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Autore: timscrivello    27/04/2012    1 recensioni
Un Uomo, un Libro, gli Alieni e la sua fine del mondo.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando quella signora dai vestiti strani gli disse che sarebbe morto entro un paio di giorni, non ci aveva creduto; ma una serie di eventi lo convinsero che quella stramba signora aveva ragione e, che per un motivo o per l'altro, l'indomani sarebbe morto.
Tutto iniziò dentro una libreria, ai confini della piccola cittadina di una sperduta valle toscana in cui si sarebbe fermato per qualche giorno.
Prese un libro in mano, poi ne prese un altro; infine scelse quel piccolo libro economico e tascabile e dal titolo ambiguo, con la copertina rigata dal tempo e il prezzo ancora in lire.
Si avvicinò alla cassa con discrezione, guardandosi in torno in cerca di una bella signora da ammaliare, o di un bambino con una madre sigle disperata con cui possa flirtare un po', poi si rese conto che una libreria non è certo un posto adatto per belle donne e madri single; forse erano due categorie di persone troppo stupide per pensare a leggere.
Lui era nato ad Aosta, luogo freddo e forse, un tempo, anche angusto; forse il suo carattere dipendeva anche dal luogo in cui sua madre lo aveva messo al mondo (certe volte pensava che quella fosse stata la cosa più ingiusta fattagli da sua madre).
Era un tipo affascinante e con la battuta pronta, ma era anche molto critico, cinico, freddo e un po' razzista e maschilista. Amava le donne, questo è vero, ma solo come oggetto, come passatempo, come un Cubo di Rubik con cui passi interi pomeriggi, poi ti arrabbi, e lo butti in quel cassonetto dietro l'angolo. A differenza che i cubi di Rubik, qualche geniaccio, li capisce. O come una stampante, erano come una stampante con un grande difetto.
A dir la verità stava pensando a delle tette calde e in bianco e nero, sfornate su un foglio da una bella stampante, quando quella signora gli toccò la spalla.
Lui si girò di scatto e per un attimo la vide bella, ma poi si accorse di quelle rughe sul viso, del collo pendente e dei capelli bluastri che si agitavano ignorando la forza di gravità.
Lei gli strappò il libro dalle mani e se lo portò via, prendendo qualche altro libro dallo scaffale e tenendoseli stretti.
Lui si avviò verso questa signora composta più da gobba che da ossa e si riprese il suo “Il Seme Del Crimine” senza fare alcun minimo sforzo e ritornò a prendere posto in quella fila corta ma interminabile.
Dall'altro lato della libreria un vento gelido lo prese alle spalle, e rabbrividì come quando si fa una pisciata a lungo trattenuta e si voltò indietro; c'era quella brutta signora che lo indicava e gridava:
- Tra qualche giorno morirai! Ascura Mat Dessare Muirtid Sucam!-
Nell'ultima parte della frase lui cominciò a ridere, quasi meccanicamente porse il libro al cassiere, pagò il doppio del dovuto e non se ne accorse (grazie al prezzo stampato in lire) e uscì dalla libreria ancora ridendo.
Fuori, tutti, gridavano. 
Ma non solo, correvano da una parte all'altra e l'aria era gremita di fogli di giornale volanti.  Un extraterrestre lo urtò e bofonchiò qualcosa di incomprensibile ma comprensibilmente umile.
Quando erano arrivati gli extraterrestri sulla terra? Quando lui era ancora in libreria? Quando la vecchiaccia gli aveva tolto il libro? Quando la stessa vecchiaccia gli aveva urlato contro “Sucam”?
Pensando questo, si mise ad analizzarli.
Testa grande, rotonda, che somiglia ad un gran culo. Esserini piccoli, alti un metro e quaranta, non di più e uno aveva in mano anche una copia de “Il Seme Del Crimine”.
“Bah, Schifosi dall'oltrespazio” pensò, e si diresse verso il piccolo alberghetto dove alloggiava.
Si meravigliò quando vide l'intero alberghetto distrutto tranne la rampa di scale e il pezzo di corridoio che lo portava alla sua stanza, intatta anche essa.
Non gli servì neanche farsi coraggio, entrò nella sua camera, sicuro di se.
Malgrado il tetto, che per motivi ignoti ma plausibili, mancava, nella stanza c'era un bel calduccio e la luce sembrava diffusa da una lampada sul tetto e, dopo aver letto qualche capitolo del libro, si accorse pure che riusciva a spegnere il sole pigiando l'interruttore della luce nella sua camera.
Accese una abat-jour, perchaveva paura del buio, e si addormentò.
Sognò un cubo di Rubik con le tette che lo ammaliava e che faceva dei versi eccitanti, ed eccezionalmente, era risolto.
Quando si svegliò il giorno prima della sua morte, non era ancora morto. Questo lo rincuorò tantissimo.
Ma si accorse che gli extraterrestri, l'hotel distrutto, il sole spento e i giornali che volano per la città non erano stati un brutto sogno, tutto era fottutamente vero.
Fottutamente, fottutamente, fottutamente, fottutamente.
Diciamo pure che quella parola era fottutamente bella, a lui piaceva un sacco. Nel suo lavoro, non la poteva usare ma si era accorto che quando riusciva ad usarla senza accorgersene o accorgendosene mentendo a se stesso, il contratto usciva firmato dalla stanza in cui presentava quelle fottute stampanti.
Era un rappresentante di stampati per tipografie e case editrici, e questo era fottutamente  ridicolo.
In quel preciso momento, si rese conto di aver usato la parola fottutamente troppe volte e quindi si ripromise di non usarla per il resto della giornata.
Accese il sole, usci dalla stanza e scese le scale. Sul lato della strada vide un cane che covava delle uova pelose, ma non ci fece caso, e prese la macchina, era ancora mezzo addormentato quando si accorse che aveva fatto un incidente quasi mortale.
Guardò un extraterrestre che estraeva una carcassa da un auto incidentata che somigliava molto ad un pugno chiuso e d'istinto pensò “La mia mano indica carta, ho vinto!”.
Notò solo dopo qualche secondo, o qualche minuto, che la sua mano veramente indicava carta, ma dall'altra parte della strada.
Inizio a piangere e se la situazione non fosse pervasa da schizzi di sangue, carcasse di auto e di uomini, e da extraterrestri che volevano solo fare soccorso stradale, il suo pianto sarebbe risultato comico.
I piccoli alieni venuti dall'oltrespazio lo guardarono e cominciarono ad intristirsi per lui, così uno di loro, a vista d'occhio il più alto in circolazione, lo prese e con tutta la forza che aveva lo tirò fuori da quella macchina ormai in fiamme.
In quel preciso momento, dopo una serie di eventi, si convinse che quella stramba signora aveva ragione e, che per un motivo o per l'altro, l'indomani sarebbe morto.
Aveva la strana sensazione di non dover morire quel giorno, ma solo l'indomani; anche se il suo braccio monco perdeva sangue, anche se un extraterrestre che di certo non aveva studiato chirurgia brandiva un coltello da cucina sopra il suo stomaco. Pensò che per non morire doveva pensare, senza pensare stesse già pensando, così si mise a pensare ad altro.
Pensò al suo primo giorno di lavoro, dove gli avevano presentato la MACUS, la grande stampante, quasi un plotter. Come mettere a confronto una prostituta con una Escort, insomma.
Quella grande stampante era bellissima, se ne innamorò subito e per qualche secondo pensò pure di passare tutta la vita con lei. Quando scoprì quel grande, grande difetto. Come ogni donna, la MACUS aveva dei problemi, ma il più brutto e infausto difetto, quello che rovina una relazione e non ti fa dormire la notte, lo scoprì un giorno, per caso, quando per la prima volta lui se ne servì.
Prima l'aveva solo venduta, come fa un protettore con le sue “ragazze”, poi venderla non gli bastò più e doveva averla per se, doveva usarla. Così scrisse parole eccitanti e un po' disturbanti nel blocco note del computer, così da poterle stamparle e godersi il frutto del loro amore. Si pentì di averlo fatto. Si rese conto che conoscere a fondo qualcuno (o qualcosa) potrebbe condurti a sapere qualcosa (o di qualcuno, ma in questo caso non di qualcuno) che avresti preferito ignorare.
La sua amata MACUS (amava quell'oggetto come se fosse una donna) era la migliore stampante in circolazione, le sue parole senza sbavature erano da premio, ma purtroppo non riusciva mai a  imprimere su un dannato foglio l'ultima parola di un qualsiasi documento, solo il punto successivo.
Quando quella volta non stampò il culmine del suo amplesso, ma solo il punto finale, si sentì tradito. Stampò e ristampò tutto quello che gli capitava sotto mano, ma l'ultima parola non veniva mai fuori, gli veniva negata.
Continuò a venderla senza voglia, cercava di venderla per non rivederla, ma lei tornava sempre, nuova di zecca, mai migliorata.
Adesso piangeva sia per la sua amata MACUS, sia per il dolore. Il piccolo bastardo dall'oltrespazio gli stava staccando le budella ma lui era ancora vivo.
In fondo, il razzismo interstellare era cosa buona e giusta in quel momento.
Gli staccarono il cuore, poi il fegato e i polmoni, e lui si sentiva incredibilmente leggero, vuoto ma ancora pieno di sé.
Sarebbe morto, il giorno dopo. Ne era ormai convinto.
Quello che non capiva era che doveva essere già morto, quando gli extraterrestri avevano cominciato a rimettere tutti gli organi viscidi e melmosi all'interno del suo corpo vuoto.
Si immaginò la MACUS avvolta nel cellofan, che fa il suo solito gioco “vedo, non vedo” e si eccitò. Dopotutto, la amava ancora.
Quando gli extraterrestri bofonchiarono qualcosa in alfabeto morse, lui se ne andò, con piedi non suoi e la mano ancora sul marciapiede che indicava carta.
Carta.
Se non ci fosse stata Carta non si sarebbe accorto del tradimento, odiava la carta. La odiava.
L'alberghetto era a cinque minuti di strada da dove si trovasse lui in quel momento ma gli risultò molto difficile camminare, visto che i suoi piedi (non suoi ma adesso suoi) risultavano differenti l'uno dall'altro.
Passò davanti ad un negozio di specchi e si ammirò.
Si accorse solo in quel momento di essere nudo, e si accorse che dall'ombelico  usciva qualche organo.
Passò un dito sopra quella cosa molliccia e lentamente se lo portò in bocca, assaporando il suo sangue misto a ketchup e a polvere d'asfalto.
Si accorse di avere fame, una fame terribile che se ne avesse avuto l'occasione, si sarebbe mangiato le sue stesse viscere.
Deviò percorso, alla ricerca di un fast food o di un ristorantino cinese in cui mangiare un boccone e andarsene, ma trovò soltanto una salumeria e malgrado preferisse mangiare qualcosa di caldo, entrò.
Visto che nessuno era al bancone né alla cassa (o almeno nessuno di vivo, solo corpi quasi in decomposizione) si, servì da solo, si imbottì due pani serali (malgrado fosse giorno) e cominciò a mangiarli.
Ai primi morsi la fame non gli passò, anzi gli sembrò ancora più forte e lancinante; poi, man mano che il suo stomaco (che per adesso si trovava all'altezza del femore) si riempì, si sentì appagato, e nudo.
Doveva trovare dei vestiti, ma non aveva voglia di cercare ne tempo da perdere, visto che sarebbe morto presto, quindi prese quelli del salumiere, lo ringraziò (malgrado fosse morto) e se uscì dalla salumeria.
L'aria era gialla, come quella di un film di Wes Anderson, tutto in rallenty e agrodolce, e simmetrico.
Purtroppo nello scenario c'era anche lo zampino macabro di Dario Argento, con morti e arti mozzati sull'asfalto caldo e fumante.
A lui non importava.
“Perché sono così tranquillo?” si domandò, cercando una risposta.
In effetti, non era per niente agitato. Camminava adagio adagio,  quasi cercando di non far rumore che in fondo non avrebbe disturbato nessuno.
Era tranquillo, molto probabilmente, per la convinzione che sarebbe morto l'indomani, quindi non poteva ribellarsi al destino, ma sapeva pure che non sarebbe morto oggi, quindi era tranquillo.
Tranquillo.
Tornò all'albergo e salì nella sua stanza, spense il sole, ma lasciò accesa la lampada da comò per continuare a leggere “Il Seme del Crimine”.
Si appassionò alla storia, chiara metafora della vita di Gesù Cristo ai tempi dei cellulari e dei palmari. Andò avanti a leggere, forse lesse per sette, otto ore. Lo lesse tutto, o quasi.
Mancava l'ultima parola. Però il punto finale c'era.
Iniziò ad impazzire.
A farlo impazzire non era stato quella strana vecchia che gli gridò contro che doveva morire, ne tanto meno lo scenario post apocalittico che gli si presentò davanti. 
Non erano stati gli alieni, né l'avere il controllo del sole. Non erano state le uova del cane, né l'incidente quasi mortale, neanche gli alieni che lo aprirono in due, neanche la sua visione della mano in cui era attaccato ancora il rolex, sul marciapiede. Non impazzì nel vedersi nudo in giro, davanti a tutti, né fu la fame, e neanche togliere i vestiti ad un uomo morto. 
Non lo fece impazzire il contenuto del libro, ma quella piccola parola mancante.
Quella certezza che mancava, quella che faceva scappare la gente per strada, che causava incidenti, che causava ubriachezza, morte e distruzione. Adesso era come gli altri, adesso era               .
  
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