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Autore: hikarufly    02/05/2012    4 recensioni
Post "The Reichenbach Falls", Sherlock Holmes è scomparso e il dottor John Watson ha dovuto voltare pagina... eppure ci sono ancora misteri da risolvere e un nuovo capitolo della propria storia da affrontare: un incontro casuale diventa uno dei momenti più importanti della sua vita.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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John Watson aprì gli occhi lentamente, come se faticasse a tirare su le palpebre. Sentì subito un odore quasi fastidioso di medicinali e prodotti per pulire, sormontato però da un profumo familiare, e un peso appoggiato delicatamente sul torace. Quando riuscì a mettere a fuoco meglio la stanza, era dove aveva intuito essere: un ospedale, probabilmente il St. Barts, uno dei reparti da poco ristrutturati. Aveva la testa pesante e si sentiva quasi troppo leggero: dei tubicini gli spuntavano dal braccio sinistro e salivano fino a delle sacche ospedaliere, e arrivò alla conclusione che fosse imbottito di antibiotici e antidolorifici. Si rese conto di avere una fasciatura spessa e stretta intorno alla spalla sinistra, e soltanto un camice addosso. Il momento di imbarazzo iniziale sparì quando riconobbe Mary, che lo aveva abbracciato dal petto in giù, sollevata e felicissima di averlo visto svegliarsi. Alzò la testa senza lasciarlo andare e il sorriso che si generò sul viso di lui le fece dimenticare la notte insonne e la preoccupazione avuta fino a quel momento. John le accarezzò i capelli, scoprendo di avere il braccio destro libero da bende o aghi. Per qualche istante, nel silenzio della stanza, si disse che forse dovevano parlare dell'ultima volta in cui si erano visti faccia a faccia: lui doveva scusarsi per averla lasciata lì, sola, e lei doveva scusarsi di nuovo per avergli mentito. Ma subito si disse che quella fitta di terrore allo stomaco che aveva percepito nella casa vuota valeva più di qualsiasi pensiero: l'aveva perdonata e non se ne era neanche accorto. Nel momento in cui aveva rischiato di perderla, tutto il resto aveva perso importanza. Aggrottò la fronte, però, e le parole uscirono automaticamente.

«Dov'è Sherlock?»

Mary si alzò e rimase seduta accanto a lui, con un sorrisetto.

«Se non lo conoscessi, penso mi accuseresti di essermi inventata tutto» iniziò a spiegare lei.

Sherlock Holmes si era quasi parato di fronte all'amico quando Sebastian Moran li aveva messi sotto tiro. Erano caduti in maniera poco aggraziata, perciò non era stato abbastanza rapido. La pallottola aveva perforato la sua spalla destra e si era incastonata in quella sinistra di John, essendo l'una davanti all'altra. Con il dolore che gli trapassava la pelle e la carne, l'investigatore privato non si era fatto fermare: doveva portare a termine il suo lavoro. John Watson, con il misto di preoccupazione per Mary, paura e dolore, era svenuto, soprattutto data la colluttazione avuta poco prima con Moran, che l'aveva lasciato un po' stordito.

Sherlock si alzò, e con tutto il suo peso si lanciò contro il loro aggressore e lo atterrò, disarmandolo e tenendolo sotto tiro mentre chiamava la polizia e un'ambulanza. Lanciava delle occhiate preoccupate a John, ma era anche conscio che non poteva fare altro che cercare un aiuto esterno: le sue doti di osservatore lo assicuravano del fatto che fosse solo svenuto.

Una piccola squadra entrò nella stanza della casa vuota, e Sherlock rimase molto deluso di non vedere Lestrade nel gruppetto – non l'avrebbe mai ammesso, naturalmente – ma la omicidi poco aveva a che fare con un'aggressione, a rigor di logica. Gli agenti lo fecero allontanare da Moran, senza ringraziare per essere stati facilitati nell'ammanettarlo e portarlo via. Un paio di paramedici si fiondarono su John, ma un terzo si rese conto che anche Sherlock era ferito. Il ragazzo cercò di esaminare la sua ferita, che già ad una prima occhiata non prometteva bene – e il paramedico si chiese come diavolo facesse a restare così imperturbabile, dato il dolore che doveva provare – ma il detective lo allontanò prima con uno sguardo inferocito e poi con qualche parola brusca.

Dall'ingresso della stanza, su dalle scale, fu Mycroft a comparire, dando qualche veloce e quasi annoiata istruzione a coloro che erano rimasti sul posto dopo aver rimosso Moran: il destino di quel criminale non sembrava affatto roseo.

Mary, nel frattempo, aveva visto accasciarsi ai suoi piedi il grosso peluche di Winnie the pooh che aveva visto per la prima volta a Parigi. Al suo interno, era stata sistemata una fonte di calore che avrebbe confuso un rilevatore infrarossi di un fucile da cecchino, per quanto sofisticato: Sherlock aveva pensato a tutto. Moran, che non era stato a Londra negli ultimi giorni, non aveva saputo della lite tra i due fidanzati, ma solo del ritorno di Sherlock. Era perciò perfetto attirarlo nella trappola: fargli credere che la macchia di calore sul suo rilevatore non fosse altri che John Watson. Mary si era studiata la sua parte: avrebbe fatto finta di cenare con lui, seduto davanti alla tv a guardarla, avrebbe fatto finta di soccorrere il cadavere del suo ragazzo finché la situazione non si fosse risolta. Aveva seguito tutte le istruzioni, nervosa più di quanto avesse lei stessa creduto e quando un secondo sparo seguì quello che aveva colpito il povero peluche, si era messa in allerta. All'arrivo dell'ambulanza e della polizia, si era decisa a uscire e vedere con i propri occhi.

Non appena arrivò con i piedi sull'asfalto, i paramedici stavano trascinando Sherlock di peso e avevano sistemato John su una barella, per trasportare entrambi nell'ambulanza. Il detective si lamentava che voleva soltanto seguirli e decisamente non su quel mezzo: un taxi sarebbe stato più che adatto, non se ne parlava né di quel trasporto sanitario piccolo e che odorava di disinfettante, né di una squallida auto della polizia. Mary si avvicinò subito alla barella, dicendo agli infermieri di essere la sua fidanzata e che non avrebbe lasciato il suo fianco finché non fosse arrivato in sala operatoria, e non appena uscito, avrebbe ripreso il suo posto. La sua determinazione dapprima li lasciò indifferenti: ne sentivano parecchie di donne che si comportavano così, ma c'era una sorta di forza nei suoi occhi che non sarebbero riusciti a sconfiggere, e se ne resero conto. Mycroft si avvicinò al fratello, preoccupato talmente in fondo che fu difficile notarlo persino a Sherlock, e gli offrì un posto sulla Jaguar, purché stesse attento a non sanguinare troppo sui rivestimenti in pelle. Mary tirò un sospiro di sollievo quando partirono tutti.

Mary seguì John come aveva promesso, fino alle porte oltre le quali solo il medico e i suoi assistenti potevano. Sherlock dimentico del dolore come di qualsiasi altra cosa quando lavorava, giunse con lei, con qualche infermiere alle calcagna. Mary si voltò verso di lui e si rese conto della gravità della sua condizione. Non fu necessario domandare agli addetti di sedarlo in qualche modo, e dopo una dura lotta, riuscirono a trascinarlo nella sala adiacente, per ricucirlo e fasciarlo. Mycroft, abituato a questo genere di scenate, fece i pochi passi che la sua pigrizia gli consentirono e si fermò nel reparto in cui sapeva sarebbero stati trasferiti i due ex coinquilini di Baker Street.

Mary seguì di nuovo la barella di John quando uscì e venne sistemato in una cameretta deserta e spaziosa, dotata di altri due letti non occupati. Sherlock venne sistemato nel letto accanto al suo, e si svegliò molto prima di lui.

John si voltò allora di più alla sua destra, dove non aveva guardato: aveva supposto che il resto della stanza fosse vuoto, dato che davanti a lui era tutto asettico e deserto. Il suo migliore amico sorrideva divertito alla sua faccia evidentemente stordita e dubbiosa. Mary si voltò a sua volta verso l'altro degente con un'espressione un po' più serena.

Dopo qualche istante di silenzio, Sherlock tornò a fissare il soffitto, come faceva spesso quando John viveva con lui: gli mancavano solo la vestaglia blu e le mani unite sotto il mento in quella sorta di preghiera al Dio della deduzione.

«Ti starai chiedendo come io e Mary ci siamo conosciuti» disse, rivolto quasi più a se stesso che ai presenti «è l'ultimo tassello che ti manca, per completare il puzzle»

John mise su un'espressione sarcastica, che intenerì molto Mary.

«A parte come hai finto la tua morte» puntualizzò il medico, ma Sherlock fece finta di non sentirlo, o lo ignorò davvero.

«La prima volta che ti vidi io, ero a Kandahar, in Afganistan. Non mi hai mai detto se tu mi avevi riconosciuta prima o quel giorno stesso» disse Mary, aggrottando la fronte a quel ricordo e osservando quella strana e incredibile creatura che le aveva stravolto la vita più di una volta. Istintivamente, John allungò la mano verso la sua, stringendola. Lei si voltò in sua direzione, e gli sorrise, come a rassicurarlo che qualsiasi cosa lui gli stesse per raccontare, era lontana e sepolta.

«Ti avevo notata da un po' di tempo, ma ho saputo solo quel giorno chi fossi. Mi stavo annoiando, e Mycroft non volendo mi aveva segnalato della scomparsa dell'ambasciatore Morstan. Anche Mary stava indagando, così ci siamo incrociati. Ho risolto il caso e lei si è sentita in debito. Non sei stata una cattiva assistente, però, devo ammetterlo.» concluse il detective, con un sorriso misto tra orgoglioso e ironico.

Mary non replicò, anche perché Lestrade irruppe nella stanza, preoccupatissimo della salute di John e soprattutto deciso a credere solo attraverso i propri occhi alla storia che Sherlock era davvero tornato. Il sollievo gli si dipinse in un sorriso impacciato, nel suo gesticolare e nel tentativo di dire qualcosa, anche solo una battuta sconclusionata, mentre anche Mycroft faceva il suo ingresso, decisamente più lento e annoiato. Scambiò un'occhiata con Sherlock e posò la custodia del suo violino in fondo al letto, sul tavolinetto che manteneva in ombra i suoi piedi.

Solo l'intervento dell'infermiera pose fine alla piccola assemblea in parte rumorosa, con cipiglio severo e ammonimenti infuriati: Mycroft uscì come se niente fosse, Lestrade promise chiamate e chiese espressamente spiegazioni appena fosse stato possibile e in ultimo Mary. La ragazza si alzò delicatamente, posò un bacio sulla fronte e poi sulle labbra di John e fece un piccolo cenno con la mano, quasi un saluto militare, a Sherlock, lasciandoli soli.

John si chiese cosa c'era da dire, e ci pensò un po' su. Sherlock lo osservava con quei suoi occhi indagatori e guardinghi, e sapeva perfettamente, prima che il medico la formulasse, qual era la sua domanda.

«Anche tu hai solo il camice addosso, sotto la coperta?» chiese John, in un misto tra dubbio e un vago panico.

«Già» replicò quello, guardandosi un po' intorno.

Dopo che John ebbe fissato il letto vuoto di fronte a sé per qualche istante, come era capitato più di tre anni prima su un divano rosso nel cuore dell'impero britannico, scoppiò in una risata, prima sommessa ma non per questo meno sincera e poi più rumorosa, e felice. Sherlock fece lo stesso, con qualche istante di ritardo, con una gioia spensierata e sfacciata. Una gioia che riempiva i cuori e le menti di entrambi.

   
 
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