Il tempo non aspetta per nessuno
Avevano
tutti la loro vita.
Dopo
la morte di John il Rosso,
la vita era andata avanti per tutti, e tutti avevano, in un modo o
nell’altro,
raggiunto gli obbiettivi che si erano prefissati, erano giunti a quella
felicità che avevano, ognuno di loro, agognato da sempre.
Rigsby e Sarah, per
la gioia del piccolo Ben, erano al fine convolati a giuste nozze, e
stavano
aspettando il loro secondo genito, una bambina; Van Pelt, dimenticato
una volta
per tutte il collega e le sfortunate relazioni collezionate negli anni
dal suo
arrivo in California, stava
frequentando
ormai da diversi mesi un professionista suo coetaneo, e la cosa, era
chiaro a
tutti, era ormai seria e sarebbe presto culminata con una proposta di
matrimonio,
o perlomeno con la convivenza; Cho continuava la sua bizzarra relazione
con
Summer, negando di avere
una storia ma
continuando a portarle fiori, rose rosse, ogni qual volta che la doveva
incontrare; Tommy aveva incontrato una vice-sceriffo durante una delle
sue
“battute di caccia” e con lei stava avendo una
relazione altalenante che tutti,
in famiglia, si chiedevano come e quando sarebbe finita, e Annie aveva
iniziato
a notare, oltre alle pistole, anche i ragazzi.
Perfino
Jane era stato in grado
di rifarsi una vita. Dopo l’ennesimo tentativo di catturare
John, aveva
iniziato una relazione, inizialmente puramente fisica, con la
più giovane
Lorelai, relazione che era divenuta stabile e
“reale” dopo che Susan Darcy, in
un disperato
tentativo di legittima
difesa, aveva assassinato il serial killer, e adesso
la coppia viveva insieme, in un appartamento
che Jane stesso aveva acquistato per dimostrare la sua buona
volontà alla
donna, ed il suo desiderio di crearsi un domani al suo fianco, mettendo
da
parte le ombre del passato, e lei suggeriva silenziosamente il suo
desiderio di
proseguire lungo quella strada fermandosi, come diceva Jane, a guardare
gli
abiti da sposa come fosse stata una ragazzina sognante alla ricerca del
suo
principe azzurro.
In
poche parole; tutti avevano la
loro vita, le loro famiglie, tranne lei.
All’inizio
non ci aveva mai fatto
tanto caso, o forse non le importava. Il team era la sua famiglia, e
poi aveva
fatto per troppo tempo da madre ai suoi fratelli- e a Jane –
per poter volerlo
essere di nuovo. Ma all’epoca, quando il mentalista era
entrato nel suo mondo,
lei aveva solo 32 anni, era giovane ed era stata appena promossa. Aveva
tutta
la vita per farsi una famiglia, si diceva, e non voleva né
poteva fare
sacrifici che l’avrebbero potuta allontanare dal suo
obbiettivo, raggiungere le
vette del CBI. E poi, non era ancora pronta, era troppo spaventata dai
ricordi
del passato per essere una buona madre. Aveva ancora tempo, si
ripeteva, un
giorno sarebbe stata pronta, e avrebbe avuto un brav’uomo che
l’amasse al suo
fianco. Ma non allora.
Gli
anni avevano iniziato a
passare, e da 32 di anni ne aveva ormai 38, e non le importava
più di fare
carriera, anche perché era convinta che non avrebbe
più potuto farla; troppi
casi chiusi in maniera poco ortodossa, troppi richiami ufficiali alla
sua
unità, troppe sospensioni. Ma almeno, lei aveva Jane che
chiudeva i casi e dava
alle famiglie la possibilità di andare avanti, chiudendosi
quei dolorosi
capitoli alle spalle. Non era forse più importante del suo
egoistico desiderio
di essere madre? Non ne aveva bisogno, faceva del bene. Alla lunga, le
sarebbe
bastato. E poi, lei non era l’unica ad essere sola, era in
buona compagnia, con
i suoi colleghi che condividevano le sue miserie esistenziali.
Nemmeno
un anno dopo, però, la
sua strada si era incontrata con quella di Greg, ex fidanzato ai tempi
del
liceo, amore di molti anni, e tutto quello che aveva creduto di sapere
su di
sé, e di volere, era stato messo in discussione;
vent’anni prima, lei e Greg
erano stati fidanzati, e innamorati a tal punto da parlare di
matrimonio, ma
lei aveva messo altre cose davanti a lui, il suo desiderio di entrare
nelle
forze dell’ordine in primis; si erano ripromessi di andare
avanti comunque,
lottare per quella relazione, e avevano fatto progetti, progetti che
avevano
messo in stallo perché lei voleva altro dalla vita prima. E
lui, dopo innumerevoli
tentativi di mediazione, aveva
ceduto, e detto basta.
Vent’anni
da quel giorno, e lei
era ancora la stessa donna di allora, ancora sola e ancora con il
lavoro davanti
a tutto, seppure in maniera diversa;
Greg, invece, quegli obbiettivi che si erano prefissati,
quei progetti
che avevano fatto abbracciati sotto una coperta davanti al camino della
casa in
Chicago, li aveva raggiunti; Greg si era sposato, aveva avuto successo
nel
lavoro ma, soprattutto, aveva dei figli che lo amavano alla follia.
Aveva
raggiunto tutti quegli obbiettivi, esaudito tutti i suoi desideri, non
con lei,
ma con un’altra donna.
Wayne
aveva Sarah. Cho aveva
Summer. Van Pelt aveva Gabriel, Jane aveva Lorelai, Greg aveva tutto e
di più.
Lei aveva, quando lui ne aveva voglia, Mashburn, che la invitava ogni
tanto
nella camera da letto del giorno per ricordare i loro piacevoli
interludi
passati sotto le lenzuola. Ecco cosa aveva lei, a quasi
quarant’anni.
Era
sola, ed era stufa.
Aveva
ponderato quella decisione
per mesi, posticipandola all’infinito, dicendosi che era
sbagliato, che si
stava comportando da egoista, ma non poteva aspettare oltre. Il tempo
passava,
e lei non stava certo divenendo più giovane. Doveva prendere
una decisione, e
al più presto. Poi, sarebbe vissuta con le conseguenze,
qualunque esse fossero
state, e avrebbe fatto del suo meglio, tentando di fare meglio che con
i
ragazzi, meglio che in passato. Ma doveva decidere. Era ora, non poteva
più
aspettare. Ma soprattutto, non voleva. Era stufa di essere la ruota di
scorta,
l’ultima ruota del carro. Voleva che giungesse anche il suo
momento, e se la
vita non le dava le carte adeguate, allora si sarebbe arrangiata,
giocando alla
meglio la mano che si trovava in mano. Ma se voleva farlo, doveva farlo
ora.
Sentì
chiamare il suo numero, e
la voce dell’altoparlante la risvegliò,
riportandola a quel luogo, quel
momento, quella scelta, scrollò il capo e si
alzò, avviandosi verso la porta
appena aperta, da cui fuoriusciva una fioca luce azzurrina, irreale
tanto era
rilassante. La donna al banco dietro alla porta le diede una serie di
cartelline, sorridendo di un sorriso sforzato, e Teresa
reciprocò l’azione,
seppure timida e titubante, mentre con le mani afferrava i fogli,
stringendoli,
tremante, quasi avesse avuto paura
che
si sarebbero potuti incenerire.
Era
una scelta egoista, lo
sapeva, ma non poteva fare altro. Non poteva aspettare altro tempo, non
poteva
sperare che magicamente le carte nelle sue mani si trasformassero.
Quella era
la mano e quella sarebbe stata, volente e nolente. Non le restava che
giocare
la sua partita, procedendo a testa alta qualsiasi cosa fosse accaduta,
certa
della sua decisione, senza ascoltare gli altri.
Si
sedette nell’atrio e iniziò a far scorrere le
immagini e le scritte, decisa a
prendersi il suo tempo, fino a che il suo cellulare non
squillò (Cho, con un
altro caso, dove era
richiesta la sua
presenza ); infilò nella borsa i fogli, e si
incamminò di corsa verso la
macchina. Avrebbe dato un’occhiata in serata, il tempo
stringeva, ma non così
tanto. Poteva aspettare alcune ore, ma non di più.
Dopotutto, ormai
l’appuntamento era già stato fissato.
C’era solo quel piccolo, quasi, ormai
insignificante, particolare da decidere, e
poi sarebbe stata cosa fatta. Pochi giorni, e la
solitudine sarebbe
finalmente giunta al termine, lasciando spazio ad una nuova
realtà per lei, una
realtà che, doveva ammetterlo, Lisbon non vedeva
l’ora di sperimentare, seppure
fosse combattuta al riguardo. Non sapeva se avrebbe potuto dire lo
stesso della
sua felicità, non dopo aver accettato un tale compromesso,
aver fatto una
scelta così egoista. Ma per una volta, voleva essere
egoista, voleva fare
quello che aveva atteso una vita per poi rimanere delusa. Voleva e
doveva.
Qualche giorno, e addio solitudine.
Lisbon
si era trasformata nell’ombra
di sé stessa, sembrava irriconoscibile.
La
trasformazione era stata
graduale, se doveva essere sincero, ma all’epoca era stato
troppo preso da
tutto quanto- John il Rosso, il suo passato, la sua vendetta, Darcy che
lo
credeva uno degli amici della sua nemesi se non la sua nemesi stessa-
per farci
caso più di tanto o, peggio ancora, dar peso alla cosa ;
l’incontro con Greg
Tayback, Jane lo sapeva, aveva peggiorato la situazione- qualunque essa
fosse
stata- e di nuovo lui aveva preferito non infischiarsi. Lisbon poteva
tenersi
pure i suoi segreti, e fino a che lei aveva dei problemi suoi,
c’era una buona
possibilità che non avrebbe ficcato il naso nei guai del suo
consulente. E poi,
per quanto fosse brutto a dirsi, non poteva perdere tempo a
preoccuparsi per
una donna tutta d’un pezzo come Lisbon, dura e pura, quando
c‘era Lorelai che
rubava la scena a chiunque altro con il suo fascino ed il suo calore,
ed il
bisogno di darle affetto e protezione che ispirava in chiunque le si
avvicinasse, mentre la poliziotta era ben in grado di badare a
sé stessa.
Poi,
però, era successo qualcosa,
ed il cambiamento, lo sconvolgimento nella vita di Teresa, qualunque
fosse
stato, era stato talmente grande da stravolgere la sua intera esistenza.
Lisbon
aveva smesso di
frequentare tutti i luoghi dove andava solitamente, e aveva detto addio
alle
celebrazioni di fine caso, battendo in ritirata ogni volta che la cosa
veniva
accennata; non accettava nemmeno più gli inviti che non
fossero strettamente
connessi alle indagini, messa a disagio, probabilmente, dal fatto che
molte
volte finivano per organizzare incontri galanti a più mani
in cui lei era
l’unica single. Aveva perfino iniziato a snobbare il
caffè e le brioches che
lui, di tanto in tanto, le prendeva da Marie. Jane lo aveva preso come
un fatto
personale- della serie, dove vai tu, io non seguo – ma poi,
Lisbon, ad un certo
punto, aveva smesso di alienare solamente lui.
Era
passata direttamente ad
alienare tutto e tutti.
Ormai
non usciva nemmeno più per
i casi, e aveva scoperto che stava confabulando con Bertram, di cui,
dopo la
chiusura del caso John Il Rosso,
era
divenuta la pupilla, per una nuova posizione, di maggiore prestigio,
che
tuttavia le avrebbe negato la possibilità di lavorare
attivamente sul campo, e
che l’avrebbe portata via da Sacramento. Capiva, ed in un
certo qual senso,
condivideva, il suo desiderio di salire, migliorarsi, ma non tollerava
quei segreti,
e, ipocrisia delle ipocrisie, che
lei
gli stesse nascondendo qualcosa. Perché ora,
perché quella posizione? Perché
desiderava andarsene, e perché non lo aveva detto loro? Temeva non
l’avrebbero capita, appoggiata?
Probabile,
considerato il complesso
della santa di Lisbon.
Restava
il fatto che lei gli
stesse mentendo- o meglio dire, nascondendo la verità- e che
Jane non lo
volesse accettare, non potesse accettarlo, vuoi per orgoglio
o….o non lo
sapeva. Sapeva solo che doveva sapere cosa stesse accadendo, se non
altro, per
vendicarsi, magari imbarazzarla. Se lo sarebbe meritata, visto come li
stava
estraniando dalla sua vita nell’ultimo periodo.
Attese
che Lisbon raggiungesse
Wainright per fornirgli le ultime delucidazioni sul caso su cui stavano
lavorando,
un caso parecchio complicato che li aveva visti protagonisti indiscussi
alla
caccia del killer di turno per giorni e giorni- sarebbe stata ore,
impiegata a
spiegare ogni più minuzioso particolare alla matricola del
CBI, e questo
sarebbe andato a suo favore, avrebbe avuto il tempo di entrare e
cercare quello
che più gli premeva, la verità.
Così
fece.
La
porta si aprì senza troppi
problemi- non era una novità, ed era piacevolmente sorpreso
che la donna non
avesse preso delle contro-misure per evitare un altro increscioso
incidente in
cui lui fosse messo nella incresciosa, seppur spassosa, situazione di
dover
fabbricare prove false -
e Jane si
diresse subito verso il suo obbiettivo primario, la scrivania del suo
superiore, cassetto di mezzo, quello dove teneva la bottiglia di whisky, una bottiglia che
non era vuota come
aveva pensato all’inizio, temendo una caduta nello stesso
baratro occupato
prima dal di lei padre, era ancora peggio. La bottiglia non
c’era.
Al
suo posto, cartellette
trasparenti, con dati, immagini, fotografie e storie, più o
meno veritiere,
meno, se doveva dare un parere, come pure poco vere parevano le
fotografie,
molto probabilmente ritoccate con Photoshop. Jane
si sedette alla scrivania del capo con le
gambe sul tavolo, caviglie incrociate, facendo scorrere immagini e
tutto quanto
il resto, ridendo come un pazzo all’idea di Lisbon che si
rivolgeva ad una
agenzia di appuntamenti- davvero bassa, come cosa, e abbastanza
tragica,
considerato cosa era accaduto la volta in cui avevano indagato al
riguardo,
anche se Rigsby aveva trovato Sarah in quella occasione –
fino a che non arrivò
all’ultima pagina, che lo fece smettere di ridere, cogliendo
la sua completa
attenzione; era una
ricetta medica, a
nome di Lisbon, con nomi di medicinali, quantitativi, orari, e
annotazioni di
luogo, data e ora di una certa procedura, con tanto di preventivo a
cinque
cifre allegato.
Il
nome della clinica lo
sconvolse, come pure la descrizione, sommaria, a parte, della
procedura, dei
tempi, dei possibili esiti… riconobbe subito il nome,
scritto in eleganti
caratteri blu in alto, e immediatamente fece i collegamenti del caso,
maledicendosi per non aver capito subito cosa stesse accadendo,
chiedendosi come
fosse stato possibile
che non avesse colto al volo quale fosse il vero problema di
Lisbon….
Era
una clinica specializzata
nella procreazione assistita.
Era
consapevole che Lisbon non
avesse problemi di fertilità – nei primi anni in
cui avevano lavorato insieme,
i suoi cicli erano stati più puntuali di un orologio
svizzero, come pure le
associate voglie di cioccolato bianco, che diversamente snobbava, e non
si era
mai lamentata di mestrui particolarmente dolorosi, né aveva
mai visto ricette
mediche per antidolorifici specifici nei suoi raid della scrivania del
capo;
tutto questo faceva credere che Lisbon non avesse problemi di
fertilità. Né
tantomeno li aveva il suo “compagno”, se
così lo si poteva chiamare,
considerato che non aveva una relazione stabile da circa tre anni e che
si
limitava a una botta e via con Mashburn, che di eredi non voleva
nemmeno
sentirne parlare. Questo significava che Lisbon non stava cercando un
aiuto per
essere certa di rimanere incinta.
Lisbon
stava cercando di rimanere
in cinta, punto e basta.
All’improvviso,
i nomi e le foto
presero tutta un’altra dimensione, perché se
Lisbon cercava di rimanere in
cinta senza avere un compagno, significava solo una cosa, che quelle
foto non
erano di un’agenzia matrimoniale, ma di una banca dello
sperma. Banca dello
sperma, donatori, donatori, uomini, uomini… fotografie. Le
fotografie, le
fotografie ed i profili che Lisbon aveva nelle cartellette. Quelli
davvero non
erano uomini con cui voleva uscire, quelli erano gli uomini con cui lei
avrebbe
potuto presto avere un figlio, o una figlia.
Una
strana sensazione lo colpì,
quasi lei lo avesse tradito, ma Jane si ripeté che era solo
il disappunto per
averla scoperta in fragranza di tenergli nascosta una tale cosa. Non vi
erano
altri motivi per cui il suo cuore perdeva un battito, nessun altro,
davvero,
non c’era ragione, non con Lorelai nella sua vita,
così giovane, bella, dolce,
bisognosa di amore, amata amante, così importante. No, non
era assolutamente
geloso. Perché, poi? Lisbon avrebbe avuto un figlio da una
siringa, non certo
da un altro uomo. Men che meno da quel bell’imbusto di
Mashburn che non era
degno di toccarla nemmeno con un dito. Ma allora, perché si
sentiva così, con
quella nota di disappunto che gli bruciava nel petto? Non era geloso,
né
tantomeno aveva desiderato che Teresa si rivolgesse a lui per avere un
figlio,
perché sarebbe stato insensato, no?
Poi,
però, i suoi occhi caddero di nuovo sul foglio, su cui era
rapportata la data
della procedura, e la sensazione pungente che avvertì al
cuore tornò prepotente
come non mai…. La data non era recente. La data risaliva a
oltre tre mesi
prima. Lisbon non gli aveva semplicemente mentito. Lisbon aveva fatto
qualcosa
di anche peggio, gli aveva nascosto la verità.
Bertram
lasciò l’ufficio di
Lisbon col sorriso, molto compiaciuto, allegro come non lo era stato da
molto
tempo a quella parte. Jane si chiese se l’uomo sapesse cosa
stesse facendo, e
se fosse conscio delle conseguenze. Stava perdendo Lisbon, una dei suoi
migliori agenti, ed il tutto perché le aveva offerto una
posizione migliore, agente
capo della sezione persone scomparse a San Francisco, dove Tommy si era
recentemente stabilito con Annie e la sua nuova fiamma.
Chissà se si rendeva
conto che lui non sarebbe stato tanto facilmente controllabile da un
altro
agente capo. Aveva già dimostrato che gli altri lo
indispettivano, e che la
sola Lisbon era capace di controllarlo minimamente. Non aveva imparato
la
lezione, anni prima?
Il
team aveva saputo della
promozione per vie traverse, e Grace, più degli altri, si
sentiva tradita da
Lisbon, che ancora non aveva dato loro la notizia, permettendo che lo
venissero
a sapere da altri; la stessa delusione, seppure in modo minore,
permeava da
Rigsby, mentre Cho, impassibile come sempre, restava in silenzio.
Conoscendolo
come lo conosceva, Jane era piuttosto positivo che il Coreano avesse
intuito la
verità, se non, addirittura, la sapesse. Del team, lui era,
dopotutto, quello
con cui Lisbon si confidava più al momento,
perciò c’era una buona possibilità
che lei avesse condiviso la lieta novella col collega.
Lui
era distrutto, punto e basta.
Si sentiva, irrazionalmente, come se Lisbon lo avesse preso a calci
dopo averlo
buttato a terra. Stupido, considerato che lui le aveva sempre chiesto
di
fidarsi ma non aveva mai ricambiato quella fiducia, seppure per diversi
motivi.
Lui non diceva la verità per proteggere gli altri, lei lo
faceva per ripicca,
perché lui aveva il giocattolino nuovo e non la degnava
più di uno
sguardo.
Beh,
più o meno. Lorelai non era
certo un giocattolino nuovo, né Lisbon era il giocattolo
vecchio. Dopotutto,
lui e Lisbon non erano mai stati intimi, non nel senso fisico del
termine. La
loro relazione era stata del tutto diversa. La loro relazione era del
tutto
diversa.
A
dire la verità, non era nemmeno
più certo che loro due avessero alcun tipo di relazione,
giunti a quel punto.
Un tempo erano stati amici, una famiglia surrogata. Adesso? Adesso non
credeva
più di conoscerla. E non capiva il perché. Lui
sarebbe stato quello che si
supponeva cambiasse con la morte di John, non lei. Eppure…
eppure lui non si
sentiva diverso, nonostante stesse facendo questo enorme sacrificio di
sforzarsi, di provare per Lori, non si sentiva più vivo o
più vuoto. Lisbon,
invece… la morte di John l’aveva svuotata,
l’aveva depressa, fatta sentire così
piccola e vuota che era arrivata a colmare quel vuoto così,
in un modo che mai
lui avesse creduto possibile, con un qualcosa che Jane non credeva lei
avesse
mai desiderato.
“Signori,
immagino abbiate già
sentito per via ufficiosa dell’imminente cambio al vertice
della vostra unità.
Non ritengo perciò che sarà per voi una sorpresa
sapere che la prossima
settimana Teresa Lisbon è attesa a San Francisco per
iniziare a ricoprire la
carica di Agente Speciale a capo dell’unità
Persone Scomparse locale. Il nome
del suo successore non è stato ancora deciso, tuttavia, da
domani, l’agente Cho
prenderà temporaneamente in mano le redini della squadra.
Buon lavoro!”
Grace
fece una risatina nervosa
non appena il capo se ne fu andato, un suono che sembrava tanto un
grugnito, e
incrociò le braccia in disappunto; quando parlò,
il sarcasmo era papabile nella
sua voce e nelle sua parole, acide e corrosive come il più
terribile dei
veleni. “Bell’amica Lisbon, è stato
gentile da parte sua avvisarci che se ne
stava andando”
“Non
so, forse la colpa è anche
un po’ nostra. Siamo stati sempre parecchio presi dalle
nostre vite, quando non
si trattava di lavoro, nell’ultimo periodo. Non credete che
l’abbiamo
allontanata un po’
anche noi?”
“Stupidaggini!
Lisbon è soltanto
un’ipocrita! Ci ha sempre detto di andare da lei se avessimo
avuto un problema
e lei cosa fa, ci molla e se ne va a fare carriera?
Bell’esempio davvero!”
“Smettetela
voi due! Lisbon non è
nostra madre, ha tutto il diritto di pensare alla sua carriera,
considerato che
ci ha sempre coperto le spalle in questi anni. Appoggiare la sua scelta
è il
minimo che possiamo fare, volenti e nolenti. E comunque” Cho
fece una pausa,
volgendo, freddo, il capo verso Jane “E comunque, il capo ha
diritto ad avere
una vita, una vita in cui noi non abbiamo ragione di
intrometterci”
Così
dicendo, Cho
afferrò con rabbia la sua giacca e se ne
andò, senza aggiungere altro, senza degnare di ulteriori
sguardi i colleghi;
Jane non poté fare altro che sogghignare sotto i baffi,
certo come non mai di aver
avuto ragione: Cho sapeva, o per lo meno, sospettava qualcosa. O forse,
addirittura, sapeva più di quanto il mentalista pensasse,
più di quanto lo
stesso Coreano volesse far credere.
“Che
c’è, tu non dici niente,
Jane?” sibilò Van Pelt a denti stretti. Lui, alla
sua domanda, inizialmente
scrollò le spalle, poi prese un respiro, calcolato come ogni
azione da lui
sempre compiuta, e con una nonchalance che era lungi dal provare, disse
ciò che
era certo volessero sentirsi dire, almeno alcuni di loro.
“Cho
ha ragione. Lisbon ha
passato la vita a fare Santa madre Teresa, è ora che si
faccia gli affari
propri e si concentri su se stessa. E poi noi chi siamo per lei? Non
siamo
certo la sua famiglia.” Van Pelt afferrò, con le
lacrime di rabbia agli occhi,
al borsa, e corse verso l’ascensore a passo rapido; Rigsby
rimase un po’
più a
lungo, in piedi con le mani in
tasca, a guardare Jane, con gli occhi pieni di tristezza e, forse,
anche pietà;
tuttavia, poi, se ne andò anche lui quando si rese conto che
il suo sguardo non
stava risvegliando l’amico dal suo torpore, ma lo stava
solamente innervosendo,
e così, anche lui, in silenzio, dipartì.
Alla
fine, rimase solo Jane, solo
in sala riunioni, con Lisbon chiusa nel suo ufficio a mettere in uno
scatolone
i ricordi di una vita passata in quelle stanze, in quei
corridoi… dieci anni,
aveva passato dieci anni della sua vita lì dentro, molti dei
quali condivisi
con quelle persone a cui stava per dire addio- metaforicamente
parlando, perché
le sua parole erano state dette da qualcun altro, da Bertram. Non riusciva nemmeno a
essere insincera con
loro fino in fondo. Per nascondere la verità, aveva avuto
bisogno di nascondere
sé stessa, di scappare, lontano da loro, lontano da casa,
dalla sua famiglia...
Sempre che quella fosse la sua casa, che loro fossero la sua famiglia.
Parte di
lui voleva dubitare di lei, voleva quasi odiarla, ma non ci riusciva,
il suo
cuore era spezzato, diviso. Voleva, ma non poteva, perché,
in fondo, in fondo,
la capiva, la comprendeva, e seppure non condividesse la sua scelta
fino in
fondo per un qualche motivo che non riusciva bene a spiegarsi, era
certo che se
Lisbon era giunta a quella decisione lo avesse fatto solo dopo averla
ponderata
accuratamente, e che forse, se stava facendo quella scelta….
Forse, quella vita
che si stava costruendo, senza di lui, senza di loro, lontano da tutto
e tutti,
forse se la meritava, dopo tutto quello che aveva passato.
Aprì
la porta, senza fare rumore,
e osservò Lisbon nella penombra dell’ufficio,
indugiare su una foto che stava
per riporre in uno degli scatoloni, le sue dita, sottili ed esili, che
percorrevano i contorni delle figure. Lacrime le solcavano, in
silenzio, le
guance, mentre il suo sguardo era come vuoto e triste; forse,
pensò Jane,
guardandola in silenzio, se stava davvero così…
stava facendo la scelta giusta.
Qualsiasi cosa era meglio di quella sofferenza.
Se stare con loro la faceva sentire così,
allora stava facendo la scelta
giusta. Lei non meritava di soffrire, non più, non
così, non di nuovo.
“Saprò
essere una buona madre”
disse, col sorriso sul volto, risplendente ma ancora un po’
triste, voltandosi
verso Jane, e lui rise, incrociando le braccia e avvicinandosi alla
scrivania,
guardandola. Lisbon lo sapeva. Sapeva che alcune settimane prima lui
aveva
forzato il suo ufficio, sapeva che aveva visto le cartellette. Sapeva
che lui
sapeva. E sembrava non le importarle. Non era certo che la cosa gli
piacesse,
ma di nuovo spinse via, lontano, quel pensiero. “So che molti
mi diranno che
sono stata egoista, diavolo, James me lo ha detto, ma so che
sarò una buona
madre. So che posso rendere questo bambino felice, so che lo
farò, ma non avrei
mai potuto farlo, se avessi aspettato che il principe azzurro arrivasse
in
sella al suo cavallo bianco.”
Jane
sorrise di rimando, la sua
mente che volva a tutte le volte che lei si era trovata con un bambino,
la sua
gioia, il suo calore. Davvero non lo aveva capito prima, che Lisbon
desiderava
farsi una famiglia? “Lisbon, non devi giustificarti con me.
Insomma, io sono il
re degli egoisti, e poi, credo che un po’ di sano egoismo non
potrebbe che
farti bene, dopo che hai passato la vita
a preoccuparti per gli altri. Devi pensare a te stessa
ora. E comunque,
concordo con te. Sarai una brava madre”
“Il
medico mi ha consigliato di
aspettare la fine del primo trimestre per dirlo. Alla mia
età non si è mai
abbastanza certi, e il rischio è ancora maggiore per via
delle cure.
Probabilmente passerò i prossimi sei mesi a fare controlli
su controlli.”
Sorrise, mentre gli occhi cadevano sul grembo e sulla sua stessa mano
che lo
accarezzava con rilassanti movimenti concentrici.
“Davvero,
Lisbon, non ci devi
nessuna spiegazione.” Le disse lui con voce bassa e suadente,
un respiro caldo
sul collo della donna, e solo allora lei si rese conto di quanto Jane
fosse
vicino a lei. Una mano di lui si posò, possessiva, sulla di
lei spalla, mentre
l’altra iniziò
a percorrere come la sua
il ventre colmo di vita; Lisbon avvertì Jane chinarsi su di
lei, e si voltò
affinché le loro labbra si incontrassero, di istinto; ma le
labbra dell’uomo
ricaddero sulla sua guancia, lontano dalle labbra dove lei lo aveva
desiderato
più a lungo di quanto avesse mai voluto ammettere.
“Sono felice di averti
conosciuta” le sussurrò, ricordandosi
all’improvviso che a casa aveva una donna
che lo amava e che lui amava a sua volta, prima di andarsene come era
entrato,
in silenzio, senza dire nulla, senza aggiungere altro.
E
Lisbon
lo guardò andarsene, massaggiando di nuovo il ventre, con le
lacrime agli
occhi. Quel bambino non avrebbe avuto un padre- né reale
né surrogato - ma
almeno avrebbe avuto lei. Non avrebbe avuto un padre per lo stesso
motivo per
cui lei era ancora sola e senza la creatura dentro di lei sarebbe
potuta
esserlo fino alla fine dei suoi giorni.
I principi azzurri non esistevano, e se lo facevano, erano
di altre, e
lei lo sapeva bene, perché il principe dei suoi sogni
esisteva, ma era di
un’altra, lo era sempre stato. Un tempo, era stato di un
fantasma, e adesso
apparteneva a Lorelai,
e se n’era appena
andato dandole le spalle.
Jane
le
aveva detto tutto senza dirle nulla, le aveva fatto capire ogni cosa,
la realtà
dei fatti, senza proferire parola. Anche se avesse voluto, non sarebbe
potuto
essere più chiaro, e forse, tutto sommato, aveva di che
essere grata. Avrebbe
forse preferito la sua pietà, o una menzogna? No, sapeva di
non meritare nulla
di tutto questo, ed era… sollevata che il senso di colpa
dell’uomo, che il suo
desiderio di ricambiare i mille e mille favori che lei gli aveva fatto
nel
corso degli anni, non lo avesse portato ad illuderla, a farle false
promesse.
Non sarebbe stato giusto per lei, per Jane, per Lorelai, ma soprattutto
per il
piccolo che portava in grembo. Molto meglio la verità, per
quanto facesse male,
per quanto le spezzasse il cuore.
Aveva
girato per ore, per le
strade di Sacramento, prima di avere il coraggio di tornare a casa, in
quell’appartamento, però, che non riusciva a
sentire suo. Lo aveva acquistato
con il preciso intento di far capire a Lorelai che aveva intenzione
serie con
lei, che non si trattava più di solo sesso, e che voleva
poter di nuovo essere
felice, avere una famiglia, ma più ci provava,
più sentiva che c’era qualcosa
che lo tratteneva.
Odiava
sentirsi così.
La
morte di John avrebbe dovuto
liberarlo, ma non era stato così. Forse perché il
colpo mortale era aspettato
ad un altro essere umano, Jane, a dispetto di ciò che
continuava a ripetere a
tutti, non si era ancora ripreso del tutto. Non riusciva a dimenticare
il
passato, a lasciarselo alle spalle. Non che potesse davvero
dimenticarlo.
Angela e Charlotte erano state la sua vita, e avrebbero sempre avuto un
posto
nel suo cuore, ma soprattutto, come poteva scordare che se non fosse
stato per
lui, per il suo desiderio di fame e denaro, sarebbero state ancora con
lui?
Come dimenticare che Angela lo aveva supplicato di voltare pagina, e di
non
presentarsi a quello show quella sera?
Non
poteva, non voleva, e non lo
credeva nemmeno possibile. Contrariamente a Lorelai, che esigeva che
lui lo
facesse, che si lasciasse tutto alle spalle. Perché
continuare al CBI quando
poteva fare l’investigatore privato? Perché vivere
in hotel quando poteva avere
una casa, vendendo un paio delle sue macchine d’epoca? Perché portare
ancora la fede al dito, quando
sua moglie era morta da oltre dieci anni, e lui passava ogni notte con
lei?
La
capiva, ma non condivideva i
suoi pensieri. Non era pronto, e non era certo di meritarselo. Una
nuova vita?
Perché avrebbe dovuto volerla? Stava bene così,
aveva finalmente un equilibrio,
fragile, ma lo aveva, e non se la sentiva di rischiare di ricadere nel
tunnel
della pazzia. Aveva bisogno dei suoi punti di riferimento.
Ma
ne aveva appena perso uno.
Lisbon
se ne stava andando, stava
lasciandosi tutto alle spalle, stava facendo la scelta che lui avrebbe
dovuto
fare fin dal principio, fin dal giorno in cui John era morto. Lei aveva
avuto
coraggio, lui no. Ma questa non era una novità, era ben noto
che lui fosse un
codardo. Il fatto era che non era quello a farlo pensare, a ferirlo nel
profondo in un modo che non aveva mai preso nemmeno in considerazione.
Lui
non aveva capito. E lei non
si era confidata.
Lisbon
aveva chiuso quel capitolo
della sua vita, aveva avuto il coraggio, nonostante la paura ed il
dubbio, di
voltare pagina. Lei aveva desiderato una cosa, e aveva deciso che
avrebbe fatto
di tutto per ottenerla. E l’aveva fatto. E l’aveva
tagliato fuori. A
buona ragione- dopotutto, era stato sempre
lui che l’aveva allontanata più e più
volte, ma nel corso degli anni si era
insinuato nella sua mente il dubbio che Lisbon provasse ben
più che semplice
amicizia per lui. Lei aveva un debole per lui, era ben risaputo, ma
aveva
creduto che la cosa fosse più profonda di questo. Non
pensava di piacerle- era
convinto che lei lo amasse. Evidentemente, si sbagliava.
“Rick,
sei tu?” mentre
gettava le chiavi sul mobile
dell’ingresso, nuovo come tutto quello che c’era
nell’ultramoderno appartamento
che Lorelai aveva guardato sognate pochi mesi prima, Jane
sentì la voce, un po’
insicura, della donna con cui aveva scelto di condividere quel periodo
della
sua vita.
Lorelai.
Lorelai
era tutto quello che un
uomo avrebbe potuto desiderare- e molto probabilmente, il tipo di donna
per cui
il suo vecchio io sarebbe andato pazzo. Era giovane e bella, elegante,
benestante, sofisticata, intelligente, di buone maniere ma con quel
briciolo di
superiorità che non guastava, che tuttavia non le impediva
di assecondare il
suo compagno quel tanto che bastava. In poche parole: era perfetta, non
fosse
stato per i momenti di insicurezza e di caparbietà che
alternava nell’ultimo
periodo, assieme alle assillanti richieste di fare qualcosa per mettere
a posto
le cose tra loro, regolarizzarle.
Altresì
detto: voleva un anello
al dito.
“Uhm,
si, scusa. Bertram ha
tenuto un piccolo party di addio per Lisbon, avrei dovuto
chiamare” lei gli si
avvicino, e si accoccolò al fianco dell’uomo, che
col sorriso- tirato – le
diede un leggero bacio sui capelli, mentre le bugie scorrevano dalle
sue labbra
come acqua corrente. Non era vero, pensò, ma aveva bisogno,
voglia di parlarne,
e quello era l’unico modo in cui
poteva rompere il ghiaccio.
“Oh,
no, sapeva che stavi
lavorando ad una caso” gli sorrise, poi, con un leggero
ghigno di
soddisfazione, si sedette su una sedia, accavallando le gambe con fare
sexy e
finta nonchalance. “Lisbon se ne va? Non me lo avevi
detto…”
“Tecnicamente
non lo sapevo fino
a stasera. E’ stata una specie di decisione
dell’ultima ora. Si è liberata una
posizione a San Francisco, e appena hanno accennato la cosa, lei ha
detto sì.
Annie vive lì con Tommy, credo le manchino.”
“Uhm?
Chi? È il suo ragazzo, per
caso?” chiese
distrattamente. Lui, che
intanto era andato a posare la giacca, si fermò, e
osservò la donna davanti a
lui, a cui sembrava importare poco della sua vita, o meglio, di
ciò che vi
faceva da contorno.
“Uhm,
no, è suo fratello. Teresa
lo ha cresciuto lei da sola dopo che i suoi sono mancati. Annie
è la figlia di
lui. Credevo di averti detto di lei. Ogni tanto mi scrive…
”
“Ah,
sì, la ragazzina. Non
dovresti darle corda, sai? Dovrebbe cercare ragazzi della sua
età. Un giorno
qualcuno di additerà come pedofilo…”
“Perché
insegno a una ragazzina
che potrebbe picchiarmi o spararmi a rubare i portafogli? Ma
dai!” Rise,
sedendosi accanto a lei, e cingendole le spalle con un braccio.
“Credo
le farà bene.”
“Sapere rubare i
portafogli?”
“No,
Teresa! Le farà bene andare
via. Qui ormai tutti la additano come una zitella stronza a fascista.
Magari
via da qui riesce a darsi una calmata e trovarsi un uomo. Dio solo sa
se non ne
avrebbe bisogno…”
“Loro,
l’unico motivo per cui ce
l’hai con lei è perché è
sempre piuttosto seccata con me, ma se tu stessi al CBI,
credimi, nemmeno tu mi sopporteresti. Teresa è una
bravissima persona, ma con
una soglia di sopportazione piuttosto bassa quando si tratta di me.
Come quasi
tutti, del resto.”
“A
me piaci. E parecchio, Mr.
Jane.” Gli diede un baffetto sul naso, e poi corse via,
probabilmente a farsi
un lungo bagno alla lavanda, o alle rose, probabilmente. Quello era il
tipico
profumo di Lorelai. Lui, invece, con le mani in tasca e sospirando,
andò in
camera da letto, e prese una grossa scatola dall’armadio, e
col cuore pesante,
la aprì.
Il
carillon della culla di
Charlotte.
Caricò
la molla della casetta
delle api, e mentre gli insetti giravano nelle sua mani, una graziosa
musichetta inondava la stanza. Erano anni che non ci pensava, ma
adesso, adesso
gli era venuto in mente, e non riusciva a togliersela dalla testa. Per
un
semplice motivo: Teresa
aspettava un
bambino. Per davvero. Era cosa fatta.
La
musica si fermò,
all’improvviso come era iniziata, e lui si sedette sul letto,
gettando la
giostra al sua fianco. Sospirò, coprendosi il volto con le
mani, stanco, e
sentì, per la prima volta da anni, il freddo metallo
dell’anello contro la sua
pelle; si alzò, stanco, controvoglia, debole, ma lo fece, e
prese un’altra cosa
dall’armadio, un foglio piegato in 4 da un’altra
giacca, che aveva indossato
settimane prima, grigio scura, gessata, che Lisbon adorava.
Stancamente, aprì
il foglio, e studiò l’immagine ed il profilo della
persona che, sorridente, lo
guardava a sua volta, un biondo dagli occhi azzurri che sorrideva su
una
spiaggia; era un intelligente ed acculturato uomo sulla quarantina,
fisico
atletico, piuttosto alto, un ex poliziotto che si era trasferito nel
settore
della sicurezza dopo aver lasciato l’Inghilterra per gli
Stati Uniti. Ed era il
padre del figlio di Lisbon. Ne era certo. Lo aveva capito non appena
aveva
visto la foto, letto la biografia.
Sarebbe
potuto essere un padre,
si disse Jane, mentre accartocciava il foglio, ma non lo sarebbe mai
stato. Non
per Teresa, e non certo per un figlio di Lorelai. Non si sentiva di
avere
figli, non dal lei, non ancora, per lo meno, e forse mai. Come Teresa
gli aveva
detto più volte- e come aveva detto anche di se stessa - non erano di certo
più ragazzini, non stavano
ringiovanendo e gli anni, e la vita, iniziano a pesare un po’
troppo sulle
spalle.
Lei,
però, lo aveva fatto: Lisbon
aveva vinto le sue insicurezza, abbattuto i muri che si era costruita
nel corso
degli anni per proteggersi da tutto e da tutti, aveva vinto le sue
paure
perdonando e accettando quello che le era accaduto. Aveva dimostrato di
essere
forte, di essere arrivata ad un punto della sua vita in cui,
finalmente, era in
pace con se stessa.
Non
per la prima volta, il
video-trappola che aveva filmato per Erica Flynn ritornò,
prepotente, nei suoi
pensieri, ma stavolta, si rese conto che quel giorno aveva usato il
verbo
sbagliato. Quel giorno, aveva usato il verbo “era”,
riferendosi ad Angela, ma
aveva commesso un errore. Perché ora c’era una
persona che si fidava di lui e
di cui lui si fidava, una persona migliore di lui che aveva visto il
suo alto
peggiore ma non aveva certo smesso di accettarlo per questo, una
persona forte,
una persona sicura ed in pace con se stessa. L’aveva avuta
accanto e l’aveva
persa, tutto perché aveva avuto paura. L’aveva
tenuta lontana perché non capiva
cosa provava per lei. L’aveva tenuta lontana per proteggerla.
E poi era
arrivata Lorelai, piacevole distrazione all’inizio,
comodità poi, e ora…
Prese
la scatola dal comodino e
la fissò, mentre ancora una volta sentiva il peso
dell’anello al suo dito. Era
ora di farlo, doveva farlo.
Teresa
non sarebbe di certo tronata per lui. Non lo voleva, era poco ma sicuro.
Erano
circa dieci anni che non si
sentiva così rilassata.
Era
passato così tanto tempo
dall’ultima volta in cui era stata in pieno controllo di
sé, che aveva scordato
che cosa si provasse. Aveva il controllo della sua vita, il controllo
della sua
carriera, perfino il controllo del suo team, cosa che, doveva
ammetterlo, aveva
dimenticato. Come aveva dimenticato cosa significasse fare il proprio
lavoro
senza Jane. Lo aveva avuto intorno talmente tanto a lungo che ormai si
era
abituata alla sua presenza, al suo modo poco consono di risolvere i
casi, era
divenuto come una sua estensione. La prima settimana era andata nel
panico,
aveva passato giorni e giorni chiusa nel suo nuovo ufficio, con le mani
che le
tremavano, perché era certa che senza di lui non ce
l’avrebbe mai fatta.
Si
era sbagliata.
Il
suo team –l’ispanico
specialista di gang Ramirez, l’informatica Eric e
l’interrogatore Dell – era
più che bravo in quello che faceva, ed in poche settimane
era riuscita ad
eguagliare i risultati raggiunti a Sacramento. Non avevano Jane, non
avevano
nessun consulente, a dirla tutta, ma le cose non andavano
così male. Se la
cavavano alla grande. Era brava nel suo lavoro, non aveva bisogno di
Jane per
risolvere i casi – anzi, l’opposto. Senza Jane, non
passava guai con i suoi
superiori. Senza Jane, non aveva i pubblici ministeri che le soffiavano
sul
collo per tecnicalità. Senza Jane, non c’era
bisogno che ricorresse a
trucchetti per chiudere le indagini, né che mettesse a
rischio la sua
vita.
Ma
le mancava, Dio se le mancava.
Le
mancava tutto il team, a dirla
tutta, seppure non avesse avuto eccessivi contatti con loro. Non sapeva
cosa
dire, non sapeva come comportarsi, e come in quasi tutte le occasioni
in cui si
trovava ad avere a che fare con i suoi sottoposti, o ex, si trovava a
disagio,
si sentiva di nuovo l’adolescente imbranata che era stata in
gioventù. E poi…
poi si sentiva in colpa per non aver condiviso, per non aver ammesso, e
non
sapeva davvero come gestire la cosa – la notizia della
gravidanza. Cho non ne
era stato sorpreso, ma, come suo solito, si limitava al minimo numero
possibile
di domande, il più impersonali possibili; Rigsby aveva
finito per parlare
dell’ultimo show televisivo, e paragonare le loro esperienze
di neo-genitori
non gli era nemmeno passato per il cervello; Grace si era convinta che
Lisbon
stesse scappando d auna relazione autolesionista (emozionalmente, non
fisicamente) e che l’uomo dell’ora non volesse
prendersi le sue responsabilità.
E non, non parlava di Mashburn. Era ironico, che Grace si fosse
convinta che
lei e Jane fossero stati a
letto
insieme, quando lui non lo sapeva nemmeno che lei esisteva.
Non
negava, però, che ci aveva
pensato.
Aveva
fantasticato su Jane,
più e
più volte in passato, ed a un
certo punto, sì, se lo era anche chiesto, come sarebbe stato
portare in grembo
un figlio suo, ma Jane non si era mai reso conto che lei esistesse;
c’erano
altre donne a cui pensare, non certo il capo cinico e stronzo e
maschiaccio.
Per questo aveva preso in mano le redini del problema, seppure la notte
avesse
ancora pianto- e lo stesse ancora facendo – perché
desiderava, folle, che lui
si svegliasse e si rendesse conto che lei era lì, che era
lei, che era sempre
stata lei, e che sì, poteva essere di nuovo un marito, di
nuovo un padre, e che
poteva essere lei la sua donna, loro il bambino…
Non
era successo.
Jane
non aveva avuto strane
epifanie, tutt’altro, a dirla tutta, e lei, ora, era sola,
volente o nolente.
Oh, certo, aveva Tommy e Annie, ma non era la stessa cosa. Loro erano
la loro
famiglia, ma non avrebbero potuto prendere il posto di un padre, e non
sarebbero potuti essere la sua fianco come solo un compagno avrebbe
potuto
fare. Era in quei
momenti che stava
male, in quegli istanti che piangeva. Come quando, solo pochi giorni
prima, il
medico le aveva annunciato l’arrivo di una bambina, era stata
felice, una
piccola da viziare, una principessa, ma era sola, non aveva nessuno con
cui
condividere quella notizia, nessuno che potesse attendere con quella
stessa
trepidazione l’arrivo della piccola… era sola, e
da sola lo stava facendo, di
sua scelta. In teoria, tutto andava bene, tutto era perfetto, ma era
triste,
svuotata, e le mancava quella casa a cui ora non poteva più
fare ritorno. Sarebbe
passata, si diceva, sfiorando col un sorriso triste il suo ventre. Con
l’arrivo
della piccola, la sua vita avrebbe finalmente avuto il senso che mai
aveva
avuto, sarebbe stata, se non perfetta né
completa…. Sarebbe stato quello che
più si avvicinava ad un senso di perfezione e completezza
che mai e poi mai
aveva provato prima di allora. Perché non sarebbe
più stata sola, non avrebbe
più avuto solo una casa vuota ed il suo lavoro. Presto,
avrebbe avuto la sua
piccola a cui pensare. Ma non era ancora giunto quel momento, non aveva
ancora
stretto il fagottino rosa tra le braccia, perché, Lisbon lo
sapeva, solo allora
la realtà si sarebbe finalmente manifestata in tutta la sua
grandiosità, solo
allora avrebbe capito cosa significasse essere madre, cosa avrebbe
fatto per
lei, solo allora avrebbe potuto mettersi tutto alle spalle e
dimenticare le
delusioni e le promesse vuote che le erano state fatte.
Credeva
fosse così, e forse, in
parte, aveva ragione, ma quando, quell’assolato pomeriggio,
davanti a un
chiosco di brioches, sentì la familiare voce chiamarla per
nome, tutto, o
quasi, cambiò, e una piccola luce, una fiammella di
speranza, tornò a inondare
il suo mondo.
“Teresa?
Sei tu? Cosa ci fai
qui?” Si voltò, e in silenzio sorrise
all’uomo, un po’ timidamente, a dirla
tutta. Erano passati oltre due mesi dall’ultima volta in cui
aveva sentito
Mashburn, e ancora di più dall’ultima volta in cui
era stata ospite gradita del
suo letto, e mai aveva condiviso con lui il suo desiderio di
maternità, conscio
che spaventare quell’uomo, che tutto sommato era suo amico,
sarebbe stato
inutile. Perché fargli- lasciargli -credere che desiderava
un figlio da lui,
quando invece non era così?
“Ci
lavoro. Sono il responsabile
dell’unità persone scomparse qui a San Francisco,
ora” rispose, arrossendo,
abbassando lo sguardo sul suo ventre, che ormai faceva bella mostra di
sé di
fronte al mondo rivelando a tutto e tutti la sua gravidanza.
Inconsciamente,
una mano si posò su quello stesso ventre, coperto dal fresco
top pre-maman di
seta beige, svolazzante, quasi avesse voluto difendere da qualche
attacco la
creatura.
“Accidenti,
abbiamo fatto
carriera, eh?” incrociò
le braccia
appoggiandosi al vicino tavolo da pic-nic, e mentre lei continuava ad
arrossire, la guardava con ammirazione, con un sorriso gigante,
brillante. “Dio,
sei… sei davvero bellissima, Teresa. La gravidanza ti rende
ancora più bella e…
misteriosa.” Arrossì, morendosi le labbra, e di
nuovo si massaggiò il ventre,
nonostante stavolta fosse per compiacimento. “Patrick non
dovrebbe permettere
che una donna così bella stia lontano dalla sua vista.
Incinta o no, gli uomini
si fanno delle idee, sai? Se fossi la madre di mio figlio, non che io
ne sappia
qualcosa sull’argomento, non ti perderei mai di vista,
nemmeno per attimo.”
Teresa
si irrigidì, e la amnio
che aveva accarezzato il ventre fino ad un attimo prima si
fermò, afferrando e
stringendo un pezzo di stoffa del top più forte che poteva,
mentre teneva gli
occhi serrati, stretti, cercando di soffocare le lacrime. La
felicità, la gioia
e la spensieratezza che fino ad un attimo prima l’avevano
pervasa di nuovo
scomparvero, e tristezza e senso di colpa bussarono nuovamente con
prepotenza
alle porte del suo io. “Non so di cosa tu stia parlando,
Walt. Jane non è il
padre della mia bambina. Non capisco perché la gente si
faccia quest’idea.”
Mashburn
lasciò cade le braccia
lungo i fianchi e si morse la lingua quando vide il volto di Teresa
rabbuiarsi.
Era chiaro oc eh aveva sbagliato, o che, se quel bambino fosse stato di
Jane,
era stato in qualche modo rifiutato- una cosa non così
strana, fosse stata
anche vera, visto cosa era accaduto alla primogenita
dell’uomo. “Oh” si limitò
a dire. “E’…”chiese
timidamente, indicando con un dito se stesso e poi il
ventre della donna.
“NO!”
replicò lei, indignata, la
sua voce così acuta che sembrò un urlo. Certo, lo
sapeva, Walt non era esperto
di bambini, né sentiva il desiderio di avere figli, non
più, dopo la rottura
del suo primo fidanzamento, anni prima, ma ormai erano anni che si
frequentavano sporadicamente parlandosi relativamente spesso. Walt non
sarebbe
mai stato la sua scelta in fatto di mariti, ma di certo, non per
questo,
sarebbe stata in grado di tenergli nascosta una cosa del genere, se mai
fosse
accaduta. E non era accaduta. “Ho… uhm…
preferito l’opzione della… procreazione
artificiale.” Ammise, chiudendo gli occhi per la vergogna.
Non che dovesse
davvero vergognarsi, né dovesse difendersi con lui. Non gli
doveva alcuna
spiegazione.
“Oh…
oh! Si, certo, scusa, solo,
è che… ho sempre pensato che… credevo
che Jane fosse…. Come dire…. Interessato. Ricordo
chiaramente pupille dilatate
e un torvo sguardo omicida nei miei riguardi…”
fece una pausa, vedendo che
l’argomento la metteva a disagio, e che a stento Teresa
soffocava le lacrime.
Scrollò
le spalle, con un sorriso
che però era chiaramente tirato, chiaramente amaro.
“Beh, lo pensavate in
tanti, ma non è così. Posso dire con assoluta
sicurezza che Jane non è
interessato alla sottoscritta.” A
dirla
tutta, conosceva almeno due motivi per cui aveva la certezza che lui
non fosse
minimamente interessato a lei, ma li tenne per sé. Non aveva
la benché minima
voglia di spiegare cosa non andasse nella sua vita, o peggio, in lei, o
nella
sua meravigliosa bambina.
“Beh,
allora, in questo caso, per
farmi perdonare della mia insensibilità e della mia mancata
presenza nei mesi
passati, credo proprio che dovremmo fare qualcosa al
riguardo… cena per le
signore?” Cinse le spalle della donna con un braccio,
sorridendo dolce e
sincero, un sorriso molto diverso da quello che Jane troppo spesso le
aveva
riservato (un sorriso falso, manipolatore, e triste, si
ripeté, ancora e
ancora, per l’ennesima volta)e la guidò lontano da
dove si trovavano, verso la
sua macchina, senza darle tempo di obbiettare. Non che Teresa lo
avrebbe mai
fatto. La distrazione le sarebbe servita, ed era più che
benvenuta.
Per
una
sera, non avrebbe pensato alla lettera che aveva ricevuto diverse
settimane
prima, e che le aveva fatto sanguinare il cuore con al piena
consapevolezza che
tutto quello che aveva sempre desiderato non si sarebbe mai realizzato,
che
tutti i songi erano ormai svaniti. Niente epifanie per Jane, e niente
speranza
per lei.
Avevano
avuto un caso a San
Francisco; non
stavano lavorando né con
Lisbon, né con la sua squadra; a dirla tutta, non
l’avevano nemmeno intravista,
dato che, a detta dei colleghi, era già in
maternità, ma Jane non ce l’aveva
fatta, non aveva resistito. Appena aveva saputo dove sarebbero andati,
era
corso a casa, e mentre Lorelai era distratta, aveva preso il carillon
che era
stato di Charlotte, con la chiara intenzione di darglielo, di vederla,
di
parlarle.
Sentiva
la sua mancanza.
Il
lavoro, senza di lei, era
noioso, e fare arrabbiare Cho non dava la benché minima
soddisfazione,
soprattutto perché Cho non si arrabbiava, si limitava ad
abbandonarlo dove si
trovava senza cambiare espressione.
E
poi, di certo non poteva giocare al marito e moglie sotto copertura con
Cho, se
non in certe particolari situazioni, in cui, in tutta franchezza,
temeva per la
propria virtù.
Ma
non era solo questo. Gli
mancava stare in ufficio fino a tardi sentendola battere al computer,
gli
mancava darle una brioches o il caffè, nelle mattine in cui
era particolarmente
tesa o nervosa, gli mancava perfino fare animaletti con
l’origami per farsi
perdonare - Grace non li apprezzava allo stesso modo- ma soprattutto,
gli
mancava sentirle dire che si preoccupava per lui.
Doveva
vederla. Doveva parlarle.
Doveva capire.
Aveva
saputo molte cose,
curiosando in giro tra i colleghi della donna, sapeva che il bambino
– una
bambina, che era certo avrebbe avuto i capelli scuri ribelli della
madre e
sarebbe stata una piccola principessa viziata - -
non era ancora nato, ma che, tuttavia, Teresa
era già a casa, in riposo, sentendo appieno il carico della
gravidanza sul suo
fragile corpo. E
aveva saputo dove
poterla trovare, quella casa in cui lei si trovava, e quando
l’aveva vista, non
era rimasto per nulla sorpreso: quella casa, quella cassa perfetta, che
gli
faceva brillare gli occhi, era la casa di una famiglia.
Suonò
il campanello, una, due,
tre volte, fino a che la porta non si aprì, ed entrambi
rimasero in silenzio,
col respiro che gli moriva in bocca, Teresa sorpreso di vederselo
lì, con un carillon
da culla in mano, nervoso, ma felice allo stesso tempo, e
Jane… Jane, semplicemente,
non poteva staccarle gli occhi di dosso. Sapeva che le donne divenivano
splendenti, meravigliose in gravidanza- era stato padre, dopotutto
– ma credeva
che fosse un sentimento provato solo dai compagni di quelle donne;
tuttavia,
non sembrava essere il caso, perché Teresa era…
non aveva parole. Teresa era
meravigliosa, con i jeans a vita bassa e la camicetta bianca che le
copriva il
pancione di quasi nove mesi, un netto contrasto con i lunghi e sciolti
capelli
scuri, che le ricadevano in morbide onde naturali sulle spalle e lungo
la
schiena; la pelle, molto chiara per una donna che aveva vissuto per
oltre metà
della sua vita in California, non aveva mutato tonalità, m
aveva guadagnato in
lucentezza, splendore, luminosità. Era come se Teresa fosse
un sole che
irradiava con la sua luce tutto quello che le stava accanto, come una
sorta di
Dea genitrice delle leggende orientali.
“Jane…”
sussurrò lei con la voce
rotta, un sussurro roco così basso che l’uomo
dovette quasi leggerle le labbra
per capire che era il suo nome che lei aveva pronunciato con stupore e
un misto
di gioia.
Lui
non parlò, ma,
istintivamente, quasi fosse stato colto da un’epifania, si
mosse verso di lei,
come quell’ultima sera; stavolta, però, non
avrebbe avuto ripensamenti, stavolta
sarebbe andato fino in fondo, non avrebbe perso altro tempo, non poteva
più
permetterselo, o sarebbe stato troppo tardi. Mentre lei sfiorava il
gilet con i
palmi, Jane posò una mano sulla spalla, per avvicinarla
ulteriormente al
proprio corpo, e con l’altra sfiorò, possessivo,
il ventre rigonfio di vita; le
loro bocche erano, finalmente, a pochi millimetri di distanza,
già socchiuse,
quando una voce dall’interno della casa li distolse dal loro
obbiettivo, dal
loro desiderio, riportandoli bruscamente alla realtà, una
realtà in cui lui
aveva Lorelai, e in cui lei attendeva un figlio, non suo, non di lui.
A
quanto pareva, però, Teresa
aveva già trovato un padre surrogato per la sua creatura.
“Teresa,
che ne dici di Samantha?
O magari Jessica o Luce… credo proprio che dovresti
deciderti, davvero credi
che saprai il suo nome quando l’avrai in braccio? Non dico di
essere un esperto
in maniera, però… ehi, che ne dici di Alice? Come
Alice nel paese delle
meraviglie….” Walt, sorridente e con un libro di
nomi rosa in mano, si
fermò in mezzo al corridoio quando vide il
biondo alla porta, trasalire e ingoiare a vuoto, occhi vuoti e colmi di
rabbia,
il famoso sguardo assassino che era certo di aver visto in
più di un’occasione nel
corso degli anni. “Jane…”
“Teresa
aveva paura di Alice nel
paese delle meraviglie da piccola, perciò le escluderei, ma,
uhm, comunque…. scusatemi,
non volevo intromettermi. Ho solo portato un pensiero per la
bambina.” Diede il
giocattolino nelle mani della donna, e fece per darle come quella
notte, un
bacio sulla guancia, ma non poté fare nemmeno quello, non ce
la fece, non con
Mashburn sulla soglia con in mano un libro su cui era scritto il nome
che
Teresa avrebbe dato alla sua bambina, una bambina che non il mentalista
avrebbe
visto crescere, ma il miliardario.
Teresa non aveva voluto dirgli di essere incinta. Teresa
non gli aveva
chiesto di fare da padre alla creatura, né come surrogato,
né come padre
biologico. Teresa non lo aveva voluto.
Teresa
aveva scelto Mashburn.
Teresa
aveva scelto Mashburn, ed
ora era troppo tardi per farle cambiare idea, troppo tardi per lei, che
aveva
un padre per la piccola, e troppo tardi per lui, che era ormai
prossimo,
nonostante fosse ancora un po’ riluttante, alle nozze con Lorelai. Non sapeva cosa gli
fosse passato per
la testa, cosa avesse pensato di fare, quella ormai era la sua vita, e
avrebbe
dovuto accettarla così com’era, non tentare la
sorte con storielle assurde e
castelli campati per aria. Teresa non era sua, non lo era mai stata,
né mai lo
sarebbe stata.
Se
ne andò via, soffocando le
lacrime, mentre lei tentava di farlo tornare a sé, di
chiamarlo. Non la
sentiva, forse perché non voleva sentirla, e se ne
infischiò delle grida, delle
lacrime della donna che lo richiamava a sé, che diceva di
aspettare, di
ascoltare… Non poteva farlo, si disse, era sbagliato, era
tutto così
terribilmente sbagliato…
Ma
soprattutto, lui non ne aveva
alcun diritto di ascoltarla, né di chiedere spiegazioni.
Teresa e la creatura
non erano sue come lui non era loro. Lei, loro, appartenevano ad un
altro, come
lui apparteneva ad un’altra donna.
In
un'altra vita, un altro mondo, avrebbe potuta averla, ma in questo l’aveva persa
perché era stato troppo
codardo, troppo orgoglioso per inseguire quello che aveva sempre
desiderato, e
adesso era tardi.
Sarebbe
dovuto restare a casa, si disse. Sarebbe dovuto restare a casa a
organizzare le
sue nozze con Lorelai, invece di sperare e sognare. I sogni non si
realizzavano, mai, si disse, non per quelli come lui, almeno. E
dopotutto, lo
sapeva: quell’agognata felicità, lui non la
meritava. Lui non la meritava, ma
lei sì, e se quell’uomo era quello che lei aveva
scelto, così doveva essere;
restava però che il cuore gli faceva male, e che il
rimpianto riempiva il suo
essere, ma era troppo tardi. Era troppo tardi, e non era giusto, per
nessuno,
per lei, per Walt e per Lorelai.
Nemmeno
per lui, ma lui non era importante, non era degno. Non lo era mai
stato. Né mai
lo sarebbe stato.
Lorelai
aveva deciso di sposarsi
in chiesa.
Il
matrimonio religioso non era
mai stato una cosa che lui aveva desiderato, né in cui aveva
creduto. Non lo
aveva fatto in gioventù, quando era cinico e avido,
né lo aveva fatto dopo,
quando credere in un potere superiore che desiderava la sofferenza, la
morte di
una creatura innocente quale era una bambina era diventato troppo
doloroso,
troppo difficile da concepire. Perciò no, lui non voleva il
matrimonio
religioso. Ma non era contrario, non se faceva felice Lorelai. E
Lorelai aveva
bisogno di essere felice, aveva bisogno di essere certa che lui fosse
lì, con
lei, che era lei che Jane aveva scelto. Perché spesso si
chiedeva dove fosse, a
chi volasse il suo pensiero, e per quanto amareggiasse lo stesso uomo,
molte
volte il suo pensiero non era rivolto alla prima moglie, ma a quella
donna che
lui non aveva mai avuto. Teresa.
Il
bambino sarebbe nato a giorni,
rifletté Jane, mentre, davanti allo specchio della
sacrestia, dava un ultimo
tocco al papillon, un’altra delle cose che Lorelai gli aveva
chiesto, come pure
il matrimonio sfarzoso o l’abito bianco. Il bambino- la
bambina, si corresse –
sarebbe nato a giorni, e lui non avrebbe mai visto quello creatura, ma
soprattutto, non avrebbe mai più assistito a quella scena
che tante volte gli
aveva tolto il fiato, Teresa con un bambino in braccio, il suo istinto
materno
al pieno. Teresa aveva sempre desiderato un bambino, avrebbe dovuto
capirlo
tanto tempo addietro, e tanto tempo addietro avrebbe dovuto fare
qualcosa al
riguardo, ma adesso… adesso era troppo tardi. Teresa aveva
un altro, e anche
lui… lui ora aveva degli obblighi verso Lorelai, volente o
nolente.
“Rick?”
il suo nome sussurrato
con tale preoccupazione non era una novità, ma Jane credeva
che Lorelai avesse
passato quella fase in cui temeva che un’altra donna lo
avrebbe portato via da
lei, o che lui non sarebbe mai stato in grado di impegnarsi pienamente
con lei,
tuttavia, quella voce spezzata, bassa, colma di lacrime non piante e di
dubbio
raccontava un’altra storia.
Si
voltò verso di lei, sulla
porta socchiusa, con indosso l’abito bianco, lungo, con lo
strascico ed il velo
di pizzo antico che aveva fatto venire dalla Spagna, e le sorrise,
certo che
prima o poi sarebbe riuscito a darle tutto quello che voleva, tutto
quello che
lei desiderava e si meritava. Lorelai gli aveva dato la spinta
necessaria ad
andare avanti, era il minimo che lui ricambiasse il suo amore. E
poi… poi,
cos’altro avrebbe potuto desiderare dalla vita? Lorelai era
la donna perfetta.
Doveva darsi una calmata, doveva decidersi ad accettare la vita, ed
essere
grato che lei si fosse innamorata proprio di lui.
“Ehy,
ma non eri tu quella che
diceva che lo sposa e lo sposo non si devano incontrare il giorno del
matrimonio e che, soprattutto, l’abito da sposa è
un tabù fino alla camminata
davanti all’altare?” le chiese, scherzando,
raggiungendola e dandole un veloce
bacio sulle labbra; Lorelai, però, non rispose, ma si
irrigidì, cupa.
“Un
tuo vecchio amico vorrebbe
parlarti. Si tratta di Teresa.” Fece una pausa, abbassando il
viso, gli occhi
semichiusi e lacrimanti, e quando parlò, la sua voce fu sola
mente più un
sussurro. “Perché non me lo hai detto?”
Rise,
cinico, nervoso, deluso,
arrabbiato. Aveva capito di cosa la donna stesse parlando, come aveva
capito
quali fossero le conclusioni a cui era arrivata, conclusioni sbagliate,
affrettate, cose che non avrebbe mai dovuto concepire o prendere in
considerazione, non se lo conosceva come diceva di fare.
“Andiamo, lo so che
non ti sarebbe interessato! A te Teresa non è mai piaciuta,
la chiamavi una…
zitella stronza e fascista credo sia l’espressione che usavi
più spesso per
descriverla.”
“NON
MI PIACEVA PERCHE’ ERA
INNMAORATA DI TE!”
Jane
le si avvicinò,
massaggiandosi i mento con una mano, e la guardò negli
occhi, parlando poi
lentamente, con voce bassa, quasi lei fosse stata una bambina, o in
preda a una
qualche crisi isterica. “Lori, Teresa ed io non siamo mai
andati a letto
insieme. Non so cosa immagini, ma contrariamente a quanto credeva Van
Pelt, io
non sono il padre di sua figlia.”
“MA
LEI LO VOLEVA! HO VISTO LA
FOTO, E IL DONATORE CHE HA SCELTO E’ LA TUA COPIA!”
“Lorelai”
sibilò il suo nome per
esteso “smettila di urlare, hai voluto tu il matrimonio in
chiesa, non puoi
comportarti così!”
“Perché
non lo neghi? Perché non
mi dici che sto immaginando tutto? Perché cambi
discorso?” iniziò a colpirlo, i
pugni che colpivano il petto di lui, che tentava di trattenerla, di
calmarla,
ma inutilmente. “Lori,
smettila, io amo
te, io ho scelto te, io sono qui e sto per sposare
te…” Lorelai singhiozzò,
piangendo sulla camicia di Jane, macchiandola di trucco e di gocce
perlacee,
per minuti che sembravano ore, mentre, al di fuori della sacrestia, il prete ed il suo diacono
battevano contro
il legno massiccio della porta richiamando la coppi
all’ordine e alla
compostezza, immaginando chissà quali scandali.
La
voce di Padre Ralph, che
urlava di sbrigarsi perché la cerimonia sarebbe iniziata a
minuti, richiamò
Lorelai alla compostezza, facendo ricomparire quell’aria
pacata che la
contraddistingueva, quell’aria di superiorità e
perfetta compostezza che era
sempre, o quasi, con lei. “Le hai regalato un carillon che
era di Charlotte. Lo
hai fatto perché avresti voluto che, in un mondo perfetto,
quel figlio fosse
stato tuo?” gli chiese a occhi bassi, rossi ma fieri e
feroci, la voce
tagliente come la lama di un rasoio.
“Sì”
ammise infine lui dopo
lunghi, interminabili istanti che parvero ore, i pugni stretti, le
braccia che
ricadevano ai lati del suo corpo, pesanti, quasi quella confessione
avesse
legato un macigno al suo essere. “Ma non ha importanza. Lei
non è qui, noi sì.”
“Lei
non lo ama.”
“Cosa….?”
“L’amico…
è un tale di nome
Mashburn. Il tizio della Ferrari di cui mi avevi raccontato, no? Mi ha detto… mi
ha detto che eri andato da
Teresa, ma te n’eri andato perché lo avevi visto.
Lui… lui mi ha detto che….
Non c’è niente tra loro. Lei non lo ama, e non lo
amerà mai, perché… perché
lei
ti ama. Lei vuole te.” fece una pausa, e sorrise, quasi
isterica, con le
lacrime agli occhi. “e… e se tu la ami, allora non
dovresti essere qui, perché
faresti del male a lei e a me, e finiresti con
l’odiarmi… e io non lo voglio.”
“Lori…”
fece per dire, ma lo
bloccò, con due dita sulle labbra. Jane le sorrise, e la
abbracciò, un
abbraccio casto, il loro ultimo abbraccio, e le sue labbra
accarezzarono la
fronte della donna prima che lui aprisse la porta, trovandosi davanti
padre
Ralph, il suo diacono e Mashburn che, braccia incrociate e schiena
contro il
muro, gli sorrise con quel ghigno da gatto di Alice nel Paese delle
meraviglie.
“Ehy,
Walt” disse lui,
scherzosamente, col suo solito sorriso malandrino, prima che quel
sorriso
venisse cancellato dal suo volto dal pugno chiuso che collideva con le
sue
mascelle. Il pugno di Walt, un pugno così forte che lo face
cadere a terra.
“Ehy!”
“Questo
è per Teresa e per la
bambina, ma soprattutto perché, a causa tua, non
avrò mia una vera possibilità
con quella donna meravigliosa.” gli rispose, prima di
offrirgli la mano per
rialzarsi. “Sai, oso dire che voi bambini dovreste parlare un
po’ di più.
Teresa non avrebbe voluto altro che fossi stato tu il padre della
piccola, e
tu, lasciatelo dire, ma quella sera credevo mi volessi uccidere per
aver
usurpato il tuo posto.” Patrick scosse la testa, ridendo tra
sé e sé. Walt
aveva ragione. Tutto quello che era successo, era accaduto
perché erano stati
troppo cocciuti, troppo orgogliosi, e sì, troppo spaventati;
avevano preferito
non amare, piuttosto che rischiare di perdere coloro che amavano.
“Grazie
di esserti preso cura di
loro.”
“Oh,
figurati. Sono un commerciante
di armi, e questa è stata la mia buona azione
annuale.” Scherzò, scrollando le
spalle. “Comunque, Teresa in questo momento
è ricoverata nel reparto di ginecologia
dell’Ospedale Generale di San
Francisco, stanza 412…”
“cosa..
stanno bene?”
“Credo
l’abbiamo ricoverata
perché stressava troppo tutti, se stessa compresa. Non dico
che sia paranoica,
ma a volte quella donna è un
po’….”
“Oh,
a Teresa piace coprire tutte
le basi possibili. E’ una persona precisa e scrupolosa, per
questo l’ho sempre
fatta impazzire!”
“Oh,
sì, non dirlo a me. Il suo
costante Patrick qui, Patrick là rendeva palese che avesse
un debole per
te. Gli unici a non averlo capito siete stati
voi due, la grande
detective ed il geniale mentalista.” Scrollò le
spalle e di nuovo rise
nervosamente, prima di riprendere a parlare. “Ok,
allora… Teresa dovrebbe
partorire tra un paio di giorni, perciò, se ti dai una
mossa, magari riesci a
diventare il suo ragazzo prima che il padre di sua figlia,
ok?”
Jane
accennò col capo, poi si
mosse, fermandosi però pochi metri dopo, voltandosi verso
l’amico. “Walt, mi
spiace. So che tu
la…”
Mashburn
scrollò le spalle, e
sorrise, fermando Jane prima che potesse procedere oltre. Conosceva le
parole,
e contrariamente a quanto si potesse credere, quando si trattava di
Teresa
Lisbon, nel corso degli anni le aveva più e più
volte pensate. Ma quel
pensiero, quel desiderio, non si era mai concretizzato. Sapeva, aveva
sempre
saputo, che sarebbe stato impossibile, fin dal primo istante, ma non
per questo
aveva smesso di sperare. Ora, però, si trovava dinanzi al
fatto compiuto. “Ah,
tanto non vi siete ancora sbarazzati di me! Lo zio Walt che vizia la
sua
nipotina con regali da capogiro sarà una figura centrale
della vostra
esistenza, e vi farò detestare da vostra figlia, facendovi
passare per
taccagni!”
Jane
sorrise, e se ne andò, di corsa.
Diretto
verso il suo futuro, un futuro che, stavolta, avrebbe abbracciato, per
cui
avrebbe lottato. Se lei lo voleva, sarebbe stato suo.
Il
personale dell’ospedale lo
guardava neanche fosse stato un pazzo; aveva lo smoking stropicciato,
era
pallido, con le occhiaie, sudato e col fiatone, e dove Walt
l’aveva colpito si
stava formando un livido violaceo. E sembrava in preda ad una crisi di
nervi
mentre correva da una parte all’altra del corridoio alla
ricerca della stanza
corretta. Patrick
Jane non era
decisamente al proprio culmine, e nessuno, ma proprio nessuno, sembrava
essere
mosso dal suo fascino.
“…sua
moglie sta per partorire?”
si voltò di scatto, e una giovane, timida e amichevole
infermiera gli si parò
davanti, col sorriso sulle labbra. Doveva essere ancora abbastanza
giovane da
credere ancora nelle favole, e, se fossero stati tutti fortunati, forse
avrebbe
addirittura assistito ad un lieto fine reale.
“Sì…
cioè… no, non è mia moglie,
è la mia….fidanzata, cioè, non lo
è ancora, ma lo sarà se mi vorrà
ancora,
perché io non mi vorrei, ma comunque, ecco, non lo so!
Dovrebbe essere
ricoverata qui, ma non la trovo, perché mi hanno detto che
era nella 412, ma
nella 412 lei non c’è, ed io non
so…”
“412?
Teresa Lisbon? La
detective?” Jane fece cenno di sì con la testa,
concitato, seppure la
definizione fosse parzialmente inesatta. “Oh, è
stata spostata nell’ala delle
neo-mamme… ha partorito alcune ore fa.” Lei lo
guardò, squadrandolo con fare
interrogativo, poi, si avvicinò ulteriormente, neanche fosse
stato un raro animale
rinchiuso in una
gabbia per essere studiato
per chissà quali fini scientifici. “lei
è Jane?”
“TERESA
HA CHIESTO DI ME?”
“Più
che chiesto… pianto. Una mia
collega, piuttosto acida, ha detto che di sicuro il detective Lisbon
stava
chiamando la sua ragazza, perché non c’era verso
che un uomo sopportasse una tale
zitella acida e fascistoide.”
“Jane
è il mio cognome. Sono Patrick,
signorina…”
“Trevor,
Denise Trevor. Vuole che
l’accompagni da Teresa? Credo stia ancora dormendo, ma
dovrebbe svegliarsi
presto. Nel frattempo, può tenere un po’ in
braccio sua figlia se…” mentre
camminavano l’uno al fianco dell’altra, Jane storse
il naso, più per rimorso
che altro, e lei arrossì, capendo,
dall’espressione del volto dell’uomo, che
aveva corso troppo. Jane poteva essere il “Jane” di
Lisbon, ma non era il padre
della bambina. Il come e il perché, non la riguardavano;
l’importante era che
quell’uomo fosse lì per loro, e loro sole.
“Eccoci. Passerò più tardi col
biberon, nel caso il detective Lisbon non fosse ancora
sveglia.” Jane fece
cenno di sì col capo, e senza ancora correggere la giovane
infermiera, entrò
nella stanza, richiudendosi la porta alle spalle, senza fare alcun
rumore, e
sempre senza fare rumore prese posto accanto al letto della donna che
sapeva di
amare.
Sdraiata
nel letto, Teresa
dormiva, con un’aria di beatitudine completa, i capelli
sparsi intorno al suo
capo come una corona, il sorriso sulle labbra che contrastava con i
lineamenti
tirati, stanchi, ma allo stesso tempo, rilassati. Al sua fianco, una
piccola
culla su ruote, trasparente, con un batuffolino rosa al suo interno. Un
vispo e
sveglio batuffolino rosa, che non sapeva ancora sorridere, ma faceva
bella mostra
di sé, già vanitosa, con i suoi occhietti azzurri
e i due ricciolini neri che
le spuntavano sul capo. La
piccola- Baby
Lisbon – teneva i pugni stretti, e guardava, facendo versetti
silenziosi, quasi
non avesse voluto svegliare la madre. Davvero aveva quasi rinunciato a
questo,
a una tale perfezione?
La
prese in braccio, e lei iniziò
a giocherellare col suo naso, facendolo ridere, una risata mista a
lacrime, ma
lacrime di gioia, lacrime che da tanto, troppo tempo lui non
sperimentava più. “
Sai, secondo me sei una Isabelle, se non fosse che tutti ti
chiamerebbero Bella
e se ne uscirebbero con la storia di Twilight… è
un nome da principessa,
antico, e tu… credimi, noi ti vizieremo. Lo zio Walt di
sicuro, e io, lo spero.”
Fece una pausa, poi, senza distogliere gli occhi dalla piccola, prese a
parlare,
ma con un’altra persona. “Tua figlia ha i tuoi
capelli.”
“Siete
molto carini insieme”
sussurrò lei, sorridendo alla scena. “ha i tuoi
stessi occhi. Se vi vedessero
insieme, direbbero che è tua.”
“Già,
direbbero che è nostra.” Si
sedette al suo fianco, ancora con la piccola in braccio, che iniziava a
scalciare
e dare pugnetti, facendo piccoli capricci reclamando la sua dose di
cibo. “ a
cosa pensi?”
“Voglio
un’altra dose di qualsiasi
cosa mi abbaino dato” sorrise, e lui si chinò su
di lei, e stavolta, benché
breve, le sua labbra sfiorarono in un casto bacio quelle di lei.
“accidenti,
deve essere bello forte. Credo perfino che tu sia davvero
qui….”
Risero
entrambi, mentre lui di
nuovo la baciava, ma stavolta con più passione, e Teresa,
aggrappandosi alla
giacca di lui, piangeva. “Jane, credevo che oggi
tu….”
“Walt
si sta prendendo cura di
lei” aggiunse, ridendo, nascondendo il viso
nell’incavo del collo della donna. “Io
invece devo pensare a voi. Vi amo. Ti amo.”
Mentre
si scambiavano altre
tenere effusioni, assaporandosi l’uno con l’altra
come due assetati, l’infermiera
tornò, con un nuovo braccialetto, e lanciò uno
sguardo complice alla coppia, dicendogli
con gli occhi cosa voleva sapere.
“Si
chiama Isabel” iniziò lui.
“Isabel
Jane” terminò lei la
frase, baciandolo, suggellando così la loro promessa per il
futuro. Un futuro
che, stavolta, avrebbero affrontato insieme.