primavera
È
in momenti come quello – il mare davanti, il cielo annuvolato sopra le loro
teste, il grigio che mette in risalto la macchia di luci, colori e vita che è
Rose al suo fianco -, è in momenti come quello appunto, in cui è circondato
dall’infinito, ce l’ha attorno la vastità dell’universo, non dentro, che John Smith si accorge di quanto sia difficile.
È una parola
complicata e profonda e tanto triste.(1)
Vita.
Lui è vivo. Ed è con Rose. Dovrebbe essere perfetto, invece è solo difficile.
D’altronde
la perfezione non esiste.
Com’è
che gli ha detto, Rose? È stato un pomeriggio di poco tempo fa, poco, ma sembra
già così lontano. Sembrano trascorsi anni e non poche settimane. Serve a
ricordargli che sì, sia poco tempo, il profilo di Rose che è senza rughe, quasi
trasparente nell’azzurro pulito della mattina, e appare pensieroso mentre fissa
le onde col mento appoggiato sul palmo della mano.
“Sarebbe
monotona e inutile, finiremmo con l’annoiarcene senza rendercene conto.”
Vorrebbe
tornare a quel giorno. Era un sabato ed era il loro giorno libero. Si erano
dati appuntamento lì, sul molo, per prendersi un gelato e andare alle giostre
insieme. Non ci sono andati sulle giostre, non lui almeno, non perché non
volesse, ma perché l’addetto alla sicurezza non ha voluto farlo passare.
Pensava fosse un matto, gli ha detto che avrebbe spaventato i bambini. Lui ha
annuito, stizzito e sorpreso, ma ammutolito da quell’insolita sgarberia. Rose è
riuscita a salirci però. Rose, paladina della Terra, l’eroina che tutti
conoscono come appartenente a Torchwood, ente di difesa e protezione del
pianeta, (ha incontrato la Regina e la Matriarca l’ha fatta dama di un qualche
ordine di fior non ricorda cosa).
Sovrappone
le due immagini di Rose: una in cui è sulla sella bardata di un cavalluccio
bianco, che ride e gli fa cenni con la mano; un’altra, quella di oggi, in cui
la vede osservare con occhi gonfi di rimpianto l’immensità che li circonda. Non
è a lui che pensa adesso. Forse non lo era neanche allora(2). È ai margini di quel che vede e prova. Lui
spinge per entrare, per non stare sul ciglio della strada a farsi buttare addosso
acqua sporca e fango dalle macchine che passano.
Ci
vuole tempo, si dice. Ma il tempo è così poco e non si sa quanto sia quanto
duri quanto ne abbiano. È stata una cosa nuovissima questa, ma l’ha imparata
subito. Quelle un po’ brutte sono sempre le prime a cui ci si abitua.
Per
questo John Smith si scrolla di dosso il dubbio, si appiattisce i capelli sulla
fronte che l’umidità gli ha reso bizzosi e si curva sul volto di Rose per darle
un bacio. Sulla guancia, vicino alla bocca imbronciata, ma è comunque
abbastanza. La guarda voltarsi di scatto, le sopracciglia inarcate e la
sorpresa negli occhi, un sussulto che lui non le ha visto fare, ma che sente
ugualmente, percepisce allargarsi dentro di lei come in lui, una specie di
saltello o tornado o vortice di gioia e confusione e calore. – Perché? – Rose
gli soffia in faccia e lui fa spallucce.
Vorrebbe
dirle che è perché è bellissima con la fronte accigliata e la dolcezza del suo
sorriso rivolto al vuoto, che è geloso di se stesso, quel se stesso che odia e
invidia ed è tutto ciò che non è più, non sarà mai più, e quello rappresenta un
modo come un altro per trattenerla là dov’è lui, che il tempo non è infinito e
non lo sono neppure loro, ma la verità è solo una.
-
Perché mi andava – risponde con un sorriso impertinente. Rose scuote la testa,
le guance un po’ arrossate ed è deliziosa a vedersi. Vien voglia di mangiarla
come zucchero filato che la pioggia scioglie facendolo rimanere sulle dita in strisce
appiccicose. La verità è solo una, sì.
Ed
è che la ama. Come un bambino, un uomo, un Signore del Tempo.
Anche
i bambini sono capaci di grandi amori. Lui più di tutti, ma dopotutto è perché
bambino lo è da una vita. O vite, nove per la precisione.
Infinito
estate
Sono
passati tre mesi da allora. Assieme hanno sventato due attacchi alla Terra, più uno d’invasione
contro l’intero sistema solare. Rose è diventata ambasciatrice di pace con una
razza aliena che perfino a lui risultava difficile pronunciare dapprincipio e di
cui ha impiegato un po’ a ricordarsi (i buoni vecchi omini grigio cenere! Gli
Asgard(3), ma certo!); è diventato dottore altre quattro volte, ad honorem. Quando li incrociano per
strada non riconoscono solo lei ormai. Indicano anche lui e bisbigliano cose
carine sul fatto che sia una specie di secchione geniale, uno di quegli
intelligentoni che nascono una volta ogni cento anni. Ad Oxford e Cambridge lo hanno
ribattezzato Einstein e il Governo lo ha già pregato di costruire una specie di
raggio ultrasonico di particelle, “a scopo e utilizzo puramente difensivi”
dicono loro. Questo Rose non lo sa e comunque lui ha rifiutato.
Sono
passati due mesi e loro sono di nuovo lì, sulla panchina del molo. In un giorno
coperto e livido che promette lampi e tuoni in lontananza. Rose non guarda
l’orizzonte però. Ha gli occhi chiusi e la testa reclinata su un lato, a
pochissima distanza dalla sua spalla. Sembra dormire e ha l’aspetto stanco che
ci si aspetterebbe che uno abbia dopo dieci ore di turno. E quella versione non
si discosta poi molto dalla realtà a conti fatti. Non si vedono da due
settimane, dalla sua ultima seduta di laurea e anche allora non si sono
scambiati molte parole. Rose è rimasta in disparte tutto il tempo, nelle trafile
e lui, al centro di ogni attenzione e nel cono di luce dell’aula magna, in
mezzo a mille sconosciuti, pacche e strette di mano, congratulazioni e sciocche
ovazioni di lode, lui non riusciva a pensare ad altro che a quella donna in
penombra, vestita di nero e con l’oro negli occhi e nel cuore, a sorridergli a
mezze labbra da lontano. Si è voltato un attimo, i secondi necessari per
salutare il Rettore, che lei era già scomparsa lasciandosi dietro il rumore dei
suoi passi e una porta sbattuta, l’eco bruciante della sua assenza.
Il
tempo non gli è mai stato amico. Era un gioco, ma anche i giochi presto o tardi
finiscono e si ritorcono contro. Ora gli sembra che sia diventata la sua
maledizione. Il tempo rallenta, accelera, sfuma e si dilata in attimi eterni
prima di procedere in una discesa senza freni. Rose è un fiore, ne ha il nome
oltre che l’essenza, ma non sembra impaurita né intimorita da quell’avanzare
che non conosce fermi. Il tempo non la spaventa. Vive giorno per giorno,
temporale dopo temporale. Tutto con l’aria decisa e il cipiglio sicuro.
Per
lui è diverso. Ogni novità sembra un ricordo e ogni ricordo è un cambiamento,
una messa a fuoco della rivoluzione che è avvenuta nella sua vita.
Sospira
e Rose riapre gli occhi come per magia, come una bambola o una principessa
delle favole dopo un sonno durato cento anni, incrociandoli ai suoi.
Ha
un’espressione interrogativa e incuriosita.
Lui
sa già, ancora prima che succeda, che cederà a quella sua voglia di sapere
perché è piacevole, più che piacevole, che si interessi a lui, lo fa sentire
importante e vivo. E perché
francamente non riesce a dirle di no o a rifiutarle niente.
-
Non credevo potesse rivelarsi tanto problematico – rivela, buttandole quasi per
caso un braccio dietro le spalle, ma poggiandolo sulla panchina.
-
Cosa? – chiede Rose mettendosi a sedere più composta, seria come davanti a un’imminente
catastrofe.
Lui
si ritrova a scrollare le spalle, con noncuranza, cercando di minimizzare
quanto ha detto e sta per dire. - Vivere così. Normalmente. È più difficile di
quanto avessi previsto. -
-
Più difficile che sconfiggere un esercito di Dalek o Cybermen? – Rose sorride
senza darsi pena di nasconderlo e lui sbuffa cominciando a gesticolare, come fa
sempre quando è innervosito o si accalora. - Cerca di capire, Rose – si difende.
- Non ero mai stato un essere umano. Tutte queste emozioni, questa
vulnerabilità… non la sento mia. Non ancora almeno. Devo abituarmici. -
-
Ma lo faccio, riesco a capire – Rose smette di sorridere improvvisando un’aria
competente. - È un po’ quello che deve aver provato Superman perdendo i suoi
superpoteri, no? - tenta. - Sarà stato
preso dalla paranoia e si sarà posto un sacco di domande del tipo: chi sono
davvero? Cosa posso diventare ora? Credo che tu debba solo scoprire chi sei,
specie ora che non sai più cosa essere per gli altri – consiglia con un sorriso
che è mite e scaltro e di incitamento, questo e molto altro.
-
Sei saggia, Rose. -
-
Non dirlo con quell’aria e quel tono sorpresi. Lo sono sempre stata, sai? - lo riprende dandogli un colpetto sul
braccio. Per un momento vorrebbe prenderle la mano e stringerla come ricorda di
aver fatto spesso in passato. Ma era un’altra vita quella, un altro se stesso.
Ora tutto è complesso e difficile e ingigantito al limite.
-
Mi piace questo pontile – le svela indicando la banchina che è vuota eccettuati
loro due. Un puntino blu e uno rosso su un orizzonte che ha tutte e due
assieme, tramonto e pioggia. - Il mare.
Ho scoperto che mi piace l’odore salmastro e il rumore delle onde, la risacca.
In compenso odio la sabbia. È fastidiosa, si infila dappertutto. E anche le
spiagge – rabbrividisce ostentando un disgusto esagerato. - Bleah.
-
-
Già – Rose sorride distrattamente, prima di annuire con la fronte increspata e
lo sguardo nostalgico. - Anche a me non piacciono molto. -
Può immaginare
il perché.
autunno
Scaccia
il ricordo molesto come un insetto ronzante e si concentra su Rose che gli si è
fermata di fronte, con le braccia incrociate in petto e le sopracciglia
aggrottate.
-
Sei un idiota – lo saluta con enfasi. Il tono convinto, irremovibile basta
perché ogni spiraglio delle tapparelle e ogni porta socchiusa, ogni occhio o
orecchio sospetto decida di mettersi ai ripari e a distanza di sicurezza da
quella conversazione in pieno svolgimento.
Lui
è solo sconvolto e decisamente confuso invece e sì, anche un po’ intimidito
forse, lo ammette. La rabbia di Rose d’altronde è leggenda, un mistero che preferirebbe
che rimanesse tale anche per lui.
-
Cosa? – chiede per pura formalità.
Rose
non pare colpita da quel suo sfoggio di educazione. Al contrario, il fatto che
lui non comprenda sembra seccarla ancora di più.
-
Ho detto che sei un idiota – scandisce in modo chiaro e distinto, - e non mi
importa di quel che pensa la gente. – Solleva
il mento con determinazione gettando uno sguardo fermo tutt'attorno. - Puoi essere
un genio in scienze e fisica comparata, quantistica e quant’altro o nel
costruire congegni di tecnologia avanzata, ma, Professore, rimani un idiota
quando si tratta di comportamenti da adottare e del giusto modo di agire. -
-
Come mi hai chiamato? – domanda sempre più perplesso, con
la mente in subbuglio
alla ricerca frenetica dell’origine del problema che, ora
finalmente lciè arrivato, deve essere per forza qualcosa che lui
ha fatto. O più probabilmente
che non ha fatto, dimenticandosene.
-
Professore – ripete Rose con gli occhi socchiusi e l’aria di chi sembra stare
sulle spine. - Perché, non ti piace? -
-
No, è… carino, credo, - la rassicura esitando appena, - ma a cosa è dovuto? -
Lo
sguardo di Rose ridiventa tagliente. - Preferisci essere chiamato come il
belloccio di Pocahontas?
-
Non ci avevo fatto caso. -
-
Non fai caso a molte cose tu – ribatte Rose e qualcosa nel suo tono gli risulta
spiacevole, gli fa male. - Come al fatto che siano trascorsi dieci giorni
dall’ultima volta che ci siamo visti. -
-
Non è la prima volta che succede, mi pare – si sente in dovere di farle notare.
- Qual è il problema? –
-
Il problema è che non è normale, d’accordo? – risponde lei senza guardarlo
direttamente. - Dieci giorni, dieci, dieci
per l'amor di Dio! senza tue notizie, senza sapere dov’eri, se eri vivo o morto. Tutto
questo non è normale e non mi importa se non era la prima volta che accadeva. È
stata comunque l’ultima, intesi? -
-
Oh. Oh – esclama, prendendo ad ammonirla con l'indice, la bocca spalancata.
-
Cosa? -
-
Sta succedendo. Ti stai affezionando. –
Nel
dirlo non può fare a meno di sorridere ampiamente e Rose abbassa di scatto la
testa arrossendo un poco.
-
Non è vero – la sente borbottare. - Cioè sì, lo è… ma perché sto qui a
giustificarmi? Non è neanche da prendere sul serio quel che hai detto. È una
cosa talmente ovvia, no? –
-
Non per me – obietta lui con un ché di solenne. - Non quando si tratta di me, inteso
come me me e non come doppio umano
del... E comunque, io sono sempre serio quando ci sei in ballo tu, Rose.
Dovresti saperlo. –
Rose
lo guarda in viso altrettanto intensamente e gli si scioglie qualcosa dentro
accorgendosi che sta guardando lui e non qualcun altro, che pensa solo a lui e
a nessun altro.
Lei
alza una mano e gli sfiora il mento, in una carezza affettuosa.
-
Ti sei fatto crescere la barba – osserva, già rabbonita.
-
Oh, questa – dice, scrollando le spalle e fingendo indifferenza, mentre tutto
ciò a cui riesce a pensare è la mano di Rose che ora gli si è spostata sulla
guancia. - Sì. Ho avuto altre cose per la testa. -
-
Del tipo? -
Te.
Non
risponde, ma forse lei ha sentito lo stesso perché subito dopo abbassa la mano,
gli dà la schiena e corre via, lasciandolo con la pelle del volto che sfrigola
e il cuore, quell’unico cuore, in preda al tumulto.
- Professore,
era da tanto che volevo chiedertelo. Tu dovresti saperlo. Potresti rispondermi.
-
- Cercherò di
farlo se mi spiegherai cosa vuoi sapere. -
- Si tratta del
Dottore. Lui… lui non si è trovato da solo dopo, giusto? Donna è rimasta con
lui. -
- No. -
- No?-
- No. -
- Cosa significa
no? -
- Sta per no,
Rose. -
- Sì, questo
l’ho capito, ma perché no? È successo qualcosa a Donna o al Dottore? Lui, lui
sta bene, giusto? -
- Donna aveva la
conoscenza di un Signore del Tempo nella mente. Troppe esperienze non sue,
troppi ricordi estranei. Tutte quelle informazioni rischiavano di bruciarle le
sinapsi, riducendo il suo cervello in un oggetto inanimato e lei in un
vegetale. -
- Quindi è solo.
È di nuovo solo. -
- Non per molto.
Non per sempre. È il Dottore. Sai quel che viene dopo. L’uomo con la cabina blu
che viaggia nel tempo e nello spazio. Chi non vorrebbe fargli compagnia? –
Quella è stata
la prima volta in cui gli ha preso la mano. Gliel’ha stretta forte e lui allora
ha finto di non accorgersi del sussulto che gliela faceva tremare.
- Stava per
darmi un pezzo del Tardis, sai, ma poi non l’ha fatto. Ci ha ripensato. Puoi
immaginare il perché(4)? -
- Sì. –
- Lo rimpiangi?
-
- Cosa? -
- Il bacio che
mi desti allora, alla Baia. Ricordi? -
Rose annuisce.
- Te ne sei
pentita? -
- No. -
- Bene. -
- Bene? Come
sarebbe a dire bene? -
- Sarebbe a dire
bene. Bene che sta per “ne sono contento”. Temevo che ti sentissi in colpa. -
- Sensi di colpa
e amore – sbuffa. - In fondo le due parole si assomigliano. È un po’ come dire
la stessa cosa, no? –
inverno
Non
sa quanto tempo sia trascorso e in verità neppure gli importa. Basti sapere che
sono seguiti molti altri di quei pomeriggi spesi a camminare sulla banchina, il
mare nelle orecchie e il volo dei gabbiani a riempirli di meraviglia e invidia.
Quell’oggi
il cielo è buio e spira un vento gelido che ha spinto Rose a sollevare il
bavero del giubbotto dietro la nuca poco prima. L’inverno e il freddo sono alle
porte – questo gli fa considerare con rammarico che probabilmente sarà l’ultima
passeggiata fino alla prossima stagione e al ritorno del bel tempo - e sulla
linea frastagliata del tramonto si riesce a intravedere una caligine di foschia
e bruma, mentre in alto, più su, si possono già indovinare le stelle, piccoli
puntini e fari accecanti.
Si
alita sulle mani che sente fredde e intirizzite, tanto per fare qualcosa. Rose le
sue le ha sotto alle braccia; si ferma appoggiandosi al corrimano di metallo
del parapetto e lui fa lo stesso, addossandosi con la schiena, però, e dando le
spalle al panorama che comunque conosce a memoria.
-
Era un bugia – pronuncia Rose d’improvviso e John le lancia uno sguardo cauto,
prudente, giudicandone il tono e l’espressione. - Allora, che io potessi
cambiarti, renderti uguale a lui… era una bugia. Mentiva. -
Non
nega, non smentisce. - Quando l’hai capito? – è tutto ciò che dice.
Rose
annuisce tra sé, ma non pare sorpresa. È come se l’avesse sempre saputo in
fondo. - Tu sei umano, proprio come noi e gli umani, si sa, sbagliano. Fa parte
di quel che siamo perché è commettendo errori che cresciamo e impariamo a renderci
migliori. L’errore, no – scuote il capo sorridendo appena, senza intenzione, - il problema in te sta nei sentimenti,
nel tuo cuore. Cedi alla rabbia perché sei umano e io questo non posso
cambiarlo. Non penso neppure di volerlo. -
John
chiude gli occhi per un attimo e serra le labbra, l’impressione di averle
cucite per quanto le sente incollate tra loro. Quando li riapre ha gli occhi di
Rose fissi nei suoi e non sono tristi né inquieti né malinconici né infelici né
i mille altri incubi che aveva il terrore di avvistare, accumulati dentro a
riflettersi come spettri e ombre. - Sei un egoista e sei capriccioso e
antipatico, un vero orso a volte, per di più sgarbato. – Rose scoppia a ridere
e lui non capisce se stia ridendo per quel che ha detto o semplicemente di lui.
Nemmeno gli interessa. - Litighi con mia madre e sei scortese con chi non ti
piace, non tenti neppure di essere gentile – prende un respiro profondo e
davvero il suo sorriso e il suo sguardo è quanto di più luminoso gli sembri di
aver mai visto. – Se dovessi scegliere tra l’universo e me, sono sicura che non
esiteresti a scegliere me. -
Tanto
è divertito e felice il sorriso di Rose quanto il suo deve sembrare turbato e incerto.
-
E a te sta bene? – le chiede, solo perché vuole essere sicuro e che almeno su
quello non ci siano malintesi di alcun tipo.
Rose
si alza in punta di piedi e gli getta le braccia al collo.
-
Sì – bisbiglia ad un soffio dalle sue labbra prima che lui la baci.
Tra
le sue braccia John Smith ritrova posto, la sua dimensione. Infinito, riflette.
L’abbraccio
di Rose è infinito.
Spazio
dell’autrice:
Ok,
sinceramente non so che dire, tranne che mi sono fissata.
Ormai
ce l’ho in testa il Dottore, nel sangue e nel cuore, ovunque mi trovi e con
chiunque, sempre, ad ogni ora del
giorno e della notte e davvero, non è
possibile alzarsi alle due di notte dopo essersi rigirati inquieti nel letto
per ore e solo perché si immaginava una certa scena, un certo dialogo, un certo
incontro strappalacrime tra due o tre personaggi a caso.
Sono
diventata una DW dipendente e quel che è peggio: me ne compiaccio, anche xD!
Bando
alle ciance, che sono sempre troppe nel mio caso, questa storia è nata domenica
mattina e ho finito di scriverla ieri mattina all’Università invece di prendere
appunti, giustamente.
Non
mi convince molto, ma a modo mio mi ci sono affezionata perché è tenera e dolce
e per quanto lo stile (tempi verbali al presente °-°, troppi pensieri – mamma,
ci sto ricadendo xD – e i personaggi che sono di un OOC spaventoso forse) non
sia dei miei gusti, mi piace e rappresenta il mio regalo di compleanno per me,
anche se in ritardo. Mi sento tanto Kuzco, ma va beneee :D
John Smith… la battuta sul
nome (preciso che personalmente io apprezzi il personaggio nel film di Pocahontas
malgrado nella storia a Rose non piaccia) è vecchia come il cucco. Nel senso
che la feci io stessa mesi e mesi fa vedendo per la prima volta la terza
stagione, l’episodio “Natura Umana” mi pare.
Era
da tanto che volevo scrivere qualcosa su Rose e il Dottore umano e ora finalmente
l’ho fatto.
Che
lui si faccia mille paranoie mi sembrava probabile, ma ora non so, non ne sono
più tanto sicura. Che non si innamorino istantaneamente o comunque non stiano
insieme da subito, insieme nel senso comune di coppia, per me è un dato di
fatto, assodato. C’è l’imbarazzo, un po’ di riserbo e reticenza, quel non so
ché a dividerli, l’ombra del Dottore tra loro da spazzar via senza cancellarla,
ma piuttosto imparando ad accettarla. E John che, povero secondo me, è
probabilmente quello che si fa più problemi. Lui ama Rose quanto il Dottore, ma
sa che ci sarà sempre lui a dividerli in qualche modo, che Rose guardandolo vedrà
sempre lui o penserà a lui in rpima o seconda battuta. Me lo immagino che la vede fissare il vuoto e si fa
mille trip mentali.
Sì,
insomma, sono un caso disperato xD
Ultime
precisazioni e noticine di servizio e poi mi defilo, giuro:
(1)È una frase ripresa dall’episodio “La
moglie del Dottore” 6x04.
(2)Si riferisce al bacio scambiato alla
Baia del Lupo Cattivo.
(3)Un riferimento lampante alla serie Stargate
Sg-1. Lì c’è davvero una razza aliena con questo nome. Per chi volesse saperne
di più http://it.wikipedia.org/wiki/Asgard_(Stargate)
(4)Ho letto da qualche parte, non ricordo
bene dove, che nella sceneggiatura originale fosse stata presa in
considerazione l’idea che il Dottore lasciasse al suo doppio umano un pezzetto
di Tardis, questo partendo dal presupposto che i Tardis possano crescere ed
essere “allevati”. Non mi chiedete delucidazioni in merito perché più di tanto non
ci ho capito molto nemmeno io. L’idea non fu portata avanti, naturalmente, ma a
me è piaciuto pensare di sì invece. John chiede a Rose di capire perché il
Dottore abbia deciso di non farlo alla fine e Rose lo fa. Insomma, sono dell’opninione
che fosse già fin troppo difficile per lui lasciare Rose con qualcun altro,
figurarsi immaginarla in un altro Tardis con un altro sé poi.
È
tutto, credo. Spero di non avervi tediato troppo e che sia stata una lettura piacevole
dopotutto, perché l’intento era appunto quello ;) Un saluto caloroso a tutti!