I found home
Parcheggiai la macchina nel
vialetto, ma non scesi. C’erano solo due automobili davanti
alla mia, e questa
era una pessima pessima notizia. Significava solo che Coop non era
ancora
rientrato da lavoro, mentre mio padre sì, ed era dentro.
Avrei dovuto
affrontarlo da solo, senza il mio unico sostegno. Guardai verso la
casa, che a
volte non sapevo nemmeno definire mia, e notai una delle tende
scostarsi e il
volto di mia madre fare capolino. Beccato. Non potevo più
starmene lì a perdere
tempo. Presi la borsa e sospirando scesi dalla macchina. Quando entrai
sentii
la voce di mio padre provenire dal salotto che raccontava delle sue
giornate al
lavoro, anche se in realtà erano solo critiche e giudizi sui
suoi
collaboratori, perché nessuno era abile
e
capace come lui. Presi un respiro profondo prima di entrare
nella stanza
per salutare i miei genitori. Quella era la tortura
del Venerdì. Mentre tutti attendevano il fine
settimana con trepidazione,
io odiavo quel giorno in cui mio padre faceva ritorno a casa, mia madre
diventava la schiavetta dallo sguardo basso e Coop non riusciva mai a
tornare
presto. Ma come ogni settimana sarei arrivato a fine giornata e avrei
potuto
finalmente chiamarlo e… mi scossi velocemente da quei
pensieri. Non era
decisamente il momento adatto. Mi stampai in viso il più
sincero sorriso che
riuscii a tirar fuori e aprii le porte del soggiorno. Mio padre
stravaccato sulla
poltrona con il giornale in una mano e la sigaretta
nell’altra si voltò di
scatto verso di me.
“Oh, Blaine, finalmente ci onori della tua presenza! Ti
sembra il caso di farci
aspettare?” mi rimproverò con quel suo tono
saccente che tanto mi irritava.
Abbassai la testa e mi scusai a bassa voce. La sottomissione era la mia
unica
difesa in quelle situazioni, anche se me ne pentivo ogni volta.
“E non ci saluti? Tua madre era in pensiero e tu nemmeno la
saluti?” Sbuffò e
prese un tiro dalla sigaretta. Evitai il suo sguardo e mi avvicinai a
mia
madre. Era appollaiata sul poggiolo del divano in uno stato di
tensione, come
se si aspettasse una sfuriata da un momento all’altro. Mi
avvicinai a lei e le
posai un bacio su una guancia.
“Ciao mamma, scusa per averti fatta preoccupare.”
Non riuscii a togliere la
freddezza e la formalità dalla mia voce, ma lei
appoggiò una mano sopra la mia
e mi sorrise lievemente. Abbassai ancora una volta la testa e mi
allontanai.
Volevo andare in camera mia, chiudere la porta a chiave e prendere il
telefono
, ma sapevo che non era possibile. Mi fermai accanto al divano
incrociando le
braccia al petto e guardai mio padre ad alcuni metri di distanza da me.
Spazio di sicurezza, me lo aveva
insegnato Coop, mi permetteva un certo spazio di manovra per ogni
eventuale
situazione.
“Allora, figliolo…” la sua voce
trasudava sarcasmo, e non annunciava nulla di
buono. Sentii un brivido salirmi per la schiena, consapevole di cosa
stava per
accadere. Mi avrebbe fatto delle domande, avrebbe preteso delle
risposte e non
le avrebbe gradite. Mi mantenni impassibile in attesa.
“Come va a scuola? Il McKinley è
all’altezza della Dalton?”
Rimasi in silenzio cercando una risposta garbata.
“I miei voti sono sempre eccellenti.” Non riuscii a
celare una nota di arroganza
e l’espressione di mio padre si indurì. Il bisogno
di andarmene si faceva più
forte ma, come con gli animali, sapevo che se mi fossi mosso mi avrebbe
aggredito. Un
sorriso ironico comparve
sulle sue labbra.
“Certo, quando ripeti un anno è facile essere
bravi.”
Abbassai gli occhi. Aveva
toccato un tasto ancora troppo sensibile per me, così cercai
di lasciar cadere
il discorso. E ci riuscii, anche se non in meglio.
“E come va con quel…” mosse la mano con
la sigaretta, che lentamente si era
consumata, cercando di ricordare il nome. “Kart?”
“Kurt.” Lo corressi prima di riuscire a
trattenermi. Ma lui non replicò
aspettando una risposta e questa ero certo non gli sarebbe piaciuta.
“Non esco più con lui. Da un mese,
ormai.” Non aggiunsi altro, anche se sapevo
già come avrebbe replicato. Riuscivo a sentire in testa le
sue parole acide e
saccenti.
“Finalmente il nostro Blaine ha deciso di tornare dalla parte
dei sani!” disse
più rivolto a mia madre che a me. Mi voltai verso di lei e
la vidi sorridere al
marito, per poi riportare lo sguardo su di me. Dalla sua espressione
capii che
non ero riuscito a celare le mie emozioni. Quella frase che non sentivo
da mesi
mi aveva colpito con forza. I suoi discorsi di sani e malati, di come
aveva
cercato di curarmi in tutti i modi. Ci ero abituato, ma facevano sempre
male.
Ogni volta era un colpo al petto che mi spingeva a fuggire. Le mie
gambe
volevano portarmi fuori da quella stanza, da quella casa, lontano da
lui, ma la
mia bocca fu più veloce.
“No, papà. Ora sto con Sebastian.”
Riuscii a leggere ogni espressione del suo
volto: sorpresa, irritazione, disgusto, rabbia. Non riuscii ad
arretrare
abbastanza in fretta e mi prese per un braccio attirandomi a
sé con forza. Mia
madre soffocò a stento un urlo coprendosi la bocca con le
mani, ma nessuno di
noi due ci fece caso. Fissai gli occhi in quelli di mio padre,
così simili ai
miei eppure così diversi.
“Come osi…”
Soffiò.
Sapevo che non si riferiva a Sebastian, ormai aveva capito che non
sarei
cambiato e non sarebbe riuscito mai a guarirmi.
Ma alludeva al mio tono, all’arroganza con cui gli avevo
risposto. A lui
bastava questo, una semplice risposta data con un’inflessione
sbagliata poteva
scatenare la sua ira. E in quel momento ero pronto a tutto. Sapevo che
non mi
avrebbe picchiato, non lo faceva mai davanti a mia madre, ma le sue
armi non
erano solo le mani.
“Vattene in camera tua.” Sibilò il suo
ordine a pochi centimetri dalla mia
faccia. Mi liberai dalla sua presa e arretrai di un paio di passi.
Raccolsi la
borsa di scuola che non mi ricordavo di aver lasciato cadere e mi
allontanai
ancora. Guardai mia madre, ma fissava il pavimento con sempre una mano
davanti
alla bocca. Mio padre era in piedi, accanto a lei che stringeva il
giornale nel
pugno. Non dissi nulla e mi girai per uscire dal salotto. Ma invece di
salire
le scale alla mia destra, voltai a sinistra, presi le chiavi della
macchina e
uscii di casa. Raggiunsi l’auto a passo spedito ed accesi il
motore. Solo
quando fui in strada mi voltai verso quella casa che ormai non chiamavo
più
mia. Mio padre sull’uscio mi fissava con odio e sapevo che se
mai fossi tornato
avrei pagato caro per quella mia azione. Un movimento alla finestra mi
fece
capire che mia madre mi guardava da lì. Mi voltai verso la
strada e accelerai.
Non feci caso a dove stessi andando, guidando automaticamente, ma dopo
pochi
minuti mi fermai davanti ad un’altra casa così
simile eppure così diversa dalla
mia. Lasciai la macchina sul marciapiede senza pormi altri problemi e
scesi.
Ero solo a metà vialetto quando la porta si aprì
e lo vidi, nella stessa
posizione in cui avevo lasciato mio padre, ora stava lui, ma non era
rabbia
quella che gli segnava il volto, era felicità. Quel sorriso
che ogni volta mi
faceva perdere un battito al cuore. Lo raggiunsi in pochi passi e mi
lasciai
stringere. Perché solo tra le braccia di Sebastian potevo
dire di sentirmi a
casa mia.