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Autore: Shu    15/11/2006    7 recensioni
"Come se fosse estate, quel pomeriggio il cielo è tutto sereno, un'unica pennellata d'azzurro.
L'uomo si riempie gli occhi di quel blu uniforme, e pensa che il cielo è come la giustizia.
Ha il colore più assoluto del mondo."
-Storia vincitrice del concorso "Estate" della writing community "True Colors"-
Non ci sono veri spoilers, ma ha più senso leggere la storia se conoscete il personaggio di Mikami (dal vol.10 in poi).
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Teru Mikami
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Scritta per la sfida "Estate" della writing community "Truecolors" (http://truecolors.iobloggo.com), questa storia doveva avere come tema portante l'estate e un colore scelto tra una serie di quindici; io ho scelto il colore #14-Cielo. Il personaggio che ho scelto è Mikami, e spero vi convincerà la mia interpretazione, ma come sempre sono più che aperta ad ogni tipo di considerazioni e di critiche.

Con un grazie infinito ad Harriet... lei sa perché.

 

 

  

 

Il colore del cielo

  

 

“Mamma, perché quel signore è lì per terra?”

La voce proviene da dietro una sciarpa rossa. E’ un po’ bassa, colpa di un accenno di raffreddore forse, ma lascia lo stesso trasparire tutta la spontaneità, l’insistenza indiscreta così tipiche dell’infanzia.

“Eh, mamma? Che ci fa lì? Non ha freddo?”

Fruscio di cappotti, l’imbarazzo della madre che tira via la bambina, affrettando il passo. Anche lei, naturalmente, ha visto l’uomo, e ora non può trattenersi dal voltarsi, brevemente, di nuovo: è sempre lì, non si è mosso. Disteso nell’erba, gli occhi aperti verso l’alto, con addosso soltanto una camicia. Con quel freddo. A dicembre.

“Vado a chiederglielo?”

La donna afferra la mano della piccola, con decisione, le parla in un sussurro. “Ma che dici, non si fanno queste cose, lascia stare il signore.” Le sue guance sono rosse d’imbarazzo e di gelo. E la domanda resta negli occhi della bambina.

La domanda è anche negli occhi della madre. Eppure sembrava tanto perbene, quell’uomo, giovane, vestito distinto, e accanto a lui le era parso anche di vedere anche una valigetta di quelle che usano gli impiegati, o insomma, la gente che lavora in ufficio… Là, per terra, in maniche di camicia in pieno inverno, a non far niente.

Meglio lasciar perdere. Le due scendono il declivio, verso i cancelli del parco quasi vuoto, nonostante sia primo pomeriggio –ma fa davvero freddo. La madre si ferma un attimo per allacciare meglio il giubbotto della bambina, stringere di più la sciarpa, per proteggerla dal vento, dall’inverno, e da ogni altra cosa…

“Mamma, però era bello quel signore, vero?”

 

 

Come se fosse estate, quel pomeriggio il cielo è tutto sereno, un’unica pennellata d’azzurro.

Non ci sono nuvole, né l’arrogante sfolgorio del sole, nascosto da qualche parte alle sue spalle, non ci sono voci e nessun rumore viene dalla città che si stende sotto di lui nelle sue centomila luci già accese.

C’è solo chiarore, semplicità, e il colore del cielo.

Ci sono soltanto lui, ed il cielo.

Un cielo estivo, fermo e cristallino, e l’uomo pensa che non avrebbe potuto chiedere di meglio. E’ una giornata perfetta, e nella sua mente, se guarda all’indietro, gli sembra di vedere soltanto giornate perfette, tutte immerse in un’unica luce, come un sorriso che non si spegne.

E anche a lui viene da sorridere se pensa all’inverno in cui si chiude la città aggrovigliata sotto di lui, la gente che si serra nei cappotti e dentro le case come se quelli fossero giorni qualsiasi, di una brutta stagione qualsiasi. Senza guardare fuori dalla finestra, senza vedere che sopra di loro si stende il cielo dell’estate.

Invece lui ha gli occhi bene aperti verso l’alto.

Lui ha compreso.

Lui solo sa che la Terra è all’apogeo di ogni età dell’oro, che quelli sono i giorni più straordinari che l’umanità abbia mai vissuto. Non l’alba, ma già il mezzogiorno di un mondo perfetto.

Se guarda indietro, se guarda avanti, vede solo giornate tutte indistinte nello stesso splendore. Sa che resta ancora molto da fare, e sa anche, ovviamente, che la sua vita non è sempre stata così, che ci sono stati momenti di buio, nottate di pioggia, di dubbi. Ma quelli sono il futuro e il passato. Li esclude dai suoi pensieri, come parole fastidiose cancellate da una lavagna. Quello che gli interessa è soltanto il presente.

E il presente è cominciato per lui quel giorno d’inverno, nella concretezza gialla di un pacco postale, nella fiamma dell’accendino che si portava via parole segrete, e con loro l’esistenza che aveva condotto fino ad allora. In quel giorno d’inverno è iniziata per lui l’estate della sua vita. La stagione del compimento, dove tutte le idee e le speranze si armonizzano in una strada sola, dove si trova, si comprende il senso di ogni cosa.

E così, adesso è estate.

Per sempre estate, luce senza fine come il colore del cielo sopra i suoi occhi.

Il colore del cielo è così unico.

Perché anche se cambia sempre, sempre lo riconosci.

E’ il colore più assoluto del mondo.

L’uomo si riempie gli occhi di quell’azzurro uniforme, e pensa che il cielo è come la giustizia.

Non ha difficoltà a capire perché gli uomini di ogni tempo e di ogni civiltà abbiano posto il loro Dio nel cielo. Pensa a torri e piramidi, di tutte le forme, campanili e obelischi, grattacieli e pennoni, e vi vede il perenne tentativo degli uomini di tendere la mano verso quell’immensità. Sul profilo del suo orizzonte, di fronte a lui, si staglia la Torre di Tokyo, e anch’essa gli sembra una preghiera che s’innalzi verso il blu.

Gli viene in mente quell’espressione cristiana, il regno dei cieli. E’ una formula che ama molto. Un mondo dove finalmente la giustizia avrà il suo compimento, supremo e indiscutibile. Dove i malvagi saranno puniti, e i buoni premiati, senza possibilità d’errore.

“E di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti… e il Suo regno non avrà fine.”

Un mondo dove tutto sarà semplicemente giusto. Perché la giustizia, per lui, è la cosa più semplice che esista, limpida e superiore proprio come il cielo.

I suoi occhi vedono chiaro il discrimine tra il bene e il male. E’ sempre stato così, fin da quando era bambino. Bianco e nero. Colpevole o innocente. E’ così facile. Quello a cui nei tribunali si arriva dopo mesi e mesi di discussioni, prove e sentenze, lui lo vede sin dal primo istante con una tale evidenza che si stupisce che gli altri non riescano a notarla.

Il regno dei cieli.

Per lui non è una fede, un’utopia o il sogno di povera gente che spera in un contrappasso, in un’altra vita.

Lui il regno dei cieli lo vuole adesso. Qui, sulla Terra.

Spalanca le braccia nell’erba, il vento lo spazza, e per un istante il suo corpo è scosso da un brivido d’estasi.

Lui sta costruendo il Regno dei Cieli sulla Terra.

Lui ha nelle sue mani il Giudizio Universale.

Lui è la giustizia che non dorme mai, che non si commuove e non torna indietro. Uguale per tutti, che tutti guarda con gli stessi occhi, dall’alto.   

La vista completamente occupata dall’azzurro, egli cerca d’imprimersi nella mente l’esatta qualità di quel colore, per ricordarsi di essere altrettanto terso, altrettanto assoluto. Piovere dove serve, e battere con la luce i deserti, senza pietà per siccità o alluvioni, perché c’è un disegno da seguire.

Il disegno di un mondo perfetto.

In fondo, non importa se non tutti gli uomini comprendano la necessità di questo disegno. Capiranno, nel tempo. Del resto, tante volte se la prendono anche col cielo, se li sommerge gonfiando i fiumi di pioggia, o quando lascia sfogare il calore del sole per giorni e giorni, o addirittura se rovina i loro piccoli programmi, le loro gite con un acquazzone. Non capiscono.

Ma se potessero osservare le cose dal suo punto di vista… allora sarebbe tutto chiaro, tutto necessario.

Lui ha compreso.

Per questo Dio lo ha scelto per portare a termine la sua missione.

Da distanze siderali, attraverso l’aria gelata, gli sembra di sentire addosso l’occhio rovente di Dio. Ed è di nuovo un brivido. Si sente scrutare fin dentro all’anima, e sa che Lui vi troverà solo limpidezza e devozione, uno sconfinato cielo di rettitudine. E sorriderà la sua approvazione.

Lacrime si affacciano negli occhi dell’uomo a quel pensiero. Si sente traboccare di una felicità sconosciuta a qualsiasi altro essere, un senso di completezza suprema. Toccare il cielo con un dito, così si dice, no? E così lui si sente. Solleva una mano, e attraverso lo scintillio delle lacrime gli sembra davvero che il suo palmo possa aderire all’azzurro. Sfiorare l’infinito.

Dio. Kira. Cosa darebbe per poterlo vedere. Una volta, una sola si è arrischiato a fare una domanda a Takada-san –lei, una semplice pedina, la reginetta del teleschermo, ma, diavolo, lei può parlare con Kira ogni giorno, può toccarlo, respirare il suo stesso respiro…

“Takada-san… posso chiederti… com’è, Lui?”

Un piccolo “oh” di sorpresa, una pausa di sorriso –gli sembra di vedere le ciglia abbassate della donna, un’ombra di rossore sulle sue guance…

“Oh… Kira, lui è… un ragazzo, un bellissimo ragazzo…”

E’ l’unica cosa che sa del Dio del nuovo mondo. E probabilmente, dovrebbe bastargli, anzi, è già troppo –del resto, tutti credono semplicemente nel suo nome, nelle mere lettere di “Kira”, e nel suo potere. Eppure… in fondo al cuore, non può negarlo, c’è sempre l’infantile desiderio di conoscerlo davvero, quel ragazzo, d’incontrarlo, tangibile, vederlo entrare nella sua realtà… e distinguerlo, lui solo, dalla folla, nella luce, un giovane come gli altri, tra tutti gli altri perso… S’immagina che lo riconoscerebbe dallo sguardo, da uno sguardo solo.

Ricorda quell’unica volta che ha sentito la sua voce. Poche frasi, brevi, nella fretta, e per di più schermate dalla meccanica del cellulare. Ma ogni parola, ogni inflessione è impressa a fuoco nella sua memoria. E a quel semplice ricordo, ancora una volta un sussulto, una scossa violenta nello stomaco che sale alla testa come un’ubriacatura improvvisa.

Immagina quello sguardo, richiama alla mente la voce… e gli pare quasi di vederlo, il volto di quel bellissimo ragazzo, disegnato in bianche linee soffuse di fumo sullo sfondo del cielo. Coronato di fiamme, tratti sfuggenti di giovinezza, un sorriso immobile, come inciso nel marmo di una statua perfetta, e splendenti occhi blu che guardano tutto, e niente.

Nella porzione di cielo che l’uomo si è ritagliato, il vento fa adesso passare una piccola nuvola. Ci gioca, la sfilaccia, e nell’immaginazione di lui quello sbuffo biancastro assume mille forme. Tutte orribili.

Quella piccola nuvola sporca la perfezione dell’azzurro. Deve sparire. Di nuovo alza la mano, le dita tremano per il freddo, ma lui non se ne accorge –dentro di lui, fa caldo, ribolle l’arsura di un’estate rabbiosa- vuole solo nascondere alla vista quell’intruso. E quando richiude il pugno, lascia ricadere il braccio… la nuvola è scomparsa.

Svanita.

Senza lasciare traccia.

Il potere di Dio.

Un sogghigno si dipinge sul suo volto, e l’uomo si alza a sedere, raccogliendo il cappotto. Ha deciso che, adesso che è solo, può concedersi di contemplare il suo segreto. Apre la valigia a combinazione, una, due zip, gesti ormai abituali cercano il doppio fondo sotto libri e scartoffie. Eccolo. Lentamente estrae l’oggetto dalla borsa.

Il suo quaderno nero.

Il bianco delle sue mani ghiacciate, tremanti per il calore che portano dentro, a contrasto con quel nero… Bianco e nero.

Le sue dita sono adesso solo devozione, sfiorano il pigro scintillio ultraterreno della scritta in copertina, il taglio delle pagine. Accarezzano i fogli tutti occupati di scrittura come se accarezzassero una donna, con delicatezza e possessività insieme.

Lunghe righe intrise d’inchiostro ordinato, come catene di sacri gioielli. Migliaia di nomi, indistinti, ai suoi occhi i caratteri formano solo l’intrico di uno splendido disegno, un mandala di meravigliose simmetrie.

Bianche sono le sue mani contro il nero della scrittura, bianche, perfettamente immacolate. Non importa leggere quei nomi, lui non sa più chi fossero quelle persone… la soddisfazione di voltare le pagine, di contemplare il lavoro già fatto, solo questo conta, adesso.

Forse, dietro quei nomi neri di criminali, c’è anche altro. Sì, se si concentra può vederlo. Forse ombre di parenti in lacrime, colori di lutto, bambini soli dentro stanze vuote… Se vuole, può vederlo. Lo sa.

Quel pensiero lo sfiora, e se ne va, come la piccola nuvola inghiottita dall’azzurro. Perché anche quelle ombre di vedove e orfani fanno parte della giustizia. Perché per il male si deve sempre pagare. Si deve comprendere che c’è bisogno anche di sofferenza per costruire un mondo migliore, così come per fare il bianco c’è bisogno di tutti i colori.

Ma, un giorno, tutto sarà uniforme e perfetto come il cielo.

Non vorrebbe mai staccarsi da quella vista. E’ così… semplice. Se guarda in basso, c’è la città brulicante di persone, infinite snervanti sfumature di grigio su grigio, file disordinate di formiche tutte diverse e tutte uguali… In alto, invece, un colore solo. L’uomo batte le palpebre contro la luce, è come sentirsi allargare la vista, respirare meglio, come se il vento soffiasse via polvere dai suoi occhi. Assoluto riposo. Finalmente non ci sono più facce e numeri e nomi, caratteri ammassati l’uno sull’altro ad affollarsi sullo sfondo delle insegne e delle pubblicità, niente più mal di testa e il fuoco di fila di tutti quei cognomi, lettere e cifre…

C’è solo il blu.

Sul cielo, egli non ha potere di vita o di morte, ma questo è il segno che va tutto bene. La sua conferma. Perché sa che l’unica persona nei cui occhi non potrà leggere quelle cifre confuse sarà lui. Kira. Dio. Ha sbagliato a sforzarsi di trovarlo, qualche volta, a sperare di vederlo nella folla della città: era lì che doveva cercarlo, nel colore del cielo.

E finché ci sarà Lui, finché il cielo splenderà sopra la Terra, andrà tutto bene.

Sarà l’estate, dentro il suo petto e fuori nel mondo, un’estate senza fine.

Adesso, può anche chiudere gli occhi.

 

   
 
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