchiata di sangue.
- Credo dovrai prestarmi qualcosa o mi prenderanno per un macellaio - la sua risata rimbomba tra le pareti del bagno - o peggio, per un assassino!
Sorrido anche io e riesco a dire un “certo”, mentre mi asciugo la faccia con il dorso della mano.
Torniamo in camera mia, stavolta non mi tiene per il polso. Stavolta mi ha preso per mano. Ha intrecciato le sue dita alle mie. Lui non sembra farci caso, ma a me, questo semplice gesto, è sembrato… stupendo?
Le mie mani sembrano enormi confrontate alle sue. Ma le sue sono decisamente più forti. Tutto in lui, in verità, sembra essere più forte di me.
Nota che sto guardando le nostre mani e mi sorride. Anche io sorrido.
Quando me la lascia, per raccogliere le sue cose, sento un improvviso senso di freddo. Ma non dico nulla. Mette tutti i libri nella borsa, poi mi guarda.
- Perché non andiamo a fare un giro?
Sorride. E io dico di sì, anche se tutto quello che vorrei è stare rannicchiato contro di lui per ore. Forse per giorni. Forse per tutta la vita.
Con quel sorriso sembra che non sia successo nulla. Sembra che non abbia visto niente e che abbiamo passato tutto il pomeriggio a studiare francese. Sorride, come se non gli importasse nulla di quanto la mia vita sia sbagliata, di quanto io sia sbagliato.
Mi fa sentire come se non fossi pazzo. O anormale. Mi fa sentire bene.
Gli passo una felpa nera con la zip. È la mia preferita.
Senza dire nulla si sfila il maglione e se la mette. Gli sta un po’ troppo aderente forse, ma wow. Su di lui non sembra nemmeno la mia.
- Lascialo qui - gli dico, indicando il maglione che sta infilando nella borsa - Se lo vedesse tua madre le verrebbe un colpo.
- Oh, grazie - risponde, poggiandolo sul letto.
Usciamo di casa in silenzio.  Tutto quello che sento è il mio cuore, che batte sordo ad una velocità a cui non è abituato.
 
Camminiamo per un po’ e io ho paura. Non esco mai, se non per andare a scuola. Non affronto mai le persone. La mattina è troppo presto e di pomeriggio è un orario morto. Non c’è mai nessuno. Ma adesso ci sono tante persone in giro.
Comincio a sentire il panico aumentare.
Perché non siamo restati a casa? Al sicuro, nella mia stanza, nessuno può farmi del male. Nessuno che non sia io può giudicarmi. Ho paura. Sembra che tutti guardino me. Sembra che tutti sappiano. Comincio a fare fatica a respirare. Mi viene da piangere.
Brendon parla, ma io non ascolto. Brendon parla, ma la sua voce non arriva alle mie orecchie.
Ho paura.
Mi fermo. Mi guardo intorno smarrito. Non dovrei essere qui. Dovrei essere in camera mia.
Ho paura.
- Ryan? - la voce di Brendon è spaventata.
- Ho paura - dico piano, cercando di respirare.
- Di cosa? - mi chiede, avvicinandosi. I suoi grandi occhi scorrono febbrilmente sul mio viso, ha paura anche lui. Ha paura di me. O forse ha paura per me.
Non rispondo.
Ho voglia di scappare. Ma se scappassi adesso, lui verrebbe con me? Se scappassi adesso, lui mi considererebbe pazzo?
Ho voglia di piangere. Ma se piangessi adesso, lui mi consolerebbe come ha fatto prima? Se piangessi adesso, si vergognerebbe di starmi accanto?
- Mi… M-mi terresti per mano? Per favore? - chiedo flebilmente, senza riuscire a guardarlo.
- Non c’era bisogno di chiederlo - sorride di nuovo e intreccia le sue dita alle mie.
Qualcuno ci fissa, ma adesso non mi interessa.
Mi sento meglio.
Stringo forte la mano intorno alla sua. Cerco di fare mia un po’ della sua forza.
Brendon non parla più. Sta canticchiando qualcosa, guardandosi le scarpe. È così bello. Come può uno come lui provare qualcosa per uno come me? Sono un fallimento completo. Eppure a lui non interessa.
- Va meglio? - mi chiede dopo un po’, sorridendo.
- Sì… Grazie - sorrido anche io. Il calore che parte dalle nostre mani si propaga per tutto il mio corpo. Mi sento bene.
Arriviamo al parco, mentre il sole tramonta dietro i palazzi e l’aria diventa pian piano più fresca. Per tutto il tragitto non mi ha lasciato la mano neanche per un secondo.
Ci sediamo su una panchina e lui si mette a giocherellare con le mie dita con aria distratta. Guarda il cielo e sorride. Ci vuole così poco per farlo ridere… il sole, una canzone, io.
Come può provare qualcosa per me?
Con quel sorriso, con quegli occhi, potrebbe avere chiunque. E invece ha scelto me. Il depresso. Quello che si taglia i polsi un giorno sì e un giorno no.
Si tagliava. Gliel’ho giurato.
Comunque, sono felice che sia qui. Sono felice che mi tenga la mano. Sono felice che non sia scappato. Sono felice che non si sia vergognato di me.
- Brendon…
- Si? - si gira, mi guarda, sorride.
- Posso chiederti una cosa?
- Certo - risponde, tranquillo.
- Perché… Perché lo stai facendo?
- Facendo cosa?
- M-mi stai aiutando… Insomma, non… Non me lo merito.
Non riesco a guardarlo. Ho paura. E se dicesse “è vero” e se ne andasse? Se mi lasciasse solo?
- Ryan. Ryan, guardami.
Obbedisco. Ho paura. I suoi occhi sembrano più chiari al sole.
- Nessuno merita di soffrire, ma tutti meritano di essere aiutati. Tu sei… io lo so che tu sei una persona forte. È solo che non lo sai ancora.
Mi stringe la mano nella sua, poi guarda avanti a sé.
- E poi… te l’ho già detto. Sto ancora aspettando il mio bacio.
Sorride, arrossendo lievemente.
- Sei… Sei bellissimo quando sorridi, te l’hanno mai detto?
Sento la mia voce pronunciare questa frase senza che possa fare niente per fermarla. Avrei dovuto dire qualcosa di sensato, ringraziarlo magari. E sono riuscito solo a fargli uno stupido complimento. Sono un idiota.
Le sue guance diventano scarlatte e si guarda i piedi, imbarazzato.
È davvero bellissimo, non posso farci niente.
- Grazie, comunque - continuo, cercando di riparare.
- Per non essere scappato, intendo. Sei rimasto con me. Non mi hai giudicato. Io… io vorrei poterti ripagare, ma davvero, non saprei come. Era più di un anno che non… che non uscivo di casa, se non per andare a scuola. Sei riuscito a tirarmi fuori, senza che mi succedesse niente.
Mi guarda, ma non dice nulla.
- E… Ho paura, cazzo, ma tutto sembra migliore con te. Mi… mi sorridi e va tutto bene. Non riesco a capire come uno come te possa voler stare accanto ad un disastro come me, ma tu lo fai. E a me va bene, perché sei la cosa più bella che mi sia capitata in tutta la mia schifosissima vita. Non so se tu sia un fottuto angelo o cosa, so solo che in poco tempo mi hai aiutato come il mio psichiatra non è riuscito a fare in due anni merdosi.
- Ho… ho paura, okay? Ma non è del mondo che ho paura quando tu sei con me. Non ho paura degli altri. Ho solo paura che tu vada via.
Ho di nuovo le lacrime agli occhi e non riesco a guardarlo.
- Hai parlato più adesso che nelle ultime due settimane, sai?
Sorrido e credo lo stia facendo anche lui. Mi lascia la mano e il mio cuore fa un tuffo. Almeno fino a quando non mi mette entrambi i palmi sul viso e gira la mia testa verso di sé.
- E, per la cronaca, io non vado da nessuna parte - dice piano, poggiando la sua fronte contro la mia.
Stringo la sua (mia) felpa tra le dita, ma non mi muovo. Stavolta è lui a mettere le labbra sulle mie. Delicatamente, ma senza paura. Sono leggermente aperte, calde e morbide. Chiudo gli occhi e lui mi mette una mano tra i capelli, tirandomi ancora di più a sé. Intorno a noi tutto sparisce. Noi. Fa una strana sensazione pensarlo, ma è bello.
Ho paura. Paura che tutto questo finisca.
Fa scorrere l’altra mano lungo la mia guancia, fino a farla arrivare sotto il mio mento.
 Sto tremando. Non ho mai baciato nessuno. Ho paura di sbagliare tutto.
Lui sorride, me ne accorgo. Devo essere proprio patetico.
Infila delicatamente la lingua tra le mie labbra ed è una sensazione strana. Sento il suo sapore ed è… bellissimo. Cerco di imprimerlo nella mia memoria, anche se spero che questo non sia il primo e ultimo bacio tra noi.
Apro di più la bocca e lascio che la sua lingua si muova contro la mia, piano, con dolcezza. Sento il cuore pulsarmi nelle orecchie, l’aria fresca pungermi il collo e le sue mani bollenti sulla pelle. È una sensazione così bella che non mi sembra reale. Non può stare succedendo a me.
Ogni tanto sorride, sorrido anch’io.
Sta sorridendo anche quando si stacca da me, lasciandomi un altro piccolo bacio sulle labbra.
Ne voglio ancora. Ma non glielo dico.
- Non chiedermi di dimenticare anche questo - dice, mettendomi le braccia intorno al collo e stringendosi a me.
Gli cingo la vita e immergo il naso nei suoi capelli.
Perfetto. Lui è perfetto. Questo momento è perfetto.
Sento il suo cuore contro il mio petto, confondo il suo battito con il mio. È una sensazione nuova non sentirmi solo. È una sensazione nuova non sentirmi inutile.
Gliel’ho giurato. Non mi farò mai più del male. Ma lo faccio per lui, non per me. Se questo serve a farlo sorridere, anche solo per un attimo, posso dire che la mia vita ha uno scopo, un senso.
Comincia a fare freddo. Me ne accorgo perché lui rabbrividisce ogni tanto. Io sto benissimo, ma la felpa che gli ho dato non è calda come il mio maglione e siamo usciti senza giacca.
Lo stringo più forte, cercando di scaldarlo.
- Forse dovremmo tornare - dico, a malincuore. Ma non voglio che si ammali. Io ho bisogno che lui stia bene. Ho bisogno che lui stia con me.
Annuisce, sciogliendosi lentamente dall’abbraccio.
Mi guarda di nuovo, prima di alzarsi, e mi da un altro bacio sulle labbra. Perfetto.
Mi alzo anche io e gli prendo la mano. Sembra felice di questa mia iniziativa. Anche io lo sono.
Camminiamo lentamente. Non so cosa dire.
- Ti accompagno a casa, okay? - mi dice.
Non voglio che vada via. Voglio che resti con me.
Voglio baciarlo, abbracciarlo e sentire che va tutto bene. Voglio dimenticare la mia vita non con il dolore, ma tra le sue braccia. Non voglio sentirmi di nuovo solo.
Casa mia non è mai sembrata così vicina.
Ma devo essere ottimista. Lo rivedrò domani. Anche se stanotte sarò di nuovo solo e tormentato dagli incubi. Domani lo rivedrò.
- Resta a cena con me - gli chiedo, quasi implorante.
- Mi dispiace, Ry… - è il primo che mi da un nomignolo e questa cosa mi fa sorridere. Soprattutto perché sembra che non l’abbia fatto consapevolmente - Ma mia madre avrà già preparato da mangiare…
- Non preoccuparti - rispondo, deluso.
Arriviamo davanti casa mia e noto che le luci sono spente. Bene, non è ancora tornata.
Ci fermiamo davanti al vialetto e mi guarda per un attimo, tenendomi entrambe le mani.
- Hey, ascolta. Domani è venerdì  e io mi chiedevo se… insomma… - sembra nervoso ed è così bello, tutto imbarazzato, che non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
- Mi stai chiedendo di uscire con te? - Sorrido, mordendomi le labbra.
- Sempre se vuoi - aggiunge, senza guardarmi.
Come può solo lontanamente pensare che possa dirgli di no?
Gli lascio le mani e metto le mie sui suoi fianchi, tirandolo verso di me. Gli copro le labbra con le mie e lui mi mette le braccia intorno al collo. Sorrido, quando mi accorgo che si sta alzando sulle punte dei piedi. Stavolta il bacio è più veloce e disordinato di prima, le nostre lingue sono un groviglio frenetico e io mi ritrovo a dovermi staccare per riprendere fiato.
- Lo prendo per un sì - ansima, con le labbra rosse.
Lo bacio di nuovo, cercando di approfittare al massimo dei pochi minuti che ci sono rimasta da passare insieme per oggi. Sento le sue dita scivolarmi tra i capelli e accarezzarli piano. Lo tengo così stretto che a stento respiriamo. Ma lui non si lamenta, e neanche io.
- Ci vediamo domani, allora - dice, guardandomi. Sembra preoccupato.
Annuisco. Ho paura.
- Non… ti prego, Ry, non fare stupidaggini, okay?
- Ho giurato.
Sorride, mi accarezza i capelli e, dopo avermi dato un bacio sulla guancia, si scioglie dalla mia stretta.
Si allontana piano, girandosi ogni tanto. Lo guardo sparire prima di rientrare in casa con il cuore pesante.
 
Ho passato una notte terribile. I soliti incubi in cui rivedo la carcassa della mia auto bruciare e sento le voci dei miei genitori che litigano pochi secondi prima dell’impatto si sono mescolati ad altri in cui Brendon mi ha dimenticato, o mi insulta, o racconta a tutti quello che ho fatto.
Mi alzo, sconfitto, quando il sole sta per sorgere. La prospettiva che tra poche ore lo rivedrò basta a farmi passare la voglia di usare la lama che scintilla sul pavimento dall’altro capo della stanza e che sembra chiamarmi a gran voce.
Spesso mi sono tagliato prima di andare a scuola. Il fatto di avere qualcosa da nascondere sembra rendere la giornata più eccitante, più vivibile. Il fatto di pensare “hey, peggio di così non può farti male nessuno” mi ha aiutato tante volte a trovare la forza per uscire di casa.
Ma ho giurato.
Raccolgo il rasoio dalla moquette, prendo anche l’altro che tengo nascosto nel cassetto e li butto nel cestino.
Ho giurato. L’ho giurato a lui.
Mi rifaccio il letto e, mentre sistemo le coperte, mi cade sui piedi qualcosa di grigio. Il suo maglione.
Lo raccolgo. Ne sento il profumo. È meraviglioso. Immergo il naso nella lana e socchiudo gli occhi, immaginando che lui sia ancora accanto a me.
Ancora poche ore, posso farcela.
Vado in bagno, sperando che una doccia mi aiuti a rilassarmi. Mi spoglio e mi guardo allo specchio.
Non capisco come uno come Brendon possa provare qualcosa per me. Odio il mio corpo. Il suo invece è… è perfetto. È la prima persona su cui la mia mente crea delle fantasie, anche se io non voglio. Ho paura del sesso. Non voglio che lui veda il mio corpo. Non voglio che mi veda ancora più vulnerabile. Non voglio che sia ancora costretto a guardare o a toccare i miei tagli.
Mi infilo sotto la doccia e lascio che l’acqua bollente mi scorra addosso.
Chiudo gli occhi. Cerco di riportare alla memoria quello che è successo ieri. I suoi baci, le sue braccia, le sue mani. Le sento ancora tra i miei capelli e sul viso. Le sento scivolare su di me. Vorrei ci fosse lui, non l’acqua. Ma no, cosa penso? Non riesco a impedirmelo.
Cerco di distrarmi, insaponandomi, ma va decisamente peggio. Non sono le mie mani a spalmare la schiuma. Sono le sue. Si muovono piano sul mio petto, sui miei capelli, sul mio stomaco. Riapro l’acqua, cercando di lavare via la sensazione. Ma ormai il mio cervello lavora da solo. Le mie (sue) mani scendono lentamente sul basso ventre senza che io faccia niente per fermarle. Non sono uno che si tocca spesso. Quando lo faccio, mi sento sporco. Il sesso è sbagliato. Ma adesso ne ho bisogno. Mentre l’acqua mi cade sulla schiena, comincio a toccarmi, quasi con timidezza. Il trucco, di solito, è fingere che il corpo non appartenga a me. Ma adesso è diverso. Sono le mani di Brendon. Appoggio una mano sulle piastrelle bagnate e con l’altra continuo ad andare su e giù, stringendo forte il pugno e mordendomi le labbra. Brendon. Lui non farebbe mai sesso con me. Non che io lo voglia, è chiaro.
Le sue mani si trasformano presto nella sua bocca. Accelero il ritmo. L’acqua mi scorre sulla schiena. È bollente. Brucia sui tagli. Stringo il pugno, lo muovo più forte. Non posso, tutto questo è sbagliato. Ma ora sono dentro di lui, Brendon è sudato, sopra di me. L’acqua brucia.
- B-Brendon - balbettò, mentre la mia mano si muove frenetica. Il suo corpo, le sue  labbra, le sue mani. Mi appoggio con la fronte contro le piastrelle, prima di lavarmi di nuovo. La mia pelle brucia.
 
Torno in camera con l’accappatoio e mi vesto in fretta. Se esco adesso è ancora possibile che non incontri quasi nessuno sulla via della scuola. Non ho Brendon a tenermi per mano, non adesso. Anche se lo vorrei con tutto me stesso. Come ogni giorno, prima di uscire, poso per un momento gli occhi sul portafoto che tengo sul comodino. Sembriamo quasi una famiglia vera, tutti sorridenti, al mare. Ricordo quel giorno come fosse ieri. Avevo tredici anni e papà ancora non beveva. Mamma era  riuscito a convincerlo e così avevano prenotato una casa al mare, per un paio di giorni. Ricordo ancora il momento preciso in cui ci facemmo scattare quella foto da un passante. Mia madre con il cappello di paglia e un sorriso splendido, io tutto pallido e magro, papà con la mano sulla mia spalla. Quella fu l’ultima estate in cui mio padre mi considerò suo figlio. L’ultima estate prima che scoprisse che fossi un “malato”. Solo qualche mese dopo, era già tutto precipitato.
Sospiro, prima di mettermi il giubbotto e uscire dalla camera.
In cucina mia zia è a tavola, con la sua solita tazza di caffè e la sua solita vestaglia di flanella sbiadita. Mi guarda senza dire una parola. Prendo una fetta di pane tostato e, bisbigliando un “ci vediamo”, esco in fretta di casa.
 
Non mi piace la vita da mia zia. In realtà non mi piace neanche lei. Mia madre la odiava. E anche lei odiava mia madre. C’era sempre stata questa sorta di competizione, questo asti tra loro. Mia madre era bella, intelligente, dolce. Mia zia magra e tutti libri. Mia madre avrebbe potuto avere chiunque. Mia zia inizialmente la invidiava per questo. Finchè mia madre non tornò a casa una sera, dichiarando che avrebbe sposato “quell’inetto che sicuramente l’aveva messa incinta, quella puttana”, citando le parole di mia zia. Quando sono morti io non avevo nessuno. Non ho mai conosciuto i miei nonni paterni e i parenti di mia madre erano troppo impegnati ad odiarla per preoccuparsi di me. E’ stato il giudice a decidere che sarei dovuto stare con lei. Io, personalmente, avrei preferito u n orfanotrofio. Non che mi tratti male, no. Solo che non mi ha mai rivolto una parola gentile, non mi ha mai chiesto come sto o se a scuola è tutto okay. Forse ha solo paura di quelle che potrebbero essere le risposte.
Cammino con le mani in tasca e la faccia immersa quasi completamente nella sciarpa.
Millesettecentoquarantatre passi.
 Li conto ogni giorno, tanto per avere qualcosa a cui pensare durante il tragitto. Tanto per non pensare alle persone che incrocio. Di solito ho paura. Chiudo gli occhi, sospiro.
Ne mancano ancora millesettecentodieci.
E se Brendon fa finta di non ricordare quello che è successo ieri?
Milleseicentottantadue.
Se dice che lo ha fatto solo perché gli ho fatto pena?
Milleseicentotrentasette.
Stringo forte i pugni, accelero.
Milleduecentoquattordici.
Vorrei solo che lui fosse qui con me.
Novecentosei.
E se oggi non venisse? Se mi lasciasse solo?
Ottocentoquarantaquattro.
E se avesse detto a tutti quello che faccio, quello che ho fatto davanti a lui?
Settecentoventicinque.
Vorrei poter avere la certezza che le mie paure siano infondate. Vorrei averlo accanto.
Cinquecentosessantotto.
Mi manca. Di già? Dio, sono patetico. Come ha fatto a diventare già così essenziale per me?
Trecentocinquantadue.
Ci sono quasi. Mi sento di nuovo solo. Ho paura. Il cuore batte forte, sento il sangue pulsarmi nelle orecchie.
Centottantuno.
Vedo la scuola in lontananza, c’è già qualcuno fuori, anche se mancano quasi trenta minuti alla campanella.
Dieci, nove, otto.
Le mani cominciano a sudare. Ho paura.
Sette, sei, cinque, quattro.
Ancora non c’è e io sono solo, come ogni mattina. Anche se oggi non sono sicuro di farcela senza di lui.
Tre, due, uno.
Varco il cancello, con un sospiro. Mi siedo sul muretto più distante dall’ingresso. Aspetto, con la solita paura che mi divora dentro.
Il cortile comincia pian piano a riempirsi. I miei occhi sono fissi sul cancello, aspettando di rivederlo. Di solito, di mattina, spero con tutto me stesso che arrivi presto l’ora di andare via. Adesso aspetto che arrivi lui. Stringo forte lo zaino contro il petto.
Finalmente, dopo altri cinque, interminabili minuti, lo vedo entrare. Si guarda intorno, forse mi cerca. Vorrei chiamarlo, fargli un cenno, ma sono bloccato. Se cercassi di attirare la sua attenzione, attirerei anche l’attenzione di qualcun altro. E non voglio assolutamente che questo accada.  Poi mi vede. Sorride.
Il mio cuore comincia a correre. Anche io vorrei farlo, ma resto inchiodato lì, a sorridere di rimando come uno stupido.
Comunque lui cammina velocemente verso di me, il sorrisosi fa sempre più ampio sulle sue labbra man mano che si avvicina.
È bello. E nonostante ci siano in cielo pesanti nuvoloni grigi, mi sembra che sia spuntato il sole. Il mio sole.
- ‘Giorno! - dice, fermandosi a pochi centimetri da me.
- Hey - rispondo, senza riuscire ad aggiungere altro. Vorrei baciarlo. Qui, davanti a tutti.
Noto con un sorriso che ha di nuovo la mia felpa. Si accorge del mio sguardo e arrossisce.
- Spero non ti dispiaccia se l’ho messa un’altra volta… - chiede, abbassando gli occhi.
- Puoi tenerla se ti piace - dico, combattendo con tutto me stesso contro la voglia e il bisogno di aggrapparmi a lui.
Sorride di nuovo, prima di guardarsi intorno con aria circospetta.
- Mancano ancora dieci minuti… Vieni con me - mi sussurra poi all’orecchio. Deglutisco, poi mi alzo. Lui fa strada.
Mi porta dietro l’edificio, davanti ad un’uscita di emergenza che nessuno usa mai, dove di solito gli altri ragazzi vanno a fumare durante le pause tra una lezione e l’altra. Adesso non c’è nessuno.
Una volta girato l’angolo mi prende la mano. La sua pelle è calda. Si guarda intorno di nuovo, prima di mettermi le braccia al collo, io gli stringo forte la vita e lo spingo contro il muro. Se qualcuno ci vedesse sarebbe una tragedia. Tutti parlerebbero di noi, quindi di me. Sarei al centro dell’attenzione.
Poi lo guardo negli occhi. Belli, profondi, luminosi. Tutto sparisce intorno a noi. Potremmo essere in mezzo ad una piazza affollata e non potrebbe fregarmene di meno. Mi sento forte quando lui è con me.
Mi accarezza i capelli, prima di far scivolare la mano dietro la mia nuca. Mi tira verso di sé, chiude gli occhi e mi bacia. È qualcosa di profondo e lento, lungo, da togliere il fiato. Il suo sapore ritorna prepotente a impadronirsi di me. Lui torna ad impadronirsi di me. Con una mano cerco la sua, la trovo, stringo le sue dita tra le mie.
- M-mi sei mancato - confesso, a corto di fiato, con le labbra ancora sulle sue.
- Anche tu - risponde, abbracciandomi forte. 
Resto stretto a lui per quelli che sembrano secoli. Il tempo è qualcosa di molto relativo quando sono in sua compagnia. Metto la testa nell’incavo del suo collo, anche se devo abbassarmi e la posizione non è delle più comode, ma wow. Il profumo, il suo profumo, che sento di solito quando sono con lui lì è decisamente più intenso. Potrei restare così per ore. Il suono della campanella ci riporta tristemente alla realtà.
Ci dirigiamo verso l’entrata, un po’ più rossi e accaldati di prima.
Lo guardo. È bellissimo. Come può uno come lui provare qualcosa per uno come me? Mi sorride. Io sorrido. Vorrei poter vivere solo di questo.
 
 
 
   
 
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