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Autore: Gemini_no_Aki    20/04/2012    4 recensioni
«I secondi, i minuti passavano e nessuno dei due si muoveva, il vento scuoteva le foglie e i rami, nessuno li avrebbe disturbati e loro non avrebbero disturbato nessuno, né fatto scena.
Gli unici spettatori erano file di lapidi lucide e anonime nella notte, sicuramente non sarebbero andate loro a lamentarsi.»

POST-REICHENBACH
Un altro uomo oltre a John Watson è rimasto solo dopo la morte di Sherlock. Un uomo che ha visto il suo capo uccidersi.
Per John e Sebastian questo è solo un nuovo, piccolo gioco.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim, Moriarty, John, Watson, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'King and Tiger'
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The twilight years


“Ogni giorno, dalle 18 alle 18.23. Con qualunque tempo, anche se stesse scoppiando l’inferno sulla Terra tu per 23 minuti staresti qui. Immobile. Perché?”
In quegli ultimi mesi John aveva pensato a lungo a cosa fare di lui arrivando alla conclusione che, ogni volta che si presentava a New Scotland Yard per informare Lestrade, finiva col desistere.
Sotto molti aspetti erano così simili, aveva avuto modo di capirlo ogni volta che l’uomo si metteva a dialogare con lui.
Un dialogo senza risposte, si limitava ad ascoltare quelli che riteneva “sproloqui senza senso”.
Ma un senso lo avevano eccome, li rendevano perfettamente uguali, o quasi almeno.
Avevano lavorato entrambi per una mente geniale, su due fronti opposti, erano soldati, reduci dalla guerra, abituati alla morte e senza legami veramente importanti.
Aveva così finito spesso col pensare a cosa sarebbe accaduto se le cose fossero andate in modo diverso, se lui avesse incontrato Moriarty.
I loro ruoli, invertiti... Si sarebbero ritrovati comunque li, quello stesso giorno, senza guardarsi.
E lui avrebbe passato le sere pensando a cosa sarebbe accaduto se avesse incontrato Sherlock, in una seconda realtà parallela a quella che già aveva creato.
“Mi stai pedinando? Potrei denunciarti per stalking.”
Si decise infine a parlare, probabilmente era quello che l’uomo voleva, oppure avrebbe continuato a seguirlo, parlargli, innervosirlo.
“No, ti vedo tutti i giorni. Era una domanda innocente.”
Finalmente John alzò la testa per guardarlo.
Conosceva il suo aspetto, lo vedeva ogni giorno, in quel cimitero, ma l’aveva sempre ignorato, non gli interessava l’aspetto quanto gli occhi.
Gli occhi potevano dire tutto.
“E tu, perché sei sempre qui?”
Rispose alla sua domanda, dopotutto, se davvero erano così simili, la risposta non poteva essere tanto differente.
O no?
L’uomo sbuffò a sua volta e incrociò le braccia al petto; la domanda che John gli aveva posto era inutile, oltre che stupida.
“Lo sai già.”
Rispose in tutta calma e tranquillità appoggiandosi ad un albero e cercando di accendere la sigaretta.
John diede uno sguardo rapito all’orologio, 18.27, aveva già perso tempo, a causa sua.
Accarezzò la tomba lucida come sempre e si voltò imboccando il viale che portava fuori dal cimitero.
“Tutto qui? Niente discorsi filosofici sul mio cattivo comportamento, niente denunce a Scotland Yard, niente di niente? Mi deludi dottor Watson.”
La voce era profondamente ironica.
John si voltò ad osservarlo attentamente, come se stesse decidendo se andarsene oppure continuare a ribattere.
“Sei patetico. Legato al passato e senza speranza per il futuro. Non ti è rimasto niente e non-”
“Disse quello che ogni giorno viene a piangere davanti ad una tomba vuota.”
Lo interruppe spegnendo la sigaretta e allontanandosi a sua volta, superandolo.
“Puoi fingere davanti agli altri di essere riuscito a superarlo, a fartene una ragione, ma non convincerai mai te stesso. E così non riuscirai mai ad andare davvero avanti. Sei tu ad essere patetico.”


Due soldati, un medico militare e un cecchino; amici, e amanti, di due menti geniali opposte, menti che si erano create il loro stesso lavoro uno in opposizione all’altro.
Matematicamente parlando gli opposti si eliminano a vicenda, effettivamente era accaduto proprio questo.
Era accaduto che due appartamenti erano diventati troppo grandi e vuoti per una sola persona, le persone intorno erano troppo silenziose o troppo invadenti.
Ogni cosa andava l’esatto opposto di quello che si aspettavano.
L’unico coefficiente comune era la solitudine, avvolgente come una coperta, che ogni giorno che passava si faceva più stretta e soffocante.
E i pensieri, oh, quelli erano una delle parti più brutte.
Rimbombavano nel silenzio delle stanze come se una voce stesse urlando per farsi sentire dal mondo.
Una sensazione di abbandono, di tradimento, di delusione si era ancorata alla loro anima, lacerandola.
Avevano ormai perso tutto, erano così simili che odiavano ammettere la loro somiglianza per un finto ed inutile orgoglio.
Due animali abbandonati su un’autostrada infinita.
Due persone che avrebbero potuto risollevarsi a vicenda se solo avessero voluto.
Ma le scelte fatte una volta sono irrevocabili in certi casi, e quando scegli da che parte stare non è semplice cambiare lato una volta che la guerra infuria.


Ma come da una parte c’erano loro, immobili davanti al futuro, indecisi su cosa fare della loro vita, tentati dal buttare via ogni cosa o disperatamente aggrappati a ciò che rimaneva, così c’era anche un altro lato, silenzioso.
Invisibile per scelta agli occhi del mondo.
Due uomini che, a modo loro soffrivano per le loro stesse scelte.
Uomini che si dicevano abituati alla solitudine, al contare solo su se stessi e che ora dovevano rivedere ogni convinzione, ogni cosa che avevano imparato.
Non c’era più gusto nel continuare il proprio lavoro, sapevano che l’altro non era morto, avrebbero potuto semplicemente ritornare a darsi la caccia, giocare ad acchiapparello come due bambini.
In fondo era solo un gioco, un modo per ingannare la noia, senza la rispettiva controparte ingenua però non c’era più gusto a fare nulla.


Sherlock passava le giornate seguendo John, non se ne sarebbe mai stancato, controllava ogni sua mossa, c’erano stati giorni in cui aveva anche avuto paura.
Ma John era un soldato, chissà quanti commilitoni aveva visto morire, quanti non era riuscito a salvare, il suicidio non faceva per lui.
Altre volte invece sarebbe voluto uscire allo scoperto solo per asciugare le lacrime versate davanti ad una tomba vuota.
Ma non poteva, ogni sera ritornava a casa, o meglio, a casa di Mycroft.
Non riusciva, e mai sarebbe riuscito, a chiamarla casa.
Dopo il primo momento di scontro col fratello aveva accettato il fatto che volesse aiutarlo.
Probabilmente lo faceva solo per cancellare il senso di colpa, non avrebbe mai chiesto scusa in modo diretto e Sherlock, dal canto suo, non lo voleva nemmeno.
Era una convivenza forzata, ma anche l’unica che potesse tenerlo al sicuro.
Con una scusa il maggiore era riuscito ad appropriarsi dello Stradivari abbandonato a Baker Street, John non voleva che gli oggetti appartenenti a Sherlock uscissero da quella casa ma alla fine aveva ceduto.
Dopotutto non sapeva suonarlo, tanto valeva che lo avesse lui, era pur sempre il fratello.
Da quel giorno Mycroft si era spesso pentito della scelta, dal violino non usciva una singola nota buona, solo stridii allucinanti, come miagolii agonizzanti.
Le rare volte in cui riusciva a riconoscere una melodia sensata, o quantomeno ascoltabile lo malediceva per l’orario impossibile.
Non era passato molto tempo prima che Sherlock si accorgesse di aver già vissuto una sensazione simile, nei giorni intorno a Natale, mentre la neve attutiva ogni rumore.
I giorni in cui aveva creduto che Irene Adler fosse morta.
Eppure stavolta era anche peggio, era lui che doveva fare i conti con se stesso, che doveva guardare il suo migliore amico soffrire.
Era lui che si era dovuto fingere morto.
Senza contare che la Donna non era legata a lui sentimentalmente, non da entrambe le parti almeno.
La sua sofferenza, se così si poteva definire, era dovuta alla sua ammirazione verso la Adler, nulla di più.
Ora invece si trattava di John, il suo John.
A quel pensiero la musica terminò con uno stridio seccato e il Consulting Detective prese a camminare avanti e indietro per la stanza, con gran disappunto del fratello.


Dall’altra parte c’era un uomo altrettanto geniale e altrettanto solo.
Da quando aveva conosciuto Sherlock Holmes ne era rimasto ossessionato al punto da mettere da parte tutto il resto, capendolo troppo tardi.
Decisamente tardi.
Fingersi morto non era un problema, chi penserebbe che un pazzo che si è sparato in bocca possa essere vivo?
Nascondersi ancora meno.
Non aveva mai ritenuto che falsificare la sua morte avrebbe portato a qualcosa di simile.
Qualcosa di tanto disastroso, psicologicamente parlando.
Una tomba vuota e quasi anonima, come quella di Sherlock Holmes, non gli faceva né caldo né freddo.
Pensava che se un giorno fosse morto nessuno avrebbe portato dei fiori o sarebbe andato a trovarlo, dovette ricredersi invece, e avrebbe preferito evitarlo.
Sebastian Moran, il suo cecchino, il suo... Suo cosa?
Non sapeva più nemmeno rispondersi, sapeva soltanto che era suo.
Lui andava tutti i giorni davanti a quella tomba, e Jim lo vedeva bene.
“È quello che fanno gli amici, visitare i loro cari. Sinceramente preferivo quando eri tu a fare le tue visite notturne nel mio letto. Perché l’hai fatto?”
La maschera fredda e impassibile del Consulting Criminal si incrinò al suono di quella voce.
Era... Sofferente?
Tutto questo era nuovo per lui, nuovo e terribile, non sapeva gestirlo.
Le emozioni , beh, le aveva già provate prima, ma era un bravo attore.
No, questo era molto di più.
Nostalgia di quella vita, di quei brevi istanti, dei suoi agguati nel cuore della notte che svegliavano puntualmente l’ex colonnello?
Rimpianto per essersi sparato, o meglio, aver finto di spararsi in bocca?
Era sicuro che Sebastian avrebbe capito che era una farsa e invece...
“Jim...”
Si ritrovò a boccheggiare di colpo e si allontanò.
Aveva tutto, prima di conoscere Sherlock Holmes.
Aveva tutto e ora l’aveva perso.
Una mente come la sua come aveva potuto fare un simile errore?
E perché quell’errore doveva essere tanto doloroso, ok il fatto che Sebastian fosse il suo cecchino e il suo giocattolo ma non era nulla di più.
Oltre a seguirlo al cimitero a volte lo spiava anche a casa, lo guardava armeggiare e lucidare il suo fedele fucile.
Era stato un regalo, di Natale probabilmente, ricordava che non aveva faticato troppo per ottenerlo.
Sebastian lo aveva guardato senza stupore.
“Non ci vuole molto a capire di cosa si tratta Jim.”
Aveva detto e, effettivamente la forma non lasciava dubbi, ma l’effetto sorpresa funzionò lo stesso.
Una volta scartato il cecchino rimase imbambolato a fissare l’arma mentre il suo capo si divertiva a carpire ogni mutamento della sua espressione, anche se lo stupore era quella che predominava.
“L’Accuracy International Warfare Arctic?! Come l’hai avuto?”
Domandò rigirandoselo tra le mani.
Jim fece le spallucce col solito sorriso stampato in volto.
“Posso avere quello che voglio.”
Sebastian aveva poi iniziato a descrivere minuziosamente ogni cosa di quel fucile, compreso il fatto che lo considerasse come un estensione del suo braccio.
La sua voce sembrava così viva anche se era solo un ricordo che, ancora una volta, Jim si ritrovò a scappare, smettere di guardarlo.
Senza sapere che, se fosse rimasto, avrebbe capito cosa, di li a qualche ora sarebbe accaduto.
Ma anche sapendolo come poteva fermarlo?


“Un medico che propone un duello?”
La voce dell’uomo era divertita mentre guardava il dottore, effettivamente per nulla sorpresa.
“Non un vero e proprio duello, più un... Gioco di precisione e velocità.”
Sentenziò John lasciando cadere a terra i proiettili e lasciandone uno soltanto.
Lo stesse fece pochi secondi dopo Sebastian con la Beretta 92FS, pistola dalla quale non si separava mai e che, al tempo stesso, odiava.
La pistola di Jim, la pistola con cui Jim si era ucciso.
Era ormai buio, il cimitero doveva essere chiuso o avrebbe chiuso a breve, con un ulteriore corpo a cui dare degna sepoltura.
Nessuno li avrebbe disturbati, nessuno avrebbe sentito gli spari.
Non si erano posti, né lo facevano in quel momento, il problema di poter essere rintracciati.
Il loro gioco, insano, malato gioco, era come una vendetta personale, per quanto indiretta.
Probabilmente pensavano che una volta ucciso l’altro si sarebbero sentiti meglio, nulla di più sbagliato ma dopotutto ormai non avevano nulla da perdere.
Erano uno di fronte all’altro, immobili, come i cowboy di alcuni vecchi western, in attesa del momento migliore.
Non c’erano vere e proprie regole, semplicemente avevano un solo colpo e il più veloce e preciso sarebbe sopravvissuto.
La mira di John la conoscevano tutti bene, anche sotto pressione non sbagliava un colpo, la mano aveva ripreso a tremare dopo la morte di Sherlock ma quando impugnava la pistola era salda e ferma.
Sebastian aveva dalla sua parte il suo stesso lavoro, era un cecchino, la mira era fondamentale.
No, questa era una parte secondaria del gioco, ciò che contava veramente era la velocità, praticamente quasi incalcolabile, il primo che sparava aveva la vittoria, una cosa semplice e concisa, nessun modo di barare, nessun inganno.
I secondi, i minuti passavano e nessuno dei due si muoveva, il vento scuoteva le foglie e i rami, nessuno li avrebbe disturbati e loro non avrebbero disturbato nessuno, né fatto scena.
Gli unici spettatori erano file di lapidi lucide e anonime nella notte, sicuramente non sarebbero andate loro a lamentarsi.
In quel silenzio innaturale i due colpi partirono dalle pistole, quasi simultaneamente anche se una cosa del genere era pressoché impossibile, c’era sempre una differenza, per quanto potesse essere infinitamente ridotta.
Indietreggiarono entrambi rimanendo a fissarsi come poco prima, come cercando di capire cosa fosse successo o chi stesse morendo.
La pistola gli scivolò di mano mentre barcollava ancora indietro prima di cadere contro una lapide sconosciuta.
Le mani tremanti premevano sulla ferita, aveva sempre pensato che il dolore sarebbe stato insostenibile, che avrebbe urlato, magari anche pianto, invece no, non sentiva quasi nulla.
Tutti i sensi erano annebbiati, addormentati, non sentiva nulla, poteva benissimo dire che non si era nemmeno accorto di essere stato colpito.
Il colpo sparato dalla Beretta era stato deviato leggermente colpendo l’ex medico militare al braccio sinistro.
John rimase a guardarlo alcuni minuti, con gli occhi ancora infiammati, come ogni volta che uccideva da quando non era in guerra.
Non che si fosse ritrovato ad uccidere qualcuno con la stessa freddezza ogni volta che davano la caccia ad un criminale però ormai Londra era un secondo campo di battaglia, aveva avuto ragione Mycroft al loro primo incontro.
Dopo quei pochi minuti si voltò, con la pistola ancora stretta in mano, e si avviò verso casa.
Un soldato avrebbe sempre preferito morire sul campo di battaglia, piuttosto che in una prigione, lui aveva dato all’ex colonnello proprio questo.
Una morte in battaglia.


Le mani tremanti avevano smesso di premere la ferita, si erano arrese al fatto che non potessero fare nulla per fermare il sangue.
Aveva intravisto John andarsene e ora non restava altro che il silenzio, non avrebbe dovuto attendere a lungo prima che la morte lo reclamasse, non ne aveva alcuna paura.
Lentamente il freddo iniziò ad insinuarsi dentro di lui, nelle ossa, fissava il cielo scuro senza vederlo realmente, solo grandi ombre sfocate e sempre più lontane.
Avrebbe rivisto Jim?
Lo sperava, aveva da dirgli così tante cose, e non erano tutte belle, l’avrebbe maledetto per il resto dell’eternità.
Ma almeno l’avrebbe rivisto, quel piccolo demonio per cui alla fine era morto.
Chiuse gli occhi sentendosi subito afferrare dalle spalle, ma non vi diede alcun peso.
“Sebastian!!”
Probabilmente era già morto, si disse, non poteva sentire la sua voce così chiaramente.
“Non osare morire ora!”
Urlò ancora quella voce fin troppo familiare spingendo Sebastian a riaprire a fatica gli occhi.
“Non morire mi hai capito? Mi hai capito?!!!”
Probabilmente era un’allucinazione, ma anche se non la fosse stata non c’era più molto che poteva fare, la vita lo stava abbandonando lentamente, inesorabilmente.
Nonostante tutto si lasciò sfuggire un sorriso riuscendo a mettere a fuoco la sagoma di quel fantasma che si era presentato per portarlo con se.
Perché non poteva essere altrimenti.
Con fatica riuscì ad alzare la mano fino al suo viso, sarebbe dovuto passarvi attraverso, perché non accadeva?
Sembrava così umano, in carne ed ossa.
Perché?
“Non osare Sebastian. Guardami!!”
Lo fece, obbedì anche a questo ordine nonostante tutto.
Era stata la prima regola, obbedire agli ordini di Jim Moriarty.
Qualunque ordine, senza fare domande.
E lui avrebbe ubbidito fino alla fine.
“Continua a guardarmi Sebastian... Non ti lascerò morire.”
Fece una piccola pausa, come ponderando le parole che stava per dire, valutandone il significato, ogni significato, che potevano avere.
“Mi dispiace.”
Sussurrò con voce rotta, addolorata.
Una voce che non era mai uscita prima dalla sua gola, una voce che nessuno avrebbe più sentito probabilmente.
In un’altra situazione il cecchino si sarebbe stupito della cosa ma non ne aveva il tempo ora, non aveva più tempo per niente.
Era lui che doveva scusarsi forse, aveva sempre sperato nel suo ritorno ma, nonostante questo aveva acconsentito a fare quello stupido gioco.
Aveva deciso di farsi uccidere.
Che caso strano, nessuno era mai riuscito a ferirlo in un duello di precisione e velocità.
Forse John Watson era più motivato a vivere, per chissà quale ragione, non lo avrebbe mai saputo.
Avrebbe anche voluto dire molte cose, a Jim, quel Jim che continuava a urlargli di guardarlo.
Molte cose e non c’era più tempo, nemmeno per dirne una.
Aprì la bocca ma la voce rimase in gola per quanto si sforzasse di tirarla fuori.
Non si accorse nemmeno del fatto che Jim gli stesse pulendo la bocca dal sangue, non sentiva più nulla e ogni immagine si faceva più lontana.
Anche i suoni stavano svanendo, aveva una vaga percezione di ciò che lo circondava.
Di chi era quella tomba contro cui stava morendo?
Con le ultime forze che riuscì a raccogliere voltò la testa fino a leggere il nome.
A quella sbiadita vista una risata gli esplose dentro, tutto ciò aveva dell’impossibile, era uno scherzo.
Uno stupido scherzo del destino.
Si appoggiò con la testa a quella tomba a cui ogni giorno faceva visita e sorrise assecondando ancora una volta le urla dell’uomo.
Non capiva che non lo riusciva più a vedere?
Ormai il buio era calato su di lui cancellando ogni cosa, cosa avrebbe potuto fare?
“Jim.”
Tentò di dirlo, in un ultimo sforzo, un ultimo desiderio ma, arreso, si limitò a sorridere immobile con gli occhi fissi verso di lui senza più vita.
Nemmeno un minimo briciolo di vita era rimasta, continuava a guardarlo come gli aveva ordinato, da bravo soldato.
Jim si sentì improvvisamente svuotato, un brivido freddo gli era salito lungo la schiena, nelle ossa, le mani avevano preso a tremare avvicinandosi al volto del cecchino.
Sembrava avere anche dimenticato come si respirava, posò le mani sulle guance dell’uomo avvicinandosi fino a toccargli la fronte con la sua.
Il Consulting Criminal in quel momento era svanito, restava solo il piccolo Jim Moriarty, un uomo che non sapeva più cosa fare.
Tutte le certezze, le conoscenze, gli obiettivi che aveva, ogni cosa non aveva più importanza.
Continuava a fissare quegli occhi chiari e vuoti, le mani accarezzavano il volto nella speranza che fosse solo addormentato, che potesse tornare da lui.
Si stava comportando da debole rispetto a quello che era ma non poteva farne a meno.
Il suo non era uno scherzo, una messa in scena, era morto davvero, davanti a lui, senza che potesse fare nulla per impedirlo.
Morto.
L’unica persona che Jim Moriarty avesse mai amato era morto nella vana speranza di rivederlo quando, proprio quella sera lui aveva pensato ad un ritorno in grande stile come era solito fare.
Il loro appartamento sarebbe stato vuoto ancora una volta ma per lui non era ancora tempo di lasciare quella terra, aveva molte cose ancora da fare.
Anche se nulla sarebbe stato come aveva progettato.
“Addio Sebastian.”


John camminava lentamente nella notte, una insolita tranquillità lo circondava.
Aveva appena ucciso un uomo e non si stava facendo alcun problema con la cosa, c’era stata anche la possibilità che in quella notte fosse lui a morire.
Avrebbe dovuto andare a casa subito ma non ne aveva voglia, in ogni caso a Baker Street non c’era nulla che potesse attirare la sua attenzione o occupare il suo tempo così allungò volutamente la strada.
Nonostante tutto però i piedi lo guidavano sempre verso casa.
Si ritrovò a sbuffare mentre apriva lentamente la porta per non svegliare Mrs Hudson, salì i 17 gradini che lo separavano dal loro appartamento e aprì la porta.
Era a casa, ancora una volta.
Si lasciò scappare un sorriso carico di tristezza, ogni volta che entrava sperava sempre di vedere Sherlock sul divano intento ad annoiarsi, o alla finestra a suonare il violino o ancora in cucina chino sul microscopio o in mezzo a chissà quali esperimenti.
Era quella la normalità ormai, e gli mancava.
Gli mancava terribilmente ma sapeva che nulla sarebbe più stato come prima.
Doveva davvero farsene una ragione e andare avanti, non aveva alcun senso restare legati ad un passato che non poteva avere un futuro.
Dopotutto andare avanti non significava dimenticare ne smettere di credere.
E lui si fidava ciecamente di Sherlock Holmes, credeva in lui e avrebbe continuato.
Con un gesto automatico passò la mano sull’interruttore accendendo la luce e illuminando il salotto fino ad allora rimasto al buio.
Quel semplice, banale, abitudinario gesto fu come l’esplodere di una bomba.
Il suono incrinato e lamentoso dell’archetto che scivolava, sgraziatamente, sulle corde attirò lo sguardo del dottore verso la poltrona.
Non riusciva a muoversi, la bocca era leggermente aperta e gli occhi fissavano l’uomo seduto.
A sua volta un paio di occhi di ghiaccio si posarono su di lui, tranquilli, come se fosse la cosa più logica e normale del mondo, come se fossero passate solo un paio d’ore da quando si erano lasciati.
“John.”





Angolo Autrice:  Scritta per il contest "E adesso?" indetto dalla pagina Sherlock - The Science Of Deduction.
L'idea di un confronto tra John e Sebastian mi ronzava in testa da un po' e con questa FanFiction ho potuto metterla in pratica, nulla di speciale, spero vi sia piaciuta che è piaciuto a me scriverla.
Per il titolo, beh devo ringraziare Tristania666 per l'idea, lei ha paragonato la morte al crepuscolo e così ho avuto l'illuminazione dopo ben 2 giorni che ci pensavo.
Grazie a chiunque leggerà e lascerà un commentino, o non lo farà.
Grazie.

Bye Bye~
Aki
   
 
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