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Autore: Keitorin Asthore    19/04/2012    1 recensioni
[Altro personaggio: Burt Hummel]
Burt aveva capito che le cose dovevano cambiare quando il figlio di otto anni aveva guardato verso di lui, pallido e febbricitante, con un lampo di sfida negli occhi che erano così simili a quelli di sua madre.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kurt Hummel
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Glee appartiene a Ryan Murphy e alla Fox. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

La versione originale della storia appartiene a Keitorin Asthore e la potete trovare qui

SAY THAT SOMETHING

Un speciale ringraziamento a Ali (of-a-crescendo) per essere una fantastica beta.

I hope you understand

When I say that something

I want to hold your hand.

L’officina era il suo salvagente.

L’officina implicava che dalle otto alle cinque, dal lunedì al venerdì, era circondato da distrazioni. Il frullio degli elevatori, il ruggito dei motori, il clang di metallo contro metallo, il forte odore di olio per motori- tutto contribuiva a creare una piacevole nebbia di tempo che passava.

L’officina implicava che dalle otto alle cinque, dal lunedì al venerdì, poteva dimenticare tutto il resto.

Gli piaceva dimenticare mentre era al lavoro. Quando stava lavorando era facile mettere da parte i pensieri, lasciare ogni tipo di ricordo in un angolo. Il mondo era fatto di candele e nuove valvole.

E poi puntualmente ogni giorno alle tre e mezza, la porta si sarebbe aperta, la campanella sopra la porta avrebbe suonato e un’acuta voce infantile avrebbe gridato uno stanco saluto.

"Ciao, papà".

Burt alzò lo sguardo dal motore del Suburban a cui stava lavorando. Suo figlio di otto anni, pallido e piccolo per la sua età, entrò dalla porta principale dell’officina, con lo zaino azzurro decorato di sticker appeso a una spalla. "Ehi, ragazzino. Com’è andata a scuola oggi?".

"Bene" mormorò Kurt. Si diresse verso l’ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Kurt di solito non gli parlava quando scendeva dall’autobus. Di solito si ritirava nell’ufficio dell’officina e si sistemava alla scrivania a fare i compiti, la gambe troppo corte perché i piedi toccassero terra. Stava seduto lì fino alle cinque, quando l’officina chiudeva e gli altri meccanici andavano a casa. Burt non doveva mai richiamarlo perché fosse pronto ad andare. Kurt era come un orologio svizzero. Arrivavano le cinque in punto e Kurt era lì, zaino in spalla, sguardo fisso davanti a sé, pronto ad andare a casa.

Burt finì di rimpiazzare i fili dell’alimentatore del suburban e spostò la sua attenzione a una Dodge Status in disperato bisogno di un nuovo alternatore. Non notò nemmeno il tempo che passava finché uno dei meccanici non si schiarì la gola. "Burt, hai visto l’ora?".

Burt alzò lo sguardo verso i il grnade orologio con il quadrante rotto sopra la porta. "Oh" mormorò stupidamente. "No, ehm, non avevo visto".

Si girò verso la porta dell’ufficio. Era ancora chiusa. Kurt non era pronto ad andare.

"Ti fermi fino a tardi?" insistette Jake.

Burt si pulì le mani su uno straccio sporco e lo rigettò sul bando da lavoro. "No, no, me ne vado. Buona serata. Ci vediamo domani". Sistemò la sua postazione di lavoro, chiudendo con riluttanza il cofano della Stratus, e si diresse in ufficio.

"Ehi, Kurt, è ora di andare" disse alla scrivania vuota. Sbatté gli occhi e si guardò attorno.

Kurt non era alla scrivania. Era raggomitolato sul vecchio divano malconcio, quello che una volta stava nel loro soggiorno finché Mollie non l’aveva convinto a cambiarlo quando Kurt aveva tre anni. Lo zaino era ancora chiuso, abbandonato sul pavimento di fianco a lui, ma Kurt aveva in mano un libro, un piccolo dito che teneva ancora il segno. Il cuore di Burt si strinse alla vista del figlio addormentato.

Si chinò di fianco a Kurt e lo scosse gentilmente per la spalla. "Campione, svegliati. È ora di andare a casa".

Kurt si risvegliò lentamente, strofinandosi gli occhi con i pugni. "Dove sono?".

"Ti sei addormentato nel mio ufficio. Hai finito i compiti?".

Kurt si accigliò mentre si metteva in posizione seduta. "Non… oh, non ho cominciato. Dovevo leggere questo… e poi… ero molto stanco. Scusa, papà".

Burt gli diede una pacca sulla spalla. "Non preoccuparti. Andiamo a prendere la cena da qualche parte e portiamola a casa, così puoi finire i compiti, okay?".

Kurt annuì, infilando il libro nello zaino e alzandosi lentamente. Burt spense le luci e chiuse a chiave l’ufficio. "Allora, com’era la scuola?" domandò, tenendo la porta dell’officina aperta per fare uscire Kurt.

Kurt scrollò le spalle mentre Burt chiudeva, le mani chiuse attorno alle cinghie dello zaino. "Scuola".

Camminarono in silenzio fino al pickup in un angolo del parcheggio. L’aria era piuttosto fresca quella sera, ricordando loro che era ottobre e presto sarebbe arrivato l’inverno. Kurt appoggiò lo zaino per terra quando Burt aprì il furgone e si arrampicò dentro lentamente, ancora un po’ troppo piccolo per arrivarci senza difficoltà. Burt prese posto sul sedile del guidatore e accese il motore. "Cosa ne pensi del McDonald? Va bene?". Kurt alzò e abbassò una spalla, raggomitolandosi a palla dietro la cintura di sicurezza.

Burt fece una deviazione sulla via di ritorno, fermandosi abbastanza per ordinare un Big Mac per sé e chicken nuggets per Kurt. Kurt prese la borsa con la loro cena senza dire una parola, sistemandosela sulle ginocchia come se ci fosse abituato. E a essere onesti, a quel punto, era così. Burt non sapeva cucinare. Aveva provato. Era senza speranza. Burt accese la radio mentre tornavano a casa, il mormorio di una stazione country che alleviava il silenzio soffocante. Il furgone profumava prepotentemente di patatine fritte. A esser sinceri, Burt era un po’ stanco di fast food e cibi surgelati, ma non avevano davvero un’altra opzione. E Kurt non si era lamentato.

Kurt non diceva più praticamente niente.

Burt si fermò nel loro vialetto, le finestre buie della loro fredda casa vuota che li fissavano cupe. Prese da Kurt le borse con il cibo e le loro bevande- coca per sé, succo di frutta per Kurt. Mollie non gli lasciva mai bere nulla sé non succo di frutta o Sprite quando uscivano a cena. Diceva che avrebbe bevuto abbastanza soda quando fosse stato al liceo. Almeno riusciva a ricordarsi quello.

Kurt aveva già infilato la chiave nella serratura per quando arrivò al portico. Aveva fatto fare una copia di quella chiave per Kurt prima che cominciasse la quarta in agosto. In origine, aveva pianificato di mettere Kurt sull’autobus la mattina, andare al lavoro e tornare alle cinque. Kurt poteva entrare e passare un’ora e mezza, due ore da solo nel pomeriggio. Aveva senso in teoria. Ma non in pratica.

La prima settimana di scuola, Burt era tornato a casa ogni sera per trovare Kurt barricato nell’armadio della camera da letto principale, nascosto con un cartoccio di succo e la sua coperta, cercando di fare i compiti alla luce di una torcia. Aveva cercato di farlo ragionare, che se tornava dritto a casa e chiudeva le porte dietro di lui sarebbe andato tutto bene, ma non c’era nulla da fare. Kurt era troppo ostinato per dargli ascolto, e troppo ostinato per spiegare le sue azioni. Così aveva fatto un passo indietro, accettando di far scendere Kurt alla fermata più vicina all’officina e di farlo stare con lui. Non c’erano stati più problemi da allora.

Burt accese le luci e appoggiò la cena sul tavolo della cucina. "Forza, ragazzino" disse, indicando la sedia di fianco a lui. "Vieni qui e mangia".

Kurt sistemò lo zaino sul divano e si sedette per slacciarsi le scarpe. "Solo un secondo" disse, togliendo con attenzione le converse prima di andare a sedersi al tavolo.

Burt si piegò all’indietro contro la sedia e accese la televisione. Mollie era solita fare una scena ogni volta che cercava di guardare la partita mentre mangiavano (guardavano la televisione durante la cena solo la domenica sera quando la ABC dava cartoni della disney), ma era stanco ed c’era troppo silenzio e voleva davvero vedere la partita.

Kurt non protestò. Si dedicò in silenzio alla sua cena, staccando morsi di chicken nuggets e mangiucchiando senza convinzione. Le sue patatine erano ancora impilate di lato, intatte. "Non mangi le patatine?" commentò Burt. Kurt scrollò le spalle. "Posso trovarti qualcos’altro da mangiare se non è questo quello che vuoi".

"Va bene così" disse Kurt. Staccò un morso e scrollò di nuovo le spalle.

Burt si accigliò. "Ti senti bene, scooter? Ti comporti in modo strano".

"Mi fa male la pancia" confessò Kurt, sempre con occhi bassi.

"Scommetti che i tuoi insegnanti vi stanno già dando dolcetti di halloween" commentò Burt con un ghignò. "E so come diventi con quelle caramelle alla menta".

Kurt fece un mezzo sorriso di rimando. Burt si allungò e gli strinse il braccio. "Non devi mangiare se non hai fame. Vai di sopra e finisci i tuoi compiti, okay?".

"Okay". Scivolò giù dalla sedia e andò a prendere lo zaino, i piedi che facevano un debole pad-pad-pad mentre saliva le scale verso la sua camera. Burt sospirò, prese le patatine dimenticate di Kurt e si spostò in soggiorno per lasciarsi cadere sul divano.

Sapeva che le cose tra lui e suo figlio non erano buone come avrebbero dovuto essere. E dio solo sapeva quanto ci si era arrovellato sopra, cercando di capire cosa diavolo ci fosse che non andava.

Il problema era che arrivava sempre alla stessa soluzione ogni volta.

Mollie.

Mollie non c’era più.

Lei sapeva esattamente come gestirlo. Capiva Kurt molto meglio di quanto poteva fare lui. Era lei che li teneva insieme, con le cene del venerdì sera, giri di shopping per il ritorno a scuola, regole sulla televisione e confortanti rituali all’ora di andare a dormire.

Burt sospirò e alzò il volume della televisione.

La partita proseguì e lo risucchiò. Era così assorto che non notò quanto fosse tardi finché il punteggio finale fu registrato e la televisione cominciò a lampeggiare di pubblicità su "tra poco in seconda serata…".

Spense il televisione, scacciando la nebbia dalla testa. "Kurt? Hai finito i compiti?

Ci fu una pausa. "Uh-huh".

"Okay, ragazzino, ora di andare a letto" dichiarò Burt, gettando il comando sul divano. "Mettiti il pigiama e lavati i denti. Lo stomaco fa ancora male?".

Pausa più lunga. "Uh-huh".

Burt si grattò la nuca. "Beh, vai a letto, io… io ti porterò qualcosa".

Kurt non rispose. Burt sospirò e accartocciò i resti della loro cena a base di fast food in una borsa. Non aveva idea di cosa diavolo fare con un bambino malato. Quando Kurt era stato male prima, lui faceva le commissioni da Walgreens e al supermercato. Gli faceva delle sorprese con nuovi film da guardare e nuovi libri da leggere. Guidava allo studio del dottore. Mollie faceva il vero lavoro- convincere Kurt a prendere le medicine, tenere in ordine, cullarlo tra le braccia quando era esausto ma troppo nervoso per dormire.

Burt salì le scale lentamente, un senso di terrore crescente. Se solo la sua famiglia fosse stata in città; se avesse potuto chiamare qualcuno, sua madre o sua sorella o sua cognata per prendersi cura di Kurt… ma no, erano in Iowa e lui doveva fare qualcosa per Kurt adesso. Forse sarebbe andato tutto a posto. Forse una buona notte di sonno, un po’ di Pepto e il bambino sarebbe stato bene.

Sbirciò in camera di Kurt. Le luci erano accese e i compiti di Kurt erano ordinati in pila sulla scrivania, ma suo figlio non sembrava essere da nessuna parte. "Kurt?" chiamò, percorrendo il corridoio verso il bagno. "Ti stai lavando i denti?".

La porta del bagno era in parte aperta, ma Kurt non era al lavandino. Stava seduto sul bordo della vasca, infilato in uno sgualcito pigiama troppo grande. "Un momento, papà" disse, senza alzare lo sguardo. Si piegò sulle ginocchia, le braccia strette attorno allo stomaco.

Burt si accigliò. "Kurt, cosa succede?".

Kurt prese un respiro profondo, poi si lanciò improvvisamente in avanti, sollevano il coperchio del gabinetto appena in tempo per vomitare.

Burt lo fissò per un secondo, stordito. Kurt boccheggiò e vomitò di nuovo e Burt si sedette di fianco a lui, appoggiandogli una mano sulla schiena. "Va tutto bene" balbettò. "Va tutto bene".

Gli strofinò la schiena finché i conati non cessarono. "Ehi, ecco, campione. È stata piuttosto brutta. Ti senti un po’ meglio adesso?".

Kurt scosse il capo e si strofinò gli occhi umidi. "M fa male la pancia".

Burt sfregò il palmo contro la sua schiena. "È la prima volta che vomiti oggi?".

Kurt si morse il labbro. "Ho vomitato dopo ginnastica oggi. E la pancia mi fa più male quando mi muovo".

"Via a metterti a letto, ragazzino" disse Burt, dandogli una stretta alla spalla. "Ti prenderò la temperatura e ti darò qualcosa per lo stomaco. Va bene?". Kurt annuì. "Vuoi che ti porti?".

Kurt scosse il capo. "Ce la faccio". Si spinse in piedi dal bordo della vasca e tornò nella sua camera, a passi lenti e incerti. Burt lo seguì con lo sguardo, poi si alzò e si girò verso l’armadietto dei medicinali.

Decisamente non era buono con nessun malato, tanto meno con un bambino di otto anni malato. Non c’era modo che la cosa potesse finire bene. Poteva prenderla a piccoli passi, giusto? Controllargli la febbre. Dargli qualcosa per lo stomaco. Metterlo a letto. Non poteva essere così difficile.

Quando arrivò in camera di Kurt, lo trovò raggomitolato in posizione fetale sotto le coperte in modo tale che solo la cima della testa era visibile. "Forza" disse Burt, dandogli una pacca sulla gamba. "Siediti e apri la bocca".

Kurt ubbidì, prendendo il termometro in bocca e stringendosi le ginocchia con le mani. Burt si sedette di fianco a lui. I due Hummel si fissarono in silenzio finché il termometro non trillò allegramente e Burt lo prese dalla bocca di Kurt. "Hai la febbre" annunciò, fissando il display digitale. Kurt aveva la febbre a 38.5 e sapeva che era una brutta cosa. "Kurt, da quanto tempo ti senti male?".

Kurt si strinse nelle spalle. "Un po’. Ho preso le piccole pillole rosa che mi dava la mamma. Hanno aiutato un pochino, ma poi sono finite".

Burt sospirò. "Ti porterò un po’ di Tylenol e poi puoi andare a dormire. Penso che ci sia solo quello all’uva, però. So che non ti piace".

Kurt scrollò le spalle. "Non mi importa" disse, ritirandosi la coperta sulle spalle.

Burt si accigliò. A Kurt importava sempre. "E domani stai a casa da scuola" aggiunse prima di tornare in bagno.

Aspetta. Come poteva funzionare? Non è che potesse semplicemente non presentarsi in officina. Avevano bisogno di lui là. Ma Kurt era malato e se non poteva gestire due ore al pomeriggio da solo, di certo non poteva reggere un’intera giornata a casa da solo con la febbre mentre vomitava.

E probabilmente avrebbe dovuto portarlo dal dottore prima o dopo. Mollie portava sempre Kurt dal dottore quando stava male per più di pochi giorni. O forse a pronto soccorso. Ma probabilmente non stava così male da andare in pronto soccorso. Stava proprio esagerando a questo punto.

Tornò in camera di Kurt e gli tese due pillole al sapore di ciliegia. "Ecco, ragazzino, siediti e…".

La voce gli morì in gola. Kurt era rannicchiato sotto le coperte, con le ginocchia premute contro il petto e il viso immerso nel cuscino. Burt si sedette di fianco a lui. "Campione?". Gli sfregò la schiena. "Kurt, siediti e guardami".

Kurt ubbidì lentamente. Burt gli appoggiò una mano sulla fronte, strofinando la pelle morbida sopra il dorso del naso. "Devi parlare con me, ragazzino. Quanto male ti senti?".

"Male" sussurrò Kurt, circondandosi lo stomaco con le braccia. "Mi fa male la pancia. Vomiterò di nuovo".

"Dove ti fa male lo stomaco?" domandò Burt, sentendosi annaspare.

"Prima faceva male qui" rispose Kurt, indicandosi l’ombelico. "Adesso fa male sul fianco, tanto".

Burt gli sfregò la fronte, cercando di mettere insieme un abbozzo di piano e fallendo miseramente. "Okay. Okay, ragazzino. Forza. Andiamo a prendere la tua giacca".

"Perché?" gemette Kurt, cercando di liberarsi della presa del padre e tornare a sdraiarsi. "Voglio dormire".

"Non ancora" disse Burt, prendendolo per il braccio e tirandolo fuori dal suo comodo letto. "Andiamo al pronto soccorso".

Kurt aprì la bocca. "No! No, non ci voglio andare!".

Kurt lottò debolmente contro la presa di Burt. "So che odi il pronto soccorso, ma stai male. Ti porterò dal dottore e andrà tutto a posto".

"Non voglio andare" disse Kurt, cercando di svincolarsi e tornare di corsa nella sua camera. "No, papà, non ho bisogno di andare. Davvero. Sto bene. Sto bene, papà, sto bene".

Burt ignorò la crescente isteria nella voce di Kurt e gli passò il suo cappotto. "Mettiti questo. So che non ti piace, ma dobbiamo andare. Non vuoi stare ancora peggio, vero?".

"No, ma non ci voglio andare!".

Burt gli abbottonò il cappotto fino al mento e lo sollevò, decidendo di non ascoltare le lamentele del figlio. Bilanciò Kurt contro il fianco mentre prendeva le chiavi. "E le scarpe?" gemette Kurt.

"Non ti servono le scarpe, ti porterò io".

Trasportò Kurt fino alla macchina e lo sistemò nel sedile davanti, allacciando la cintura di sicurezza. "Resta solo seduto qui. Saremo all’ospedale in un momento".

Fece il giro fino al sedile del guidatore e entrò, accendendo il motore e il riscaldamento. Kurt si raggomitolò contro la portiera, con le braccia ancora strette attorno allo stomaco e i piedi infilati nelle calze sotto di lui.

Burt non lo biasimava per non voler andare al pronto soccorso. Non piaceva granché nemmeno a lui.

Osservò Kurt, sempre rannicchiato nel sedile del passeggere. "Come ti senti? Ancora male?".

Kurt annuì, senza alzare lo sguardo. Burt gli strinse il ginocchio. "Prendimi la mano" disse piano. "Stringi davvero forte ogni volta che fa male".

Kurt si attaccò alle sue grandi dita, la sua mano calda e asciutta contro la pelle del padre. La sua presa era sorprendentemente forte. Non credeva che un bambino così piccolo potesse stringere tanto forte.

Burt si mosse con facilità nel parcheggio, girando il volante con una mano, e si fermò in un posto libero. "Okay, siamo arrivati" disse in tono falsamente allegro. Kurt non rispose. Burt scese dalla macchina e gli slacciò la cintura di sicurezza. "Vieni qui, ragazzino".

Kurt si sporse appena verso di lui, alzando le braccia per essere trasportato. Burt lo sollevò e lo sistemò sul fianco, lasciandogli appoggiare la testa sulla sua spalla mentre lo portava attraverso il parcheggio.

Migliaia di ricordi tornarono in superficie mentre le porte scorrevoli si aprivano. Il pronto soccorso era come lo ricordava- quel profumo dolciastro, il continuo trillare del telefono, il pesante senso di sprofondamento alla base dello stomaco. Incosciamente strinse Kurt più forte mentre si avvicinava alla scrivania.

L’infermiera alzò lo sguardo. "Signor Hummel" fece sorpresa. "Non la vediamo da un po’. Cosa succede?".

Burt sbatté gli occhi. Sai di essere stato troppe volte al pronto soccorso quando le infermiere ti conoscono per nome.

"Kurt sta male" disse, sistemandosi il bambino sul fianco. "Probabilmente non sta male abbastanza per il pronto soccorso, ma non sapevo cosa fare".

"Oh, mi spiace sentirlo" disse l’infermiera. "Non si senti bene, tesoro?". Kurt si limitò a fissarla con occhi grandi come piattini, le dita che strisciavano verso la sua bocca. "Beh, cominciamo a riempire il suo modulo. Vedrò cosa si può fare per farlo avanzare in lista".

Burt tenne Kurt con un braccio e il portablocco con l’altro. Sistemò Kurt su una delle scomode sedie della sala d’attesa; il bambino tornò immediatamente a raggomitolarsi a palla. "Ti daranno un’occhiata in un momento, ragazzino" disse, accarezzandogli la cima della testa. Riempì il modulo, sollevato che riusciva a ricordarsi tutte le informazioni senza difficoltà. Secondo nome. Numero di previdenza sociale. Data di nascita. Allergie. Quello lo sollevò un pochino. Almeno poteva gestire quello. Aveva riempito tanto di quei cosi da poterlo fare dormendo.

Riconsegnò il modulo e si sedette di fianco a Kurt, allungando di tanto in tanto la mano per dargli una pacca sul ginocchio o sulla schiena. Kurt non si muoveva molto. Rimase semplicemente appallottolato di fianco a lui con il mento appoggiato contro il bracciolo.

"Kurt? Siamo pronti a vederti, tesoro".

Burt si alzò in piedi e prese Kurt in braccio. Poteva sentire il calore irradiare dalla pelle del bambino. "Lasciamo che il dottore ti dia un’occhiata. Loro sistemeranno tutto".

Appoggiò Kurt sul lettino e gli tolse il cappotto blu. Kurt tremò nel suo pigiama di flanella quando l’infermiera alzò lo sguardo dal suo modulo. "Allora, cosa c’è che non va?".

"Mi fa davvero male la pancia" rispose Kurt a testa bassa.

Burt gli massaggiò il retro del collo. "Ha vomitato un paio di volte e aveva la febbre a 38.5 quando siamo usciti. E gli fa male il fianco".

L’infermiera prese un termometro e glielo infilò nell’orecchio. "Hm, 39. Sei decisamente malato". La bocca di Kurt si abbassò. "Fammi dare un’occhiata allo stomaco. Sdraiati".

Kurt ubbidì e cominciò a fissare senza espressione il soffitto. L’infermiera gli slacciò i bottoni del pigiama e premette gentilmente sullo stomaco, appena sopra l’ombelico. "Fa male?" domandò. Lui scosse il capo. "Beh, dimmi se ti faccio male, okay?".

Kurt annuì. Burt osservò il suo viso con attenzione. Non sembrava giusto che un bambino così giovane fosse così bravo a mantenere un’espressione tanto neutra. L’infermiera tastò la pancia di Kurt in diversi punti finché non arrivò al suo lato destro. Kurt si lanciò improvvisamente in avanti, risucchiando l’aria così bruscamente che la voce gli uscì come un tremolante squittio. Burt mezzo-saltò giù dalla sua sedia, allungando una mano verso il figlio. Kurt gemette.

"Va bene, va tutto bene, sdraiati" lo tranquillizzò l’infermiera, massaggiandogli la spalla, e lui ricadde sul lettino. "Tesoro, ti dovrò mandare su in pediatria, okay?".

"Perché? Cosa c’è che non va?" chiese Burt.

"Il dottore deve dargli un’occhiata" rispose l’infermiera, sempre in tono calmo e rassicurante. Gettò un’occhiata in tralice verso Kurt, poi di nuovo verso di lui, come a dire, non spaventiamo il bambino. "Chiamerò le infermiere su in pediatria così potranno preparare una camera per lui. Vada pure, è al terzo piano".

Se ne andò, già passando in rassegna una nuova pila di fogli. Burt si piegò e prese il figlio tra le braccia, cullandolo come un bambino. Kurt tremava come una foglia, la pelle secca calda e febbrile. "Sistemeranno tutto" mormorò Burt nei suoi capelli. "Sistemeranno tutto".

Non aveva mai davvero notato quando leggero fosse Kurt. Era davvero piccolo per la sua età. E la maggior parte del bambino malati quanto lui si sarebbe lamentata e agitata senza posa. Kurt era solo silenzioso e immobile, con la fronte premuta nell’incavo del collo di Burt.

Non si dissero nulla nella camminata all’ascensore o nella saluta. Le piccole gambe di Kurt pendevano oltre il braccio di Burt, un calzino che gli scivolava giù dalla caviglia. Le porte dell’ascensore si aprirono per rivelare gli allegri muri gialli del reparto pediatrico, decorati con un murale di animali. Portò Kurt fino alla scrivania dell’infermiera, che alzò lo sguardo. "È lei il signor Hummel?" domandò. "Avevano detto che stava salendo". Si alzò in piedi, offrendo a entrambi un caldo sorriso. "Ecco, seguitemi".

Burt la seguì lungo il corridoio in una piccola camera. Il letto era ordinatamente rifatto con un set di lenzuola allegramente colorate, ma nulla poteva fargli dimenticare che era in un ospedale, che suo figlio era in un ospedale. Posò Kurt con attenzione.

"Okay, tesoro, il dottore sarà qui tra in un minutino" sorrise l’infermiera. Kurt cominciò a rannicchiarsi di nuovo in posizione fetale, ma lei lo colpì leggermente sulla schiena prima di girarsi verso una macchina dall’aspetto preoccupante. "No, no, no, sdraiati sulla schiena, tesoro".

Il medico, un uomo di mezz’età con rughe da sorriso attorno agli occhi, entrò nella stanza. "Salve". Tese la mano a Burt in una sicura stretta. "Son il dottor Meade. Mi pare di aver inteso che lo stomaco di qualcuno gli sta dando dei problemi".

Kurt sbatté giusto gli occhi verso di lui, leggermente confuso. "Kurt, ti faremo un’ecografia per vedere cosa c’è che non va dentro di te, okay?".

L’infermiera prese una bottiglia piena di gel blu. "Questo sarà un po’ freddo".

"Quale pensate sia il problema?" domandò Burt, strizzando gli occhi.

L’infermiera spruzzò un po’ di gel sopra la pancia nuda di Kurt, facendogli fare una smorfia. "Da quello che dice il rapporto dell’infermiera, sospettiamo un’appendicite" rispose il dottor Meade in tono calmo. "Di solito facciamo una TAC, ma è così giovane che abbiamo preferito l’ecografia".

L’infermiera fece correre con attenzione la sonda sopra la pancia piatta di Kurt, evitando di fare pressione sul lato sinistro. Il medico studiò lo schermo accigliato. Anche Burt lo fissò, ma tutto quello che riuscì a vedere fu un turbine nero e grigio.

"Ecco" disse il dottore all’improvviso, indicando lo schermo. "Ecco qua".

"Ecco qua cosa?" domandò Burt.

"È appendicite" rispose il medico. "Procediamo e portiamolo in chirurgia".

Tutto sembrò muoversi troppo velocemente. L’infermeria spinse via l’ecografo e il medico cominciò a scarabocchiare sui fogli di Kurt. "Lo porteremo in sala operatoria tra circa mezz’ora. L’operazione durerà probabilmente un’ora e mezza, due ore. Può aspettare in pediatria, signor Hummel".

Burt uscì dalla stanza come sonnambulo. La vocina che balbettava "Papà" quasi catturò la sua attenzione, ma non riusciva a sentirla.

Si abbandonò su una delle scomode sedie della sala d’attesa, la mente in subbuglio. Non stava accadendo. Non di nuovo. Non poteva farlo di nuovo.

Era rimasto seduto in talmente tante sale d’attesa durante la malattia di Mollie. All’inizio, allo studio del medico di famiglia, quando pensavano che avesse qualche forma cronica di gastroenterite, o decisamente meglio, che fosse incinta. Poi le visite al pronto soccorso. Visite dallo specialista. Visite lì, in quello stesso ospedale, nel reparto di terapia intensiva.

Ogni sala d’attesa era uguale. Stesse sedie scomode. Stesso odore di malattia, candeggina e medicine dolciastre. Il cesto di vecchie riviste. Quell’orribile ansia crescente mentre l’attesa si allungava sempre di più, di più, sperando di avere presto novità, qualunque novità.

Semplicemente non aveva pensato che sarebbe dovuto tornare di nuovo.

Quando Mollie era malata, era come se vivessero al Buon Samaritano. Aveva perso il conto del numero di volte che erano andati al pronto soccorso- a volte lasciando Kurt da un vicino, a volte portandolo con loro, piccolo, pallido e silenzioso nel sedile posteriore.

Il peggio era stato a febbraio. Dio, Burt avrebbe pagato una fortuna per dimenticare lo scorso febbraio. Era cominciato come una normale visita al pronto soccorso, per normale che potesse essere, e lei era rimasta… e rimasta… e rimasta.

Era stata una tortura. Ci era voluta tutta la sua forza di volontà per far alzare Kurt per la scuola, spendere la giornata all’officina, prendere Kurt da scuola e poi andare da Mollie finché Kurt non si addormentava tra le sue braccia. Tutte le sere Kurt lo pregava di far tornare sua madre a casa e tutte le sere Burt doveva portarlo via in lacrime.

Mollie aveva odiato restare in ospedale. Ogni minuto. Non aveva nulla da fare tutto il giorno tranne guardare la televisione o rileggere libri e riviste. A un certo punto durante il suo ricovero aveva detto a Burt che se non fosse stato per le visite di Kurt ogni pomeriggio, non sarebbe sopravvissuta.

Non aveva avuto importante. Non era sopravvissuta comunque.

L’avevano mandata a casa alla fine di febbraio con severe raccomandazioni di prendersi cura di sé stessa. Se fosse stata forte abbastanza per giugno, l’avrebbero potuta operare. Fintanto che non c’erano ricadute.

Mollie passò la maggior parte del suo tempo sul divano in salotto o sul dondolo nel portico posteriore, di solito con Kurt accoccolato in grembo mentre guardavano film o leggevano libri e mettevano su giochi elaborati. Facevano anche un sacco di sonnellini, con le guance rosee di Kurt premute contro quelle pallide di lei e un braccio di Mollie stretto attorno alla sua vita.

Burt non sapeva ancora se avesse volutamente scelto di ignorare i segnali o se fosse stata lei a nasconderli così bene. Avevano fatto dei piani, parlando del "dopo l’operazione" e "durante l’estate" e "in giugno". Aveva parlato di prendere un gattino a Kurt per natale e cercare di avere un altro bambino l’anno successivo.

Ma Mollie aveva continuato a scrivere lettere che chiudeva in una piccola scatola, lontano dalla sua vista. Spendeva ore e ore a fare album di foto, dei tempi del liceo, del matrimonio e di ogni prezioso scatto che avessero mai preso di Kurt. Lo aveva convinto a fare un viaggio a Disney World per l’ottavo compleanno di Kurt in aprile, anche se aveva pianificato di rimandarlo.

E poi lui aveva dovuto passare una notte a Columbus, per riconsegnare un’auto che aveva riparato. Mollie aveva promesso che sarebbe stata bene. Si sarebbe presa cura di Kurt, aveva detto. Avrebbero avuto una bella serata madre-figlio, solo loro due.

Avrebbe dovuto saperlo solo per il modo in cui l’aveva baciato per salutarlo, come si era attaccata a lui, braccia strette attorno al suo collo e volto nascosto nella sua spalla.

Era presto quando era tornato a casa la mattina dopo, con il sole che stava ancora sorgendo. Avrebbe dovuto tornare in mattinata, ma non aveva potuto sopportare di stare lontano un minuto di più. Qualcosa semplicemente… non era giusto.

La casa era silenziosa e pacifica, ma era un silenzio sbagliato. Andò per prima cosa nella sua camera da letto per controllare Mollie, solo per trovare il letto vuoto e le lenzuola ancora fatte. Così era andato in camera di Kurt.

Erano entrambi addormentati nel letto stretto di Kurt, fianco a fianco, i morbidi ricci di Mollie sparsi sul cuscino e le piccole dita di Kurt infilate in bocca mentre le succhiava piano. Burt si era piegato per baciare Kurt per primo, sorridendo per quando era dolce mentre stava dormendo, poi aveva baciato Mollie sulla fronte.

Se n’era andata.

Burt si piegò in avanti nella sedia, la testa tra le mani. All’improvviso gli piovve tutto addosso con orribile chiarezza. Il cigolio senza fine delle sedie a rotelle, il basso chiacchiericcio delle infermiere, il figlio di qualcuno che gridava come se soffrisse le pene dell’inferno… si fuse tutto insieme con il dolore di un solo terrificante pensiero.

E se avesse perso anche Kurt?

La sua mente se lo immaginò senza il suo permesso.

Niente più vocina acuta che gridava "ciao, papà".

Niente più giochi di plastica degli happy meal sparsi nel suo pickup.

Niente più piccole converse disposte fianco a fianco sul fondo dell’armadio.

Niente più manine da prendere quando si attraversava un parcheggio.

Nessuno da controllare nel mezzo della notte, nessuno a cui rimboccare le coperte o baciare dolcemente sulla fronte, nessuno che si intrufolasse nel suo letto e si nascondesse contro il suo fianco quando gli incubi diventavano troppo insistenti.

Burt fissò il pavimento, la mente in subbuglio. Negli ultimi sei mesi, da quando Mollie era morta, tutto quello a cui era riuscito a pensare era stata lei. Come vivere senza di lei. Quanto sentiva la sua mancanza. Come non potesse funzionare senza di lei.

In qualche modo aveva dimenticato che semplicemente non funzionare non era un opzione per lui. Aveva un bambino di cui preoccuparsi. Un bambino a cui mancava sua madre e che era così terrorizzato di rimanere solo da non sentirsi al sicuro nella sua stessa casa.

Il problema non era che Mollie se n’era andata.

Il problema era che lui non poteva lasciarla andare.

Non importava se non era bravo quando Mollie quando si trattava di essere un genitore per Kurt. Quello che importava era che Kurt aveva ancora un genitore, che c’era ancora qualcuno che avrebbe fatto del suo meglio per amarlo e capirlo e prendersi cura di lui.

Non era quello che importava alla fine di tutto?

"Signor Hummel?".

Sobbalzò sorpreso, quasi disorientato. L’infermiera della stanza di Kurt aveva posato una mano sulla sua spalla. "Signor Hummel, deve venire in camera di suo figlio. Dobbiamo portarlo in chirurgia e… sta avendo un discreto crollo".

Burt la fissò per un secondo prima di capire. Il bambino in fondo al corridoio stava ancora gridando e oh dio, quello era Kurt.

Saltò giù dalla sedia, quasi ribaltandola, e corse lungo il corridoio. Il medico stava cercando di calmare Kurt, ma Kurt era troppo sconvolto. Si era incurvato nel letto e appiccicato al muro, la maglia ancora slacciata e le braccia fermamente strette attorno allo stomaco. Il suo viso era diventato rosso accesso per il troppo pianto e le lacrime aveva creato segni umidi sulle guance.

"Kurt, devi…".

"No!" gridò Kurt, scagliandosi inutilmente contro il dottore. "No! Voglio la mia mamma! Voglio la mia mamma!".

Burt lo sollevò, ignorando il violento agitarsi di braccia e gambe. "Kurt, va tutto bene" disse, lottando per trattenerlo. "Kurt, ascoltami. Sono io. Sono papà. Va tutto bene".

Kurt si aggrappò alla sua camicia, affondando le unghie attraverso il tessuto fino al petto di Burt. "Voglio la mia mamma!" gridò, gettando la testa all’indietro e tirando calci. "Voglio la mamma!".

Burt lo strinse più forte, stringendolo e ignorando le fitte di dolore causato dalle graffiate isteriche di Kurt. "Lei non c’è" disse, baciandogli la cima della testa. "Non può venire e sistemare tutto, ragazzino, ma io ci sono. Sono qui, Kurt e non me ne andrò".

"La mamma se n’è andata" singhiozzò Kurt contro il suo petto. "La mamma se n’è andata, te ne andrai anche tu. Mi lascerai anche tu".

Burt lo cullò tra le sue braccia come faceva quando Kurt era solo un neonato e lui cercava di convincerlo a dormire. "Non ti lascerò, Kurt, non se posso evitarlo. Stttt, non piangere, ragazzino, sono qui. Sistemerò tutto".

Sapeva che Kurt non realizzò che intendeva davvero tutto- i rituali della buonanotte che erano stati messi da parte, le cene da fast food, il soffocante silenzio nella loro fredda casa. Ma lui intendeva questo. E la presa mortale di Kurt si rilassò. Smise di calciare. Le urla si affievolirono in rauchi singhiozzi.

"Sono proprio qui" gli sussurrò Burt nell’orecchio. "Sono tuo padre e mi prenderò cura di te, capito? Non devi più avere paura".

Kurt soffocò un singhiozzo, facendo scivolare le braccia attorno al collo di Burt, e si raggomitolò più vicino in grembo al padre. Burt lo abbracciò forte, realizzando con un sobbalzo che non solo Kurt era piccolo, basso e magro per la sua età, ma sembrava piccolo, con ossa leggere e pelle sottile e un’allarmante delicatezza che non sembrava giusta.

L’infermiera si schiarì la gola. "Signor Hummel, dobbiamo portarlo in chirurgia il prima possibile".

Burt premette la testa di Kurt sulla sua spalla, facendo scorrere le dita tra i suoi capelli morbidi mentre il bambino si lasciava sfuggire un mezzo singhiozzo. "Cosa posso fare?".

"Dobbiamo mettergli la flebo e fargli l’anestesia" disse il dottore, le braccia incrociate al petto.

"Può tenerlo mentre gli mettiamo la flebo" suggerì l’infermiera.

Burt annuì e strinse Kurt più vicino quando l’infermeria gli prese gentilmente il braccio. "Cosa sta facendo?" singhiozzò Kurt contro il petto del padre.

"Ti metteranno qualcosa nella mano per farti stare meglio".

L’infermiera tamponò la mano di Kurt e lui cercò di tirarla indietro. "Non mi piace. Papà, non mi piace. Alla mamma non piaceva".

"Lo so, ma ti farà sentire meglio" gli promise Burt. "Non puoi disidratarti o starai peggio".

Kurt strinse i denti quando l’infermiera infilò l’ago nel dorso della sua mano. Il suo intero corpo si tese tra le braccia di Burt, per quanto cercasse di calmare il bambino.

"Stai bene" ripeté. "Andrà tutto bene".

"Signor Hummel, abbiamo bisogno che si sdrai per l’anestesia".

"Cos’è?" domandò Kurt, a voce di nuovo acuta e tesa. "Papà?".

Burt gli baciò la cima della testa, respirando il profumo di baby shampoo mentre temporeggiava, cercando di mettere insieme una spiegazione che non lo spaventasse. "C’è qualcosa nella tua pancia che si è infettato e ti sta facendo male. Il dottore ti darà qualcosa per aiutarti a dormire così potrà tirarla fuori".

Kurt si aggrappò di nuovo alla camicia di Burt, le dita stretta in una presa serrata. "Sono malato come la mamma" disse con voce così inaspettatamente risoluta che fece fermare il cuore di Burt.

"No" disse Burt. "No, Kurt, non è così. Non sei malato come la mamma. Non lo sei. Starai bene". Premette la fronte contro quella del figlio. "Tu non morirai. Capito?".

Kurt lo fissò, gli occhi color dell’oceano di Mollie che brillavano sul suo viso pallido, e annuì lentamente. Sembrò rilassarsi un pochino nella stretta di Burt, stringendo le dita al colletto della sua camicia. Burt lo appoggiò sul letto dell’ospedale e gli appoggiò la mano sotto il mento. "Vuoi che ti tenga la mano mentre di addormenti?".

Kurt annuì, facendo scivolare la sua manina calda in quella più grande e ruvida di Burt. Burt fece un cenno all’infermiera, che si avvicinò con cautela e posò con attenzione la maschera sopra la faccia di Kurt. Dio, era così piccolo.

"Okay, tesoro, adesso conta all’indietro da dieci per me".

Burt gli strinse la mano. "Dieci" sussurrò Kurt, con voce attutita attraverso la maschera. Burt gli sorrise. "Nove. Otto. Se… sette. Sei. Cin…".

Gli occhi di Kurt si chiusero. Burt rafforzò la presa attorno alle dita del bambino. L’infermiera lo toccò piano sulla spalla. "Signor Hummel, se va fuori in sala d’attesa, lo portiamo in chirurgia. Le faremo sapere appena si sveglia".

"Sì" disse lui in tono assente, senza lasciare la mano di Kurt. esitò e scosse il capo. "Sì… solo… prendetevi cura di lui".

"È in buone mani, signor Hummel" disse piano il dottore.

Burt diede un’ultima forte stretta alla mano di Kurt prima di lasciarlo andare e uscire velocemente dalla stanza. Aveva guardato mentre mettevano Mollie in una barella per portarla in chirurgia; non voleva vedere anche il suo bambino in quella maniera.

Si sentiva un po’ stordito, a essere onesti. Disorientato. Non sembrava giusto semplicemente andarsene in quel modo quando suo figlio, il suo bambino, stava per essere operato.

Kurt non era piccolo. Aveva otto anni. Andava in quarta elementare. Ma dio, a volte tutto quello che riusciva a pensare era la notte di aprile in cui era rimasto seduto accanto alla moglie addormentata tenendo tra le braccia il figlio di poche ore e semplicemente ammirando quanto bello e perfetto fosse.

Kurt sarebbe sempre stato quel neonato per lui, realizzò, quella piccola cosetta vulnerabile avvolta in una copertina blu che lo fissava con occhi brillanti e solenni.

Senza realizzare cosa stava facendo, Burt si incamminò lungo il corridoio, le chiavi del suo pickup in mano. Aveva ancora due ore circa prima che Kurt uscisse dalla sala operatoria. Aveva tempo per questo.

Guidò fino a casa, premendo interruttori della luce finché non arrivò in camera di Kurt. Aveva ancora l’aspetto della nursery che Mollie aveva progettato quando era incinta, con muri azzurro cielo, tende bianche e una piccola lampada a forma di razzo spaziale. Burt prese una borsa e cominciò a riempirla con le cose di Kurt- l’orsacchiotto di peluche che aveva comprato il giorno della nascita di Kurt, la sua copertina blu, qualche libro, un paio di vestiti (chi sapeva cosa quel bambino pignolo avrebbe avuto voglia di indossare una volta finita l’operazione). Tutto quello che gli venne in mente.

In dieci minuti era di nuovo sul furgone, la borsa sul sedile del passeggero di fianco a lui mentre tornava in ospedale. La sua mente era fortunatamente tranquilla, fino al momento in cui passò attraverso le porte, la borsa di Kurt in mano, e il pensiero lo colpì all’improvviso.

Kurt stava bene? L’operazione era andata bene o c’erano state complicazioni? Si sarebbe svegliato nel bel mezzo di essa? Oh, dio, sarebbe stato così spaventato…

La stessa infermiera era seduta alla scrivania centrale in pediatria quando entrò; alzò lo sguardo e sorriso quando camminò verso di lui. "Oh, signor Hummel, eccola qui. Mi stavo chiedendo dove fosse finito".

"Come sta Kurt? Sta bene, vero?".

"Sta benissimo" lo rassicurò lei. "È in sala operatoria da un po’, ormai. Le faremo sapere appena lo spostano in una camera. Ha avvisato sua madre?".

"Sua… cosa? Ehm… no, veramente, sua, ehm… sua madre è morta sei mesi fa. Rettocolite ulcerosa".

"Oh. Oh, mi dispiace. Pensavo foste divorziati. Non avevo capito che era vedovo".

Vedovo. Odiava quella parola. Lo faceva sentire come qualche sorta di vecchia reliquia.

"Ce la caviamo, io e Kurt" disse. Strinse la mano attorno alle cinghie della borsa. "Mi farà sapere quando l’operazione è finita".

"Appena possibile".

Riluttante, tornò in sala d’attesa e si sedette su una di quelle scomode sedie, appoggiando il piedi contro un tavolino e spiegazzando la copertina di una rivista. Cominciò a sonnecchiare, la borsa posata di fianco a lui e le braccia incrociate al petto. Qualche volta si limitava a fissare il muro di fronte a lui, gli occhi che seguivano i contorni di una giraffa e un albero ancora e ancora, i colori dolorosamente brillante e troppo allegri.

Aveva sempre odiato le attese.

Gli sembrò che fosse passato un secondo quando l’infermiera venne da lui e gli diede una pacca sulla spalla. "Signor Hummel? Kurt è fuori dalla sala operatoria. L’hanno riportato nella sua camera e dovrebbe svegliarsi tra poco".

Burt balzò su dalla sedia e afferrò la borsa. Attraversò il corridoio fino alla stanza di Kurt, le sue scarpe che oscenamente rumorose sul pavimento. La porta era aperta e lui entrò.

Kurt dormiva sulla schiena nel letto dell’ospedale, i capelli morbidi scompigliati e gli occhi chiusi cerchiati di scuro. Qualcuno gli aveva tolto il pigiama e infilato in un’orribile tunica da ospedale che contribuiva solo a farlo sembrare più piccolo del solito.

Burt si sedette lentamente di fianco a lui. "Ehi, ragazzino" mormorò, scostandogli i capelli dalla fronte ancora calda. Avrebbe voluto poter dire qualcosa di meglio, qualcosa di eloquente e confortante. Avrebbe voluto poterlo chiamare KK come faceva sempre Mollie, ma il nomignolo gli morì sulle labbra. Non sembrava giusto.

"Ehi, ragazzino" ripeté, aprendo la cerniera della borsa. "Ti ho portato qualcosa".

Tirò fuori la copertina blu. Mollie gliel’aveva data il natale prima della nascita di Kurt, il suo modo di annunciare che sarebbe stato padre di un maschietto. Aveva avvolto il loro bambino in quella coperta quando l’avevano portato a casa dall’ospedale e gliela avevano rimboccato attorno ogni notte da allora. "Sono piuttosto sicuro che dormirai con questa cosa finché avrai trentacinque anni" disse a Kurt, semiserio. Stese la copertina sopra il figlio addormentato e lo rimboccò stretto.

Le ciglia di Kurt si separarono, morbide e scure contro la pelle pallida. Sbatté gli occhi blu annebbiati verso Burt e sorrise con aria assonnata. "Ciao, papà".

Il cuore di Burt gli si strinse in petto. "Ciao. Come ti senti, scooter?".

"Stanco" mormorò Kurt. Intrecciò una mano attorno alla copertina blue. "Oh, la mia copertina è qui".

"Va meglio lo stomaco?".

Kurt sollevò lentamente la mano in direzione della bocca, appoggiando il medio e l’anulare contro il labbro inferiore. "Fa un po’ male" rispose, fissando gli occhi sul viso di suo padre, quasi come una sfida.

"Andrà meglio" disse Burt, e la sua gola si strinse quando realizzò che non intendeva solo il dolore o la febbre, intendeva la casa vuota, il silenzio e i brutti sogni. "Andrà… andrà meglio, ragazzino".

"Devo andare a scuola domani?" domandò Kurt, la sua vocina che già cominciava ad affievolirsi per colpa della stanchezza e degli antidolorifici.

"No, rimarrai in ospedale un giorno o due" disse Burt. Poteva già vedere i primi accenni di panico; prese la mano di Kurt e la strinse forte. "Jake si occuperà dell’officina. Rimango con te".

Kurt si rilassò contro i cuscini, facendo scivolare le dita in bocca. Sembrava così giovane che il cuore di Burt si strinse. Non aveva nemmeno il cuore di allontanare la mano di Kurt dalla bocca o rimproverarlo perché sei un bambino grande, i bambini grandi non si succhiano le dita. Si limitò ad accarezzargli i capelli.

"Dormi, Kurt. Io sono qui. Non permetterò che ti succeda nulla di male. Te lo giuro.

Gli occhi di Kurt erano già mezzi chiusi, le sue lunghe ciglia che sbattevano contro le guance. Succhiò assonnato le dita e si rannicchiò ulteriormente nella sua copertina. Burt gli prese la mano tra le sue, ricordando tutte le notti in cui sua moglie faceva su e giù nei corridoi, cullando il loro bambino e baciandolo e mormorando tutte quelle piccole dolci cose che sono lei conosceva, solo lei poteva dire.

Lui e Kurt avevano entrambi perso qualcosa, qualcosa di perfetto e prezioso e puro che non avrebbero mai avuto indietro, ma almeno, grazie a dio, avevano ancora l’un l’altro.

Burt sollevò la manina di Kurt e la premette sul suo petto contro il cuore, guardando il figlio dormire, il suo respiro lento e regolare. "Non vado da nessuna parte" disse, e per lui era "Ti voglio bene" e "Mi dispiace" e "Sei il mio mondo" tutto in una sola semplice frase.

 

Note dell’autrice

Sono stata in uno strano umore da little!Kurt ultimamente. Quest’idea mi è balzato in testa mentre scrivevo Be My Best Friends, che è una one-shot little!Kurt decisamente più allegra, ma che avviene il luglio dopo la morte di Mollie, e mi ha fatto cominciare a pensare a come Burt, il pratico, sensibile e pragmatico Burt, sia passato dall’essere solo il papà di Kurt al essere il principale responsabile di un bambino sensibile, emotivo e adorabile che non ha mai esattamente capito.

Così è successo questo.

Sono grandemente in debito don Ali, che mi ha dato bellissimi consigli e mi ha aiutato a far diventare questa storia qualcosa di più di un incoerente studio di personaggio. Il suo nome su LJ è of-a-crescendo, e se non avete letto le sue storie, dovreste rimediare immediatamente. È la maestra dell’angst, che è il motivo per cui mi sono rivolta a lei e i suoi consiglio per scrivere questo, e mi ha ridotto in lacrime in più di un’occasione.

Spero che… beh, vi sia piaciuta è probabilmente una misera scelta di parole, ma spero che andasse bene.

Note della traduttrice

Okay, sono un essere orribile. Sono sparita dalla circolazione da una vita e mezza ormai, ma tra esami universitari, problemi in famiglia e tutto il resto, EFP è stato in fondo alla lista dei miei pensieri. Difatti sono mesi che a malapena ci vado su quel sito.

Oltretutto, sembra che la mia musa abbia finalmente smesso il suo sciopero dopo qualcosa come un anno e mezzo e negli ultimi tempi il mio tempo libero è stato tutto dedicato a scrivere, perciò ho perso un po’ di vista le traduzioni. Ops.

Cercherò di farmi perdonare e non sparire un’altra volta.

Ho scelto di lasciare il titolo inglese perchè è un verso di I want to hold your hand, perciò tradurlo gli avrebbe probabilmente fatto perdere un po' di significato.

E ovviamente internet doveva sparire proprio mentre io mi preparavo ad pubblicare… L’universo si accanisce contro di me!

Spero che questa storia vi sia piaciuta!

  
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