Note: Questa fanfiction partecipa al Reverse Mini Bang del Big Bang Italia, come gift per il fanmix "Faded" (cover / download) di dark_loveless.
Nove
giorni di fumo
Giorno
1
Ricordo
la prima volta che l’ho incontrata: era in
corridoio, i suoi passi leggeri riecheggiavano lungo le pareti spoglie,
mentre
l’orlo del camice bianco risaltava nel buio della penombra.
Teneva una cartella
clinica stretta al petto, le sue dita ne martoriavano la costa
conficcandoci le
unghie ben curate; la sua espressione neutra era turbata da una ruga
sottile
che le solcava la fronte e dalle labbra, leggermente stirate in un
ghigno
trattenuto. Quando la guardai negli occhi – e lei reggeva
quello sguardo senza
alcuno sforzo – le sue iridi bruciavano. Era evidente che
qualcosa in lei non
andava, ma perché preoccuparmene? Non c’era sempre
qualcosa di sbagliato in
ognuno di noi? Ma per quanto palese, Spirit parve non accorgersene
minimamente:
le corse incontro a braccia aperte, un enorme sorriso stampato sulle
labbra.
Dovetti trattenermi dall’urlargli di starle lontano, le
parole mi morirono in
gola: ha forse senso bloccare un topolino indifeso che corre, ignaro,
verso le
spire del predatore? Sì, se si riteneva di poterlo salvare.
No, se il rischio
era di trovarsi a propria volta in quella stretta mortale.
Credo
che in realtà non sia successo nulla in quel
momento, il vedere il mio amico abbracciare quella creatura senza
riportare
alcun danno non suscitò in me alcuno stupore: la mia
presenza rendeva quel
momento poco adatto per portare a segno qualsiasi attacco. Il serpente
non
attacca se sa che il falco non aspetta altro che di veder spuntare la
sua testa
triangolare. Tuttavia non capivo perché Spirit non si
rendesse conto di cosa stava
stringendo tra le braccia, di
cosa ci fosse dietro quel sorriso gentile e quegli occhi furbi e miti
allo
stesso tempo. Ma non era solo il mio compagno ad ignorare quel
terribile
pericolo: non c’era anima viva, almeno alla Shibusen, che
dubitasse in qualche
maniera di quella dolce infermiera. Probabilmente chi ne aveva dubitato
non era
più in grado di parlarne.
A
ripensarci bene, da quel primo incontro cominciai
a vederla ovunque: era come se seminasse delle tracce lungo il suo
cammino ed
io le seguissi inconsciamente, ispirato da non so quale sesto senso. Ma
forse
era tutto un piano architettato da lei: l’aveva fiutata, la
follia latente in
me, e aveva capito che ero il pezzo mancante della scacchiera, quello
che le
serviva per vincere la partita. Peccato che non me ne fossi reso conto
io
stesso.
Giorno
2
Oggi
la testa va peggio del solito, il Kishin è più
forte che mai e non c’è modo in cui io possa
sfuggirgli; Shinigami-sama mi ha
messo alle calcagna Spirit, teme che io possa perdere completamente il
controllo. In un altro momento, probabilmente sarei stato felice di
avere
compagnia, ma non oggi. Perché oggi ho deciso di andare a
trovarla.
Qualche
anima pia si dev’essere ricordata di quanto
fosse gentile e premurosa quella bella infermiera che si era presa cura
di così
tanti studenti, sempre con quel sorriso sulle labbra; un ricordo
così forte da
far dimenticare che solo pochi giorni fa si è rivelata una
strega priva di
scrupoli e decisa a distruggere la Shibusen. Poco importa ormai, resta
il fatto
che ora c’è una piccola croce in legno,
nell’angolo sinistro del cimitero, con
sopra intagliato il suo nome. Né data né titolo
né scritte commemorative, a
dire il vero non c’è neanche il corpo –
come potrebbe esserci, se è una strega?
– ma solo quel legno spoglio conficcato nella terra.
Spirit
era titubante ad accompagnarmi, non è mai
stato a suo agio nel visitare un luogo così tetro. Credo che
gli porti alla
mente brutti ricordi, ma non ho mai voluto approfondire: a volte sa
essere così
serio che mi spaventa, come se non fosse più lui. Mi ha
accompagnato fino al
cancello, dicendo che preferiva lasciarmi l’adeguata privacy.
Aveva un’aria
colpevole stampata in viso, quando gli ho voltato le spalle e mi sono
avviato:
forse si sente a disagio nel ricordare che quella donna è
stato proprio lui ad
ucciderla. Ma forse dimentica che ero io a brandire la sua lama.
Non
so se fosse l’inquietudine che provo a ripensare
a lei o qualche fattore esterno e a me sconosciuto, ma man mano che mi
avvicinavo a quella ridicola croce l’influenza del Kishin
aumentava
vertiginosamente. La testa mi girava, voci sussurravano al mio orecchio
frasi
dolci, incomprensibili; barcollai, ma Spirit non era lì ad
aiutarmi. Riuscii a
raggiungere quel maledetto angolo – mi era sembrato distante
miglia e miglia –
ma stare dritto in piedi, senza un appoggio, si rivelava sempre
più complicato.
Mi appoggiai con la schiena al muro, quella croce mi fissava immobile,
mi
sbeffeggiava: anche da morta lei riusciva a ridurmi in questo stato
pietoso.
Le
voci nella mia testa divenivano più forti, più
suadenti, e il loro tono assomigliava sempre di più a quello
profondo e sicuro
della donna. Non riuscivo comunque a capire quello che mi diceva, ma ad
ogni
parola la testa mi faceva più male. Non so per quanto tempo
rimasi lì immobile,
ma non osai muovermi finché non fui sicuro di poter
camminare senza cadere.
Quando
tornai da Spirit, il mio volto era
cadaverico, come se fossi io a dover stare sotto quella croce.
Giorno
3
Terzo
giorno. Mi chiedo perché io debba continuare a
scrivere con questo mal di testa assurdo, ma è vero che,
dopo che ho confessato
ad un pezzo di carta quel che mi succede, mi sento più
leggero. Probabilmente è
solo una suggestione e questa volta non funzionerà. Non
ricordo di essere mai
stato così male; anche l’esperienza di ieri, a
confronto, sembra un’inezia.
Questa volta non c’è Spirit accanto a me: la
Shibusen è troppo in alto mare per
poter pensare ad un povero derelitto come il sottoscritto.
Fino
a poche settimane fa sarei stato anch’io in
prima fila, accanto ai miei compagni e ai miei studenti: ora invece
sono
confinato in casa, un vero e proprio malato senza cura. Riesco ancora
ad
impugnare la penna, anche se vedo macchie di colore ovunque, sulla
carta, sulle
pareti, sulle mie mani; il silenzio è assordante, ma le voci
che presto
arriveranno – perché le sento, so che sono qui
vicino – mi fanno ancora più
paura.
Sento
un tuono, in lontananza, finalmente un rumore
che squarci il silenzio. Spero che la pioggia cada presto e che sia
violenta,
che sbatta con fragore sulle finestre, che riempia questo vuoto. Anche
la prima
volta che sentii le voci pioveva forte. E’ uno dei primi
ricordi che ho, il
cielo nero fuori dalla mia finestra, i sussurri al mio orecchio di una
bocca
invisibile. Mia madre, quando piangeva, lo ripeteva spesso: io ero nato
con
problemi, ma non era colpa mia. Ma lei avrebbe
voluto qualcosa di diverso, sia per me che per lei. Non
posso biasimarla,
ma non sono sicuro che avrei voluto una vita diversa per me: essere
come tutti
gli altri è così noioso, le regole, la
società, è tutto terribilmente
opprimente.
Mi
hanno costretto ad ingoiare, a bloccare quello
che sentivo dentro di me; mi sono adattato bene, fino a poco tempo fa
sembravo
quasi normale. Spirit spesso mi guarda come se dovessi impazzire
ancora. Oh,
lui ricorda così bene i tempi in cui non ero addomesticato.
Ha paura, una paura
folle che io torni come allora. Poveraccio, anche lui è come
gli altri. Mi
spiace per lui. Ora finalmente piove e sembra che la finestra debba
crollare da
un momento all’altro. Forse non è normale che io
ne sia così entusiasta.
Giorno
4
Piove
ancora. C’è una sorta di enorme stagno fuori
dalla mia porta d’ingresso, lo vedo dalla finestra; forse
scoraggerà
gl’intrepidi visitatori a bussare alla mia porta. Non ho
notizie dalla
Shibusen, da Marie, da Spirit. Fuori è scuro, ma non capisco
se sia notte o
giorno. L’orologio si è rotto.
Oggi
l’ho sentita più chiaramente del solito;
chiamava il mio nome, ma non era disperata né chiedeva
pietà. Ho sempre pensato
che mi avrebbe chiesto di risparmiarla, perché
così avrebbe fatto la dolce
infermiera della scuola; forse, invece, lei avrebbe voluto mordermi
fino a
farmi sanguinare, con le sue ultime forze, nella speranza di portarmi
via con
sé nel buio. Forse l’ha fatto sul serio. Se mi
passo una mano sulla pelle della
spalla sento i segni dei suoi denti: mi ha fatto male, ma non
è riuscita nel
suo intento.
Mi
fa ridere, pensare come sia stato rendersi conto
di aver fallito la propria missione, proprio quando bastava tendere
ancora un
po’ la mano, stringere un po’ di più i
denti, per farcela. Vorrei averla
davanti, solo per riderle in faccia, farle vedere chiaro e tondo che io
sono
vivo, mentre lei è sottoterra, sconfitta, calpestata,
più morta che mai. Oh, se
l’è meritato! Se sapesse che mi ha
fatto… non posso serrare le palpebre senza
che i suoi occhi, gialli, terribili, appaiano di fronte a me. Avrei
dovuto
colpirla più forte, farle sanguinare il volto, distorcere i
suoi lineamenti in
modo che perdesse il suo dannato ghigno sbilenco e quello sguardo da
predatrice.
Più
tasto il mio corpo e più cicatrici scopro. Sono
tutte opera sua, battaglia dopo battaglia, incontro dopo incontro,
morso dopo
morso: sono il suo trofeo di guerra. Non mi va, non mi va affatto! Ho
vinto io,
sono sopravvissuto io, perché ogni volta che sfioro un
taglio penso a lei?
Avrei dovuto lasciarla in vita, così sarebbe lei, ora, a
tastarsi le ferite e
pensare a me. La odio.
Fuori
continua a piovere.
Giorno
5
Ho
rotto lo specchio questa mattina e ora la stanza
è ricoperta di schegge e frammenti. Il Kishin…
non so se sia una scusa o meno,
ma non capisco più cosa sto facendo. Forse ho guardato
troppo a lungo in quello
specchio, ma lui rideva e ricambiava il mio sguardo con aria di sfida,
tre
occhi e la sicurezza del vincitore. L’ho spaccato colpendolo
una, due, tre
volte, sempre più forte, ma lui non smetteva di ridere.
Anche ora che la mia
mano sanguina copiosamente da ogni scheggia proviene la sua risata e mi
vien
voglia di unirmi a lei e lasciarmi andare, fino a che la gola non mi
farà male.
Un
frammento riflette la finestra, il cielo plumbeo
fuori, i rami secchi dell’albero in giardino sembrano arti e
mani. C’è un sole
pallido là fuori, eppure sento ancora i tuoni alla mia
porta, cadenzati, sempre
più forti. Qualcuno ha superato il mio stagno, a quanto
pare. Speravo in ancora
un po’ di tranquillità, ma dovrò
sopportare. Non ho intenzione di alzarmi, sto
bene qui, assieme ai miei frammenti. Ho voglia di ridere ancora.
Dovrà
ripassare un altro giorno, chiunque sia il visitatore.
Mi
blocco un attimo a riflettere: forse non è una
persona qualunque, dietro alla porta. Forse è lei, che
è venuta finalmente a
controllare se sono vivo o morto, felice o triste, vittorioso o
sconfitto. Avrò
la possibilità di dimostrarle chi è che ha vinto,
se le apro. Capirà che le sue
cicatrici non significano niente per me. Al diavolo, devo aprirle.
No,
non era lei. Ci ho sperato anche troppo, ad
essere sinceri, e invece è solo Spirit, il solito petulante
Spirit. Non gli ho
permesso di entrare in bagno, ma temo che le risate dello specchio
fossero
udibili persino in salotto. Ma lui è troppo normale per
sentirle. Mi ha fatto
la predica, come al solito del resto: stare da solo mi fa male, dice.
Shinigami-sama vuole che qualcuno resti sempre al mio fianco. Idiozie.
Io non
sono mai solo, non vede quanto mi diverto? E se lei verrà a
trovarmi non posso
certo avere terzi incomodi tra i piedi.
L’ho
mandato via con le buone, alla fine. Devo essergli
sembrato un po’ strano, ma ho fatto attenzione a nascondere
la mano nella
tasca, dandogli il fianco: ora ho il camice sporco di rosso, ma importa
ben
poco. Lui se n’è andato. Credo tornerò
a ridere ancora un po’.
Giorno
6
Lo
sapevo, l’ho sempre saputo ed infatti eccola qui.
Una parte di me sperava che non avrei mai più rivisto il suo
sorriso, ma
l’altra, oh, l’altra non vedeva l’ora di
ammirarlo ancora. E’ come quella
notte, libera da quel camice così bianco e candido da
stonare con il viso da
predatore. E’ in nero, il cappuccio tirato giù, i
capelli contrastano
terribilmente con il buio della stanza. E’ a piedi nudi, ma
le schegge non la
feriscono – anche se sono dovunque, in bagno, in sala, nel
corridoio.
Mi
guarda famelica, si aggira per la stanza come se
fosse sua, tra mobili che non ha mai visto, ma che sembra li conosca da
bambina
– Dio, odio quel volto così divertito, quelle mani
che sfiorano tutto senza
sollevare il velo di polvere. Mi gira attorno, continuiamo a fissarci,
un
sorriso stampato sulle labbra, su cui passa di tanto in tanto la
lingua. E’ il
nostro gioco – mi ripeto – è sempre
stato così: lei che mi studia, le che mi
osserva da distante, controlla le mie mosse, pianifica
l’attacco perché sarà
quello che mi finirà. Il serpente non può
permettersi di sbagliare il colpo,
quando la preda è così pericolosa.
E’
il nostro gioco, è vero, ma vorrei che si facesse
più vicina, che rompesse quella distanza incolmabile. Di
cosa ha paura? Sono
talmente innocuo, non mi reggo in piedi, ho ancora le schegge
conficcate nella
pelle. Perché non viene più vicina?! Vorrei
chiudere gli occhi, mostrarle
quanto sono indifeso, persuaderla a sfiorarmi come sfiora adesso la
superficie
del tavolo, ma non riesco a distogliere lo sguardo da lei.
Poi,
com’è venuta, se ne va. Sollevo una mano per
trattenerla, vorrei gridarle di fermarsi, ma il mio braccio
è troppo lento e la
mia voce muore in gola. So che tornerà, ma non so quando e
questo mi uccide.
Poteva restare e invece niente, scomparsa, vuole farmi impazzire? Mi
alzo a
fatica e colpisco col pugno la parete accanto. Maledetta.
Giorno
7
Non
c’è, non è da nessuna parte.
L’ho cercata
ovunque, ma non è servito a niente. Però ho
provato a schiarirmi la mente: ho
medicato la mia mano, con una certa difficoltà. Ho ripulito
la casa dalle
schegge, ho sistemato il disordine. Ora è tutto perfetto,
per quando tornerà.
Perché lei tornerà, vero?
Ho
fatto bene a riordinare, Spirit e Marie sono
tornati. Per salutarmi, hanno detto loro. Per controllarmi, dico io.
Hanno
paura, lo so, ma non c’è niente di cui
preoccuparsi; non uscirò da questa casa,
non andrò in giro per le strade colpendo alla cieca,
completamente in balia del
Kishin, per il semplice fatto che non posso andarmene. Se lei passasse
proprio
mentre sono via, come farei? Ma ho recitato così bene e quei
due sembravano
così sollevati nel vedere che mi comportavo così
bene. Sono un bravo ragazzo,
eh?
Fino
a quando non sono rimasti qua non vedevo l’ora
che se ne andassero, ma adesso, adesso il tempo non sembra scorrere
mai. Quando,
quando, quando?! Avrebbe dovuto restare, non avrebbe dovuto farmi
questo. Se
Spirit fosse venuto da solo, sarei stato tentato dal dirgli che
l’avevo vista.
Posso immaginare la sua faccia attonita e lui che scuote la testa e,
con un fil
di voce, mi dice che è morta. Lo so, lo so che non ha mai
capito niente di lei,
né quando la stringeva tra le braccia, convinto che fosse
una brava infermiera,
né ora che la ritiene un mostro. Se non fosse
così banale e scontato capirebbe
anche lui che i mostri non muoiono mai: restano nella mente e aspettano
il
momento più opportuno per tornare. Ma quando?
Giorno
8
Ho
dormito come se fossi stato sveglio per giorni
interi senza chiudere occhio, il che forse non è
così distante dalla realtà. Al
mio risveglio lei era lì, sdraiata accanto a me, una mano
sul mio petto,
proprio sopra il cuore, e la sua bocca sulla mia giugulare. Ha
aspettato bene,
ha atteso che io crollassi per sferrare il suo attacco. Mi sono illuso
di
essere io ad attenderla al varco e invece era lei.
Ha
soffiato il mio nome nel mio orecchio, un sibilo
che mi ha fatto gelare il sangue. Avrei voluto muovermi, non so se per
stringerla a me o gettarla lontano, ma i miei muscoli erano
paralizzati, la mia
mente totalmente bloccata. Lei era lì e mi sfiorava, proprio
come avevo
desiderato, padrona dello spazio, del tempo e del mio corpo.
<
Ti sono mancata, Stein?> La sua voce era
puro veleno, come le sue labbra che calarono sulle mie, pronta a
divorare la
tanto agognata preda. Cercai di afferrarla, di stringerla, ma era come
se mi
sgusciasse dalle mani, sinuosa e rapida. Non ero io ad avere il
controllo della
situazione, lo sapevo: ero troppo debole, troppo esposto per riuscirci.
Lei
spadroneggiava, soddisfatta e tronfia. Sfiorava le mie cicatrici con la
punta
della lingua e dove toccava il mio corpo bruciava, come se quei tagli
si
fossero riaperti e qualcuno ci avesse sparso sale.
Una
mano salì ad afferrarmi i capelli, piegandomi la
testa, mentre lei lasciava morsi e lividi lungo le braccia. Era rimasta
in
attesa per tanto, troppo tempo: molto più di quanto non
avessi aspettato io.
Ora era suo diritto cibarsi.
Giorno
9
Credevo
fossero i gatti a divertirsi nel giocare con
la preda, ma a quanto pare è un fattore comune a molti
predatori. Forse lei è
più umana o, semplicemente, sa che posso esserle utile da
vivo, mentre da morto
sarei solo un ingombro. E poi, da morto, non potrei soffrire guardando
le mie
ferite e pensando a lei. In realtà c’è
sempre un piano, in ogni cosa che fa:
ogni mossa è studiata, ogni pedina ha il suo posto sulla
scacchiera e lei sa
come muoverla nel modo più utile.
Sono
in piedi, per quanto possibile, perché la testa
è tornata a girare, fuori continua a piovere, il vento
sferza il vetro delle
finestre e ulula e grida. Lei è qui davanti a me,
quell’espressione di finta
dolcezza stampata in volto. Una volta mi avrebbe irritato
tremendamente, mi
avrebbe spinto a colpirla fino a farla finalmente sparire dalla faccia
della
terra; ora niente. La osservo e tutto ciò che voglio e
risentire le sue dita
sulla mia pelle; odio il potere che esercita su di me, ma sento di non
poterne
più fare a meno.
Lei
sa quello che voglio, so che lo sa: è evidente
nel suo sguardo divertito e nel modo in cui mi si avvicina, facendo
attenzione
ad essere abbastanza vicino per mettermi a disagio, ma a sufficiente
distanza
perché io non possa toccarla. Le risate affollano la mia
mente e mi rendo conto
che sto sorridendo anch’io; prima che io possa fare qualcosa,
non c’è modo che
io riesca a tornare indietro.
<
Vieni con me.>
E,
invece di risponderle, mi limito a seguirla.