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Autore: MrEvilside    23/04/2012    3 recensioni
«Ci sono tanti accordi che possiamo stringere, tante cose che ancora non mi hai dato» soffiò, suadente, guardandosi con aria disinteressata le unghie.
Uno, due…
Rumpelstiltskin esitò, poi i suoi passi, resi felpati dagli stivali di stoffa che indossava, risuonarono sempre più vicini nell’oscurità, rischiarata soltanto da una torcia accesa a diversi metri di distanza dalla cella. «Che cosa sei venuto a chiedermi?»
Cheshire ghignò. L’altro non sarebbe mai riuscito a resistere alla prospettiva di un patto.
«Se mi darai quello che voglio,» eluse la sua domanda «ti libererò».

( Cheshire/Rumpelstiltskin )
( I classificata al contest C'era una volta un personaggio di cui ci eravamo scordati indetto da .Trick )
Genere: Dark, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Illustro brevemente le regole del concorso: bisognava scegliere un personaggio da una lista di personaggi delle fiabe e costruire su di esso la propria storia. Io ho scelto il Gatto del Cheshire di Alice nel Paese delle Meraviglie (<3). Sfortunatamente moltissimi si sono ritirati, perciò le giudici ci hanno dato il permesso di pubblicare le nostre storie. Spero che la mia piaccia <3
Avvertenza: spoiler fino all'episodio 01x14. Niente spoiler oltre quello nelle recensioni, grazie.

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Cigarette smoke

Quando la porta si chiuse alle spalle del vecchio, l’uomo frugò in una tasca dei pantaloni e ne trasse un pacchetto di sigarette e un accendino: quell’ultimo era stato un inaspettato dono del nano tarchiato che ogni tanto occupava la cella accanto alla sua.
Un brav’uomo sepolto sotto una coltre di sarcasmo pungente e scontrosità.
Non come lui, che non era affatto un brav’uomo. Al contrario, era molto, molto cattivo.
Non sapeva neppure il nome del suo benefattore, come d’altra parte non sapeva quello del vecchio inserviente che lo teneva d’occhio dalla mattina alla sera – non aveva bisogno di fronzoli come i nomi, non era come lui. Accettando quel dono, si era limitato a biascicare un viscido “grazie”, accompagnato da un sorriso dei suoi, perennemente divertito, come se conoscesse un segreto esilarante a proposito del suo interlocutore.
Aveva preso a malapena una manciata di boccate, quando la porta della stanza si aprì all’improvviso e lui fece per schiacciare la sigaretta sotto la scarpa per evitare che il vecchio scoprisse acciarino e pacchetto.
«Oh» commentò, sorpreso, nello scoprire che il nuovo arrivato non era affatto l’inserviente. Soffiò una nuvola di fumo che per un lungo momento rese indistinti i contorni del visitatore. «Sei venuto».
«Abbiamo un accordo» gli fece notare semplicemente Gold.
«È piuttosto tardi, ormai non ti aspettavo più» scrollò le spalle in risposta. Un sorriso sardonico brillò al di là del muro di fumo nero. «Eri troppo impegnato con – come si chiama? – la signorina Swann? Non credevo che sarei stato messo da parte così in fretta…»
Gold si avvicinò alla scrivania dove sapeva essere riposte le chiavi della cella, le prese dall’interno di un cassetto e si incamminò a passo lento verso di lui.
«Come sei permaloso» commentò in un tono a metà tra la sarcastica esasperazione e il sardonico scherno. «Mi permetto di contraddirti. “Impegnato” con la signorina Swann mi sembra pretenzioso, come verbo; io mi “impegno” solo con te, dovresti saperlo. O forse non mi ritieni degno di fiducia?»
Marshall si sfiorò il mento accuratamente sbarbato, quasi stesse riflettendo sul serio sull’argomento. «La signorina Swann è molto bella» giustificò la precedente insinuazione, mentre la serratura scattava e la porta della piccola prigione si spalancava in risposta alla pressione della mano di Gold contro le sbarre. Fece un altro tiro dalla sigaretta prima di riprendere: «Anche se io lo sono di più, è ovvio, ma non si può mai sapere: all’improvviso potrebbe coglierti un grave disturbo oculare che t’impedisce di distinguere la mia bellezza».
Si alzò in piedi, ma, anziché uscire, scoccò un’occhiata al battente serrato della stanza delle prigioni. «E il vecchio?»
«La situazione è sotto controllo». Gold inarcò le sopracciglia, come a sfidarlo a dubitare delle sue parole, e Marshall si decise a lasciare la cella.
«Quanto tempo?» biascicò, la sigaretta in equilibrio tra le labbra, le mani intente a sbottonare la patta dei jeans sdruciti e rattoppati in più punti. «Molto, spero, visto quanto ci metti ogni volta a toglierti quei dannati pantaloni…»
«Sei sempre così impaziente». Gold incurvò gli angoli della bocca in un sorriso indulgente mentre Marshall lo spingeva con ben poca delicatezza contro la parete. «Abbiamo tutto il tempo di cui c’è bisogno».
Marshall sbuffò un sospiro di fumo alla sua replica così vaga, gli prese di mano il bastone da passeggio con un movimento repentino del braccio e si ritrovò placcato un istante dopo, costretto con la schiena aderente al muro; allora sogghignò, divertito, gli occhi risplendenti di malizia fissi in quelli dell’altro, diversi centimetri più in alto, le labbra, per metà piegate in un sorriso sghembo, che consumavano veloci, avide, il mozzicone di sigaretta.
«Sciocco» lo redarguì Gold, gli strappò quel poco che rimaneva della cicca e la spense sotto la suola del mocassino.
«Noioso» lo rimbrottò Marshall. «E arrabbiato, oggi».
I tempi di reazione dell’altro furono meno immediati del solito, segno che Marshall aveva trovato una breccia nel suo muro di sarcasmo.
«Sai perché sono qui, suppongo» replicò Gold, improvvisamente cauto.
«Oltre che per mantenere la promessa? Ovvio. Vuoi quello che so di lei».
Gold inarcò le sopracciglia, scettico. «Sai davvero qualcosa o è uno dei tuoi sciocchi scherzi? Non sono in vena, Marshall».
Oh-ho, pensò Marshall, colpito. L’aveva chiamato per nome: era davvero arrabbiato.
«E va bene, niente scherzi» accondiscese allora in tono indulgente, come se gli stesse facendo un’enorme concessione. «Ti dirò tutto quello che so – lo sai che io so sempre qualcosa». Aveva appena promesso di non fare lo spiritoso, ma non riuscì a trattenere quello scioglilingua; vedendo l’espressione di Gold, si sforzò di correggere il tiro: «Si tratta di Regina. Sono sicuro che ci sia lei dietro la sparizione della ragazza».
«Tutto qui?» Gold aggrottò la fronte, palesemente deluso. «C’è sempre di mezzo il sindaco».
Marshall arricciò il naso e incrociò le braccia al petto, offeso. «Ah, e sapevi anche che la tiene segregata da qualche parte in ospedale?»
 
♠♠♠

«Vattene».
Aveva percepito la sua presenza, naturalmente. Era diventato potente, molto più del precedente Signore Oscuro – non ancora quanto lui, ovvio.
Cheshire appoggiò la schiena contro le sbarre della cella, strusciandovisi contro come un gatto.
«Oh, suvvia, perché scacciarmi?» miagolò, un sorriso sornione affiorato alle labbra. «È una prigione piuttosto isolata… Non vorrai rimanere solo, vero?»
«Che cosa vuoi da me, questa volta? Non ho nient’altro da darti» ribatté Rumpelstiltskin, aprendo le mani per mostrarne il palmo vuoto. «Ti sei già preso tutto quanto».
No, non tutto, sbuffò tra sé Cheshire.
L’unica cosa davvero importante, l’unica che avrebbe costretto quella creatura in suo totale potere, gli era sfuggita. Il solo ricordo bastava a renderlo di cattivo umore, dunque si affrettò a scacciarlo per rifuggire la possibilità che l’altro attaccasse quella sua debolezza.
«Ci sono tanti accordi che possiamo stringere, tante cose che ancora non mi hai dato» soffiò, suadente, guardandosi con aria disinteressata le unghie.
Uno, due…
Rumpelstiltskin esitò, poi i suoi passi, resi felpati dagli stivali di stoffa che indossava, risuonarono sempre più vicini nell’oscurità, rischiarata soltanto da una torcia accesa a diversi metri di distanza dalla cella. «Che cosa sei venuto a chiedermi?»
Cheshire ghignò. L’altro non sarebbe mai riuscito a resistere alla prospettiva di un patto.
«Se mi darai quello che voglio,» eluse la sua domanda «ti libererò».
Rumpelstiltskin serrò le dita adunche sulle sbarre della sua prigione e si sporse fino a poter alitare il proprio fiato caldo sul collo di Cheshire nel replicare: «Che cosa vuoi?»
Per una volta la risposta non si fece attendere: «Il tuo stesso privilegio: ricordare. Una volta che il sortilegio sarà stato lanciato, voglio poter ricordare ancora chi sono. So che puoi offrirmi questa possibilità».
Aveva impiegato del tempo, tuttavia alla fine era stato capace di mettere insieme i pezzi: il potente incantesimo rubato a Malefica, il quale a sua volta a suo tempo era stato rubato a lui, Cheshire, proprio dallo stesso Rumpelstiltskin; il motivo per cui lui aveva osato saccheggiarlo e stipulare un accordo con la Regina; il prolungato silenzio della donna, che stava evidentemente progettando qualcosa.
Era indubbio che nelle intenzioni di Rumpelstiltskin vi fosse quella d’intrappolarlo nella magia e la consapevolezza di essere stato in grado di precederlo ancora una volta lo deliziava.
Sfortunatamente, costretto in catene com’era, Rumpelstiltskin non gli diede la soddisfazione di vederlo adirarsi per la sconfitta; un’unica ombra passò sul suo volto dorato e nel momento in cui Cheshire batté le ciglia era già scomparsa, con suo estremo disappunto.
Aveva pochi altri divertimenti davvero degni di nota, oltre all’infastidire Rumpelstiltskin.
«E sia. Liberami».
L’affermazione aveva il sottofondo di un comando, tuttavia entrambi erano perfettamente consapevoli di chi fosse nettamente in vantaggio; Cheshire increspò le labbra sottili in un sorriso compiaciuto, assumendo un’espressione simile a quella di un gatto che si lecchi i baffi, e a un suo schiocco di dita tre sbarre della cella si sciolsero come zucchero e caddero in mucchi di polvere ai piedi di Rumpelstiltskin, che si ritrovò a stringere il vuoto tra le dita.
Mosse alcuni passi fuori dalla cella, con cautela, fissandosi i piedi, quasi non credesse davvero a quanto stava accadendo, poi alzò la testa e incrociò il suo sguardo.
«Avanti, prenditi la tua ricompensa».
«Ma certo» acconsentì subito Cheshire, fin troppo lieto di farlo, si sporse in avanti e gli stampò un bacio sulla bocca, senza particolare sensualità, simile a un bimbo che baci per la prima volta, timidamente, una bambina per cui ha una cotta.
Rumpelstiltskin si irrigidì, sorpreso, e Cheshire mugolò una risata contro le sue labbra, compiaciuto del suo stupore, prima di indietreggiare.
L’altro parve esitare un istante, prima di ripulirsi la bocca con il dorso di una mano con fare teatralmente disgustato. «Hai uno strano modo di riscuotere» sbuffò e solo in quel momento sembrò davvero irriverente e sarcastico, così come si mostrava con chiunque; con chiunque, meno che con Cheshire.
Perché, se Rumpelstiltskin possedeva un potere che faceva impallidire persino la Regina, Cheshire era ancora più forte.
Lui possedeva Rumpelstiltskin dacché aveva memoria.
 
♠♠♠

«Cosa?»
Gold lo osservava, ora, quasi che lo vedesse davvero soltanto in quell’istante.
Marshall odiava quello sguardo, lo sguardo di chi si accorga per la prima volta della presenza di qualcuno solo quando egli dice qualcosa d’interessante. Odiava non averlo in pugno, odiava che pensasse a qualcun altro oltre a lui.
Ostentando la consueta placidità, si riabbottonò con studiata calma la patta dei pantaloni consunti e proseguì nella sua spiegazione: «Credo che sia nel sotterraneo, o qualcosa del genere. Regina ha la chiave, il passe-partout, quello che è. Trovalo, oppure fa’ un patto con lei – sei bravo quasi quanto me in questo – e prenditelo. Lei è ancora viva».
Gold si limitava a scrutarlo, ma adesso neppure lo vedeva, ormai: la sua mente calcolatrice stava già pensando a un modo per mettere in atto la liberazione della ragazza.
Straordinario come un uomo così pericoloso ed egoista fosse disposto a rischiare tanto per una ragazzina, una qualunque, almeno secondo il modesto parere di Marshall. Tra loro due, invece, non sarebbe mai stato così: potevano finire a letto insieme tutte le volte che lui avesse voluto, ma Gold non avrebbe rischiato un centesimo per lui.
Non che gli importasse, ovviamente, e non era nemmeno così idiota da farsi mettere in scacco da una donna quale Regina Mills, come al contrario era accaduto alla sfortunata fanciulla.
«Che cosa stai facendo?» gli domandò d’un tratto Gold, gli occhi che scorrevano con disappunto sulla sua figura, nuovamente vestita.
«Mi è passata la voglia di scopare» scrollò le spalle Marshall, imperturbabile, la voce indifferente, monotona. «Mi hai anche schiacciato la sigaretta. Volevo finirla. Chissà quando mi ricapiterà di fumarmi una sigaretta, con quel vecchio e la signorina Swann che mi stanno addosso tutto il giorno».
«Sei arrabbiato?» sospirò Gold, con lo stesso tono che avrebbe potuto usare un padre con il figlio capriccioso.
Marshall inarcò un sopracciglio. «Se anche fosse?»
Gold non fece commenti riguardo a suoi possibili buoni sentimenti, perché entrambi sapevano che non ce n’erano affatto. Se Marshall stava comportandosi alla stregua di un bambino incapricciatosi di qualcosa non era perché fosse innamorato di Gold, si trattava di semplice egocentrismo: gli piaceva essere al centro dell’attenzione dell’uomo – altrimenti stipulare un patto perché venisse a trovarlo ogni giorno non avrebbe avuto alcuno scopo – e gli dava fastidio che qualcun altro gli rubasse la scena.
«Passerò di nuovo domani notte, lo sai» gli fece notare Gold. «Allora te ne lascerò fumare una intera, anche se alla fine ti uccideranno, prima o dopo».
Marshall increspò le labbra in un sogghigno che gli scoprì i denti – aveva degli strani canini, più appuntiti di quelli di un uomo comune. «Oh, sai che non succederà. Mi piacciono. Quando il portale sarà aperto e potremo tornare di là, non ne potrò assaggiare mai più. Credo che ne sentirò la mancanza».
La loro conversazione non aveva né capo né coda, come al solito.
Gold era l’unico in grado di sostenere un dialogo con un uomo come Marshall, lontano dal comune senso del tempo e dello spazio, perennemente in un altro universo, all’apparenza, ma per la verità fin troppo attento alla realtà e a coloro che gli si affaccendavano intorno.
«Torno domani, allora» replicò Gold con fare di congedo, mentre si rassettava gli abiti e serrava i pantaloni.
«Dovrai raccontarmi tuuutto, sappilo» lo minacciò scherzosamente Marshall.
Pur a malincuore, gli diede le spalle e fece ritorno nella sua cella, ma non si sedette sulla panca in fondo, contro la parete, rimase invece in piedi davanti alla porta, sulla cui maniglia Gold appoggiò una mano, senza però accennare a chiuderla. Non ancora.
«Come vuoi, se ci sarà qualcosa da raccontare. Ma dovrai pagare un prezzo».
«C’è sempre un prezzo» ghignò Marshall, imitando la sua voce nel riprendere quella massima che l’altro usava tanto spesso.
Poi, inaspettatamente, proprio mentre Gold si apprestava a spingere il battente, Marshall gli si avvicinò a passo svelto, felino, gli gettò le braccia al collo e gli si strusciò sensualmente addosso. «Okay,» ammise e si allungò in punta di piedi per leccargli le labbra «forse ho ancora voglia di scopare».
«Non abbiamo molto tempo» fece notare Gold, sebbene avesse già lasciato andare la porta della cella per concentrarsi su di lui. Le sue mani, sotto la stoffa della maglia, anch’essa rovinata, fecero rabbrividire Marshall.
«Faremo in fretta, ma prima ho una domanda». Sollevò un indice davanti al suo volto e gli afferrò un polso che stava scendendo lungo i fianchi, in fretta, sempre più in basso. «È il prezzo da pagare» ridacchiò, divertito.
Gold scosse la testa, esasperato. «Quale domanda?»
«Ti penti dell’accordo che facemmo da bambini?»
Era uno strano quesito; non avevano più parlato di quell’avvenimento, nonostante esso li avesse legati per sempre, dacché si era verificato. Era sempre stato presente tra loro, ma non l’avevano mai nominato.
«No, non me ne pento».
 
♠♠♠

«Dovresti scappare, ora» cantilenò Cheshire nel rimirarsi con noncuranza le unghie, lunghe e affilate, più simili ad artigli che a unghie umane. «Altrimenti ti scopriranno subito».
Rumpelstiltskin rise di una di quelle sue risate acute, infantili. «Oh, adesso che l’incanto di queste sbarre è stato spezzato, non possono più fermarmi. Dimentichi forse il mio potere?» La mano, sotto le vesti, corse d’istinto a sfiorare il pugnale in cui era riposta la sua forza. «Ho tutto il tempo del mondo».
«E non mi hai neppure ringraziato» si lamentò Cheshire. Gli girò intorno con calcolata lentezza e, giunto alle sue spalle, appoggiò i palmi sui suoi fianchi e insinuò le dita sotto il suo mantello, fino a sfiorare l’elsa del coltello. «Sia per averti liberato che per non aver mai approfittato di te».
«Mai?» gli fece eco Rumpelstiltskin, scettico. «Tranne quando ero bambino».
Cheshire spalancò gli occhi, sorpreso, e prima di rispondere batté ripetutamente le palpebre. «Oh, dunque ricordi» miagolò, deliziato, strofinando la guancia contro il suo collo come un animale festoso. «Credevo che mi avessi totalmente dimenticato. Comunque sia, sei stato tu ad approfittare di me, quella volta».
«Se non ricordassi non ti permetterei di fare questo» ribatté Rumpelstiltskin e gli colpì la mano con la propria per allontanarla dal suo coltello. «E saresti già morto».
Cheshire sorrise e chiuse gli occhi, inspirando a fondo il suo profumo.
Si era convinto che l’altro avesse del tutto dimenticato, ma non era così. Ormai non provava più nulla – aveva dato via il suo cuore per ottenere quei poteri, l’aveva offerto a una bambina chiamata Alice che in cambio l’aveva reso ciò che era ora – tuttavia, in un certo senso, la consapevolezza che Rumpelstiltskin ricordava gli scaldava il corpo.
«Non me l’hai mai detto, però».
Hai paura?”
Rumpelstiltskin aveva un debito con lui, parte di un patto che avevano stretto quando erano ancora troppo piccoli e ingenui per pensare che un giorno, trent’anni più tardi, quel contratto sarebbe divenuto un giogo, un collare stretto attorno al collo di Rumpelstiltskin e di cui Cheshire possedeva il guinzaglio.
Se hai paura, vado io in guerra al posto tuo. Non ho ancora quattordici anni, ma sono alto come te. Mi prenderanno di sicuro. Tu resta qui nascosto”.
Quel giorno Rumpelstiltskin non aveva avuto il coraggio di fermarlo. Immobile, avvolto dalle coperte del suo giaciglio, aveva ascoltato il rumore degli zoccoli dei cavalli dei soldati che venivano a prendere i quattordicenni per la leva militare. Una voce profonda aveva detto qualcosa, la vocetta acuta di Cheshire aveva risposto, un po’ tremante.
Poi tutto era finito, e Rumpelstiltskin aveva pianto. Suo padre non l’aveva più guardato in faccia.
Era stato grazie alla codardia se era stato capace di ottenere i poteri del precedente Signore Oscuro ed era stato a causa della codardia se adesso doveva piegarsi davanti a Cheshire.
«Tu non me l’hai mai chiesto e d’altra parte mi sembrava ovvio. Perché avrei dovuto obbedirti, altrimenti?»
La guerra era stata dura, crudele, Cheshire non sapeva come un ragazzino come lui fosse stato in grado di sopravvivere a più di uno scontro. Al terzo sarebbe morto, se Alice non si fosse presentata con quell’offerta, mentre lui agonizzava su quello che avrebbe dovuto essere il suo letto di morte, nel lazzaretto dove due soli medici si affaccendavano come potevano intorno a più di cinquanta feriti e moribondi.
Regalami il tuo cuore e ti restituirò la vita. Una vita molto, molto potente, in cui sarai padrone di una forza senza eguali”.
Cheshire era troppo giovane e aveva troppa paura di morire. Aveva accettato.
Ma… perché io?”
È stato il Cappellaio Matto a sceglierti”.
Lui non aveva la più pallida idea di che cosa significasse né di chi fosse quel Cappellaio Matto, ma del resto non aveva alcuna importanza. Il sangue scorreva copioso dalla sua ferita, lui delirava, piangeva, gemeva.
Voleva vivere ancora.
«Hai davvero un cuore tenero. Ti dispiace d’avermi lasciato andare, quella volta?»
«Non si tratta di questo. Mi limito a rispettare l’accordo».
 
♠♠♠

«È fortunato, signor Liddell». La chiave girò nella toppa, la porta della cella si spalancò, ruotando sui cardini con un fastidioso rumore metallico, e lo sceriffo gli fece cenno di uscire con un gesto imperioso della mano. «Ha una sorella che le è molto affezionata».
Una sorella?
Marshall inarcò entrambe le sopracciglia, tuttavia non ribatté, si limitò a muovere alcuni passi oltre la soglia della prigione e a schermarsi gli occhi quando la luce della finestra lo colpì dritto in volto.
«Venga» lo esortò Emma, precedendolo fino all’uscio della stanza della prigione.
Fuori, a pochi metri di distanza dalla porta, aspettava una ragazza che non poteva avere più di diciannove anni, le mani intrecciate all’altezza dell’ombelico, nell’atteggiamento di una bambina perbene, e i lunghi capelli, lisci e biondi, trattenuti sopra la fronte da un cerchietto nero. Indossava un grembiule bianco, sotto un vestito azzurro la cui gonna le arrivava alle ginocchia e delle calze a rete che le fasciavano le gambe.
«Oh, Marshall!» La giovane si illuminò in volto nel vederlo e corse verso di lui, per poi cingergli il collo con le braccia. «Sono così felice di vederti!»
Dal momento che, per una volta nella sua vita, Marshall era troppo incredulo per reagire, di nascosto dallo sceriffo la ragazza gli rifilò una gomitata nel costato e soltanto allora l’uomo si riscosse e l’abbracciò a propria volta.
Alice. Alice è tornata.


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Avvertimento: se i commenti consistono in "eh, ci mancava quella che vede lo slash dove non c'è" e simili, astenetevi <3 Grazie <3
P.S. "Liddell" è il cognome di Alice nel libro di Carroll, per chi non lo sapesse.
  
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