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Autore: Vampiresroads    25/04/2012    1 recensioni
Un ragazzo apparentemente morto dentro, vede rinascere un nuovo sé, vicino ai suoi migliori amici.
Nessuna guerra è persa, finché non si è sotto terra.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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E lì ricadevo nello stesso incubo.
Non c’era più nulla, la mia testa appassiva, un coltello era infilato dentro ogni pensiero, sopprimeva la speranza.
Non è vero che era tutto inutile, chiunque avrebbe potuto salvarmi;
il punto è che nessuno voleva salvarmi.
Un pugno da far diventare viola la faccia, già blu dal giorno prima. Solo che questa non è una metafora.
Nessuno a cui rivolgersi, tutti di cui aver paura.
Mi ero abituato alle inutili risate delle persone , sapevo che il mio mondo sarebbe durato poco, ma faceva così schifo che ne ero contento, probabilmente l’avrei fatto finire io una volta per tutte.
Mi ero abituato a tantissime cose, ma non ci si abitua mai a quelle nocche che ti mandavano in ospedale senza passare da casa.
Questo soprattutto perché non c’era una colpa.
Non avevo deciso io di essere così, non avevo programmato né il mio modo di essere né il mio fisico.
Dalle medie cominciò quel ciclo: Casa, paura, scuola, botte, casa, paura, scuola,botte. Ero convinto fosse un giro di cui la fine sarebbe coincisa con la fine della mia vita, che avrei voluto far arrivare particolarmente presto.
Il primo e il secondo liceo furono gli anni più duri, ma continuai a mandare avanti la mia passione per la musica e soprattutto per il disegno, in particolare i fumetti, le uniche cose in cui trovavo un po’ di coraggio.
Summit era deserta quella sera del 14 Gennaio 1993, era troppo freddo e la gente restava a casa, felice, spensierata, al caldo.
Non era il mio caso. Mia madre pregava perché io e Mikey, mio fratello, potessimo continuare a star bene, ma lei non ci conosceva, non sapeva che non eravamo mai stati bene. Mio padre non lo vedevo da mesi, o forse anni.. Poi c’era mia nonna, Elena. Elena era il motivo per cui ero ancora in quel mondo, il motivo per cui continuavo a reggermi in piedi.  La guardavo, e non capivo come lei potesse continuare ad essere felice, dopo averne passate così tante, dopo essere stata trattata peggio di quanto lo fossi stato io.
Quella sera mi cambiò la vita. Elena mi consigliò di uscire a prendere un po’ d’aria, perché non uscivo mai; diceva che era più bella Summit con la nebbia, diceva che intrappolava il dolore e che poteva far capire a sé stessi quanto si può essere meravigliosi. La appoggiai, anche se secondo me lei si inventava tutto, semplicemente per farmi andare avanti. Alla fine mi convinse e decisi di uscire.
Camminando vidi degli anziani che a malapena si reggevano in piedi e me li immaginavo. Immaginavo quando avevano la mia età e saltavano felici tra le stradi di quella città che ora era così fredda per tutti.
La nebbia iniziò a trasformarsi in neve e alla comparsa dei primi fiocchi, la piazza si riempì di bambini entusiasti.
Dalla via principale, però, oltre ai bambini entrarono in piazza anche Zack e James. Erano i due della scuola di cui avevano più paura. Ancora mi faceva male il braccio che mi avevano rotto sei mesi prima.
Cercai di scappare schivando i bambini e i loro lanci, ma la mancanza di dote atletiche, mi impedì di fuggire fino a casa. Mi lasciarono a terra in non so quali condizioni. Appartenevo al ghiaccio, pensavo che non sarei durato e non feci niente per impedirlo, anche perché non c’era nulla da fare.
Riaprii gli occhi un paio di ore dopo, un ragazzo mi aveva trovato e mi aveva portato in ospedale. Pensai che ci fosse stato qualcosa sotto. Perché mai una persona avrebbe dovuto aiutarmi?
Parlai un po’ con lui. Faceva il liceo artistico, aveva un ammasso di capelli ricci che notai prima del viso, parlava velocemente, ma non sembrava voler farmi male.
Uscito dall’ospedale iniziai a conoscerlo davvero, diventò il mio unico e migliore amico.
Raymond o, come voleva essere chiamato lui, Ray, aveva la mia stessa età; eravamo entrambi del 1977. Mi disse che avevo molto talento nel disegnare, nel suonare e nello scrivere. Disse che anche lui era un musicista, il suo strumento era la chitarra. Gli feci conoscere la mia famiglia, mio fratello bassista, mia nonna Elena e lui mi presentò Matt, il suo amico batterista. Divenni più felice, imparai cosa significa avere una persona che per una volta ha fatto qualcosa per te, solo per te, senza ricavarne interessi.
Nonostante questo non ero né felice né accettato, i miei compagni di classe aumentarono la potenza e la frequenza delle loro acide botte, che mi facevano vomitare sangue ogni singola volta, ma iniziai a credere in me.
Cambiai scuola, andai al liceo artistico, così avrei approfondito la mia passione per l’arte. Non stavo bene nemmeno lì, ma prima stavo peggio. Ero bloccato ancora in tutto ciò che temevo. Non avevo ancora speranze, temevo di non riuscire a rialzarmi.  Spedii ad una casa editrice piuttosto famosa i miei disegni. Io, Mikey, Matt e Ray iniziammo a suonare, ma non provavamo spesso e trascuravamo ciò che dovevamo fare.  
Correva il 29 Luglio del 1998, eravamo cresciuti, eravamo bravi, ma mancava qualcosa, non eravamo abbastanza per nessuno. Ricevetti una lettera dalla casa editrice a cui avevo spedito i disegni. Avevo passato la prima fase, se avessi vinto anche la seconda, avrebbero pubblicato la storia sulla quale avevo lavorato tutta la mia vita.
Era già una vittoria: la mia prima vittoria. Mi sentii appoggiato anche dai miei amici. Perché ho dovuto aspettare ventuno anni per essere felice?
mi convinsi che era arrivato il mio momento di essere uno come gli altri, mi convinsi di poter raggiungere tutto, solo per aver avuto quella piccola prima soddisfazione. Elena, che forse era la persona che mi conosceva meglio, mi accompagnò alla sfida finale. Gli amici mi dicevano di essere prudente, perché non avevo niente di concreto in mano.
Arrivai all’ incontro.
Osservai i miei avversari. I loro disegni erano meravigliosi. Crollò tutto ancora una volta, non avrei mai potuto vincere.  I miei amici mi avevano avvertito di stare calmo, ma non ascoltai nessuno. Mi resi conto solo in quel momento dello stupido che ero. Non capii nemmeno come fossi potuto arrivare lì. I miei disegni fecero ridere il pubblico, mi ritrovai al punto di partenza, distrutto per l’ennesima volta.
Quando tornai non seppi nemmeno cosa dire ai miei amici, avevo paura di tutto, di nuovo.
Mentre camminavo da solo soffocando i pensieri incontrai un ragazzino che suonava per strada. Aveva solo diciassette anni, ma con la sua chitarrina da principianti riusciva a fare molto più di quanto avessi visto in precedenza. Mi fermai ad ascoltarlo per qualche minuto, o forse mezz’ora, se non un’ ora. Non me ne resi conto. Nei suoi atteggiamenti capii che era la persona che ci mancava.
Non so per quale motivo, ma non feci nulla. Me ne andai zitto, ricominciai a rinchiudermi nei disegni di mostri, mummie e fantasmi. 
 La vita per me era semplicemente inutile. Ho iniziato perdermi nelle cose che potevo ottenere facilmente e a sprecare la mia vita disegnando.
Poi un giorno, ho visto corpi che cadevano dal cielo. Ho visto gente morire. E qui è quando ho deciso di dare una svolta alla mia vita. Ho chiamato tutti i miei amici che avevano uno strumento,  ho parlato loro del ragazzo che avevo visto, che era colui di cui avevamo sempre avuto bisogno.
Abbiamo scoperto che frequentava la mia vecchia scuola, la prima in cui andai. Si chiamava Frank.
Era dicembre 2000, uscii al freddo dell’inverno per cercarlo. Suonai alle porte di molte persone che frequentavano quella scuola, domandai a tutti se lo conoscevano, se sapevano dove potessi trovarlo.
Nulla da fare, le mie mani si erano ormai da tempo abbandonate al gelo della notte, il buio era accecante e la strada si chiudeva sempre di più in un vicolo ceco, freddo e duro.
Continuai a cercare ancora per un po’, ma tornai a casa e decisi di passare il giorno dopo a scuola del ragazzo.
L’indomani mi dissero che era tornato nella sua città natale, la stessa di Ray, Newark.  Chiesi un numero di telefono o un indirizzo alla scuola. Tutto ciò che mi fornirono fu il numero della madre, ma non sapevano se lui era con lei.
Per fortuna,  vivevano insieme.
Accettò di unirsi a noi e partimmo per un tour.
Il primo anno fu orribile, sprecavamo le giornate a fare ciò che era comodo, a pensare che un giorno qualcuno di importante ci scoprisse.
Un produttore ci offrì di registrare un album con la sua casa discografica, l’offerta era migliore di quella con cui eravamo in tour.
Accettammo. 
Il ventitré Luglio 2002 incidemmo I Brought You My Bullets, You Brought Me Your Love. Fu un’ ottima scelta. Eravamo piuttosto orgogliosi di quell’album.
Quando tutto sembrava andare per il meglio, Elena morì. Matt lasciò la band. Litigammo con il produttore.
Mi stavo arrendendo alla vita. Ero sul punto di farla finita. Ero affacciato alla finestra dello stadio dove gli altri si stavano esercitando, mi sporgevo sempre di più. Il manager mi trovò e iniziammo a parlare.
Le sue parole continuarono a ricorrermi nella testa per mesi. Dopodiché non pensai più alla morte.
Dedicai il successivo album Three Cheers for Sweet Revenge a Elena. Una traccia possiede il suo nome.
Ebbe un discreto successo, mi rasserenai, uscii dal brutto giro nel quale mi ero cacciato.
Con The Black Parade affermammo la nostra fama in tutto il mondo e dall’incisione diDanger Days fui davvero felice. Ora è il 2011 e ho una moglie che mi conosce senza conoscermi davvero e una fantastica bambina che mi rende felice ogni giorno.
  
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