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Autore: OtoyaIttoki    04/05/2012    4 recensioni
E' capitato ad ognuno di noi, almeno una volta nella vita, di perdere la bussola e di non capire più chi siamo o cosa vogliamo. Alan, fotografo londinese, si reca alla Wammy's House per cercare un misterioso bambino, immortalato in una foto scattata da suo padre anni prima. Riuscirà nel suo intento o verrà "deviato" da qualcun altro?
[Matt, Mello & Near Friendship]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Matt, Mello, Near, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mi chiamo Alan Newton, ho trentacinque anni e sono single.

Ok, probabilmente del mio status sentimentale non ve ne importa granché, ma cercate di capirmi, a causa del mio lavoro sono spesso e volentieri da solo, quindi quando ho occasione di parlare di me, mi perdo in dettagli talvolta inutili.

Come? Volete sapere cosa faccio nella vita?

Ecco, diciamo che sono un fotografo. Mi è sempre piaciuto immortalare i paesaggi e le emozioni che questi mi trasmettevano, e questa mia passione mi ha portato a vincere numerosi concorsi, nonché ad affermarmi professionalmente e a conoscere tanti maestri del settore. Ero felice e sicuro di me, fino a quando, ultimamente, non ho iniziato a nutrire dei dubbi sul mio operato.

Le mie fotografie mi parevano vuote e spente; non brillavano più dell’entusiasmo e della spontaneità che avevo da debuttante.

Erano troppo “perfette”, quasi finte nel loro essere reali.

Credo che nella vita di un individuo arrivi sempre il momento in cui si debba fare “il punto della situazione”: avevo cominciato ad avvertire un senso di malessere e noia ogni volta che impugnavo la mia macchina fotografica.

Avevo girato mezzo mondo, eppure sentivo che c’era qualcosa che mi mancava; mi sentivo incompleto come un disegno lasciato a metà. Non ho mai pensato di abbandonare la fotografia, ma capii che avevo bisogno di nuovi stimoli, di cambiamenti.

Ma cambiare radicalmente era davvero giusto?

Dovevo lasciare Londra, diventata ormai la mia seconda casa?

Avevo un solo modo per scoprirlo.

Un pomeriggio di metà aprile, incoraggiato da una piacevole brezza carica di intensi profumi, inforcai la mia fedele moto e decisi di far visita a mia madre. Non impiegai molto tempo a raggiungerla, complice la poca distanza tra Londra e Winchester (il mio paese natale) e il mio modo di guidare piuttosto “spericolato”.

Mi lasciai abbracciare dalla campagna circostante e…sì, sì vi risparmio tutta la lagna sulla malinconia che mi provocava quel posto colmo di ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza. Sembrava che lì fosse rimasto tutto immutato e mi accorsi dello scorrere del tempo solo quando vidi i capelli di mia madre, sempre più grigi.

«Alan, si può sapere quando ti deciderai a rendermi nonna? Non vedo l’ora di poter avere dei nipotini!» squittì mia madre, alla quale schioccai un bacio sulla guancia.

«In modo da potertene vantare con le vicine, dico bene?» la presi in giro con fare bonario, mentre lei si abbandonava ad una risata.

«Le cose di papà sono ancora di sopra?»

«Certo, ho lasciato tutto com’era.»

Senza indugiare oltre, mi recai in soffitta, incontrando tanta polvere e tanti oggetti che non ricordavo più di avere.

Tracce di una vita passata che segnavano il mio passaggio in quella casa.

La luce del sole filtrava attraverso una finestrella rotonda dai vetri colorati e, dispettosamente, si insinuò in una fessura tra due armadi.

Mi avvicinai pian piano, temendo quasi che potesse sbucare dal nulla un fantasma, pronto a recriminare la proprietà della soffitta e posai una mano in quella fessura, notando che aveva urtato qualcosa.

Una scatola di biscotti.

Proprio quello che cercavo.

La aprii avidamente e al suo interno trovai delle fotografie scattate da mio padre. Scommetto che starete pensando che io ho seguito le sue orme, ma vi sbagliate.

In realtà, per lui la fotografia era solo un hobby, dato che faceva il macchinista sui treni.

Vi era una sostanziale differenza tra noi: io preferivo catturare l’essenza dei panorami e di oggetti inanimati in generale, al contrario mio padre aveva dedicato la sua attenzione alle persone.

Prendetemi pure per stupido, ma io ho sempre avuto una certa pudicizia nel fotografare la gente, perché avevo l’impressione che con uno dei miei scatti avessi potuto “rubare”, o meglio intrappolare, un istante della loro vita.

Invece per mio padre era una cosa naturale, lui amava estrapolare scorci di vita di chi gli stava intorno.

Feci scorrere una ad una le sue fotografie (perfettamente impilate, anche se un po’ ingiallite) e mi ritrovai a fantasticare sull’esistenza di ogni individuo ritratto.

Fantasia, creatività.

Probabilmente erano quelle le doti che mi servivano per “rinascere”?

Accesi distrattamente una Lucky Strike e mi accarezzai la barba ispida.

Volevo provare ad imitare mio padre, non tanto nella tecnica, quanto nel cuore che metteva nel suo passatempo.

Stavo per rimettere tutto a posto, quando ad un tratto mi accorsi che sul fondo della scatola era rimasta una fotografia, dove erano ritratti un signore anziano, dal portamento distinto, e un bambino dai capelli neri, avvolto in un cappottino e in una sciarpa. Stavano scendendo dal treno e si stavano facendo largo tra la folla, che cercava un riparo dalla neve.

Mi colpirono molto gli occhi di quel bambino, così attenti ad analizzare l’ambiente circostante, ad analizzarne ogni dettaglio.

Quegli occhi così vivi e profondi, eppure allo stesso tempo spenti.

Volevo incontrarlo, perché quel suo sguardo “contraddittorio” mi incuriosiva.

Girai la fotografia e notai che mio padre vi aveva scritto qualcosa a matita.

Wammy.

Dovevo avevo già sentito quella parola?

Ma certo! A Winchester c’era un orfanotrofio chiamato “Wammy’s House”. Non so se era una semplice coincidenza, ma valeva la pena fare un tentativo.

Forse lì lo avrei trovato, anche se erano passati tanti anni e la sua fisionomia era cambiata.

Chissà se era davvero un orfano o un semplice passante.

Mi infilai la fotografia nella tasca del mio giubbotto di pelle e, dopo aver aggiustato la vecchia Polaroid di mio padre, uscii velocemente di casa con essa. Percorsi a grandi passi un viale di oleandri in fiore, ma non me ne curai più di tanto.

Quando la mia testa era occupata da un pensiero era difficile scacciarlo.

Fortunatamente, l’orfanotrofio distava dalla mia abitazione solo un quarto d’ora, così potei soddisfare subito la mia curiosità. Mi trovai davanti ad un cancello in ferro battuto che racchiudeva dentro di sé un’imponente costruzione in stile vittoriano, sulla cui cima svettava un orologio[1].

«Salve, posso aiutarla?» mi domandò un uomo sulla settantina, venendomi incontro non appena si accorse della mia presenza.

«Spero di sì. Cercavo il bambino in questa foto…è un vostro ospite per caso? Ah, che sbadato, non mi sono presentato; mi chiamo Alan Newton, piacere di conoscerla.» gli porsi il mio bigliettino da visita, mentre l’uomo si calcava un paio di occhiali dalle lenti spesse sul volto per osservare la foto.

Non appena la mise a fuoco, si irrigidì.

«Roger Ruvie, direttore della Wammy’s House. Il ragazzo che cerca non si trova più qui e, se permette, questa la tengo io.»

Quindi, quel bambino in passato era stato un abitante della Wammy’s House.

E’ difficile da spiegare, ma la sua risposta lapidaria mi lasciò deluso, insoddisfatto. Senza contare il fatto che mi aveva sequestrato la foto.

Tuttavia, in virtù del suo atteggiamento poco chiaro, decisi di non arrendermi.

Dietro a quel bambino si celava qualche mistero irrisolto?

«Come vuole, ma mi permetta almeno di fare un giro all’interno dell’istituto, mi piacerebbe scattare qualche foto ai ragazzi.»

«Glielo proibisco categoricamente. Se ne vada ora, non abbiamo più niente da dirci.»

Simpatico come un calcio nel sedere, il direttore.

Peccato che non sapeva che più mi si proibiva una cosa, più mi intestardivo per portarla a termine. Mi accomiatai da lui che, dopo essersi accertato della mia scomparsa, tornò sui suoi passi e si ritirò all’interno dell’edificio.

Scrutai la via parallela all’orfanotrofio e mi accorsi che non era molto frequentata, per cui, approfittando di un grosso cespuglio ubicato tra le sbarre del cancello, mi inginocchiai e sbirciai nel cortile dello stabile, dove alcuni ragazzini stavano giocando ad acchiapparello.

«Visto il modo in cui mi ha trattato il direttore, mi aspettavo di trovarmi di fronte degli extraterrestri e invece sono solo dei normali ragazzini…» pensai, cercando di scorgere, invano, il soggetto della foto di mio padre.

«Ehi!» all’improvviso una voce mi fece sobbalzare e girare poco alla volta verso il suo possessore. Mi trovai di fronte un ragazzino castano[2], sugli occhi un paio di occhiali da aviatore e tra le mani un videogame. Doveva avere all’incirca quattordici anni.

Sembrava molto rilassato e per nulla intimorito dalla mia presenza.

«Sei per caso uno stalker?»

Per poco non rovinai a terra sentendo la sua affermazione.

«Assolutamente no. Mi chiamo Alan Newton e sono un fotografo; volevo solamente scattare qualche foto agli abitanti della Wammy’s House, ma il direttore Ruvie me lo ha impedito e così…»

«E così hai pensato di metterti a carponi e spiarci da fuori, giusto?»

«Bè, sì più o meno…» tentennai, quasi intimorito dall’ovvietà con cui aveva pronunciato quella frase «quindi anche tu sei un “ospite” della Wammy’s House?»

Il ragazzo ostentò un sorriso, condito da un tono di voce quasi rassegnato.

«Un ospite stabile, purtroppo.»

La sua risposta mi lasciò basito, e fu ancora una volta il mio interlocutore ad orchestrare la discussione.

Pensavo, erroneamente, che essendo un orfano si sentisse a disagio a parlare con adulto, invece, ero io a sentirmi “inferiore”.

Dal suo modo di fare inconsueto, pareva che vivesse la vita giorno per giorno e in maniera assolutamente fatalista, perciò mi chiesi se la sua condizione gli fosse mai pesata.

Nel corso degli anni avevo imparato a non giudicare le persone dalla prima impressione; vanno analizzate a mente fredda, un po’ come quando nella camera oscura si scremano le foto e si scelgono quelle migliori.

«Alla Wammy’s House vengono radunati bambini talentuosi, allevati con lo scopo di succedere al grande detective L. Immagino che ne avrai sentito parlare.» continuò lui scanzonato.

«Quindi fammi capire bene…» esitai un attimo, indicandolo.

«Matt. Mi puoi chiamare Matt.»

«Ok. Matt, voi siete dunque dei piccoli geni?»

«Dipende che accezione dai alla parola “genio”. Io, ad esempio, non mi sento affatto tale. Il genio non è solamente colui che riesce a risolvere equazioni impossibili o che, in generale, possiede capacità straordinarie. Secondo me, il vero genio è colui che riesce a farsi accettare dagli altri senza fare per forza grandi cose e, soprattutto, rimanendo se stesso. Oppure, se la vediamo da un altro punto di vista, è colui che riesce a convivere con la propria solitudine.»

Conversare con Matt si stava rivelando più interessante del previsto. Mi affascinava il modo in cui parlava, talvolta ironico ma mai presuntuoso, e il suo pensiero.

«Quindi tu non ti senti accettato dagli altri?»

Matt arricciò le labbra, riflettendo sulla risposta da darmi.

«Non è proprio così. Io mi isolo per mia volontà, un po’ come Near.»

«Chi è Near?»

Dedussi che quelli non dovessero essere i loro veri nomi, ma dei semplici pseudonimi, costruiti ad hoc per salvaguardare la loro identità, dato che diventare dei detective celebri come L comportava dei grossi rischi.

«Te lo faccio vedere, a patto che tu mi faccia provare una di quelle.» proclamò, indicando il pacchetto di sigarette che mi usciva dalla tasca dei jeans.

«Sei troppo giovane, e poi il fumo fa male. Hai idea di quante persone oggigiorno muoiano per colpa…»

«Non fare il finto moralista. Dopotutto anche tu fumi, no?» sottolineò lui, ammiccandomi e sfilando una sigaretta e l’accendino dalla confezione, lasciandomi ancora una volta interdetto. Poco dopo, lo sentii tossicchiare e non potei fare a meno di ridacchiare, ripensando alla prima sigaretta che avevo fumato da ragazzo.

«Questa cosa è attraente tanto quanto un videogame. Mi piace.» cinguettò Matt soddisfatto, mentre aspirava il fumo della sigaretta e mi conduceva verso l’entrata secondaria dell’orfanotrofio.

Evidentemente, se aveva deciso di accompagnarmi dal suo amico, dovevo aver guadagnato la sua fiducia.

Ci ritrovammo in prossimità dello spiazzo che avevo adocchiato poco prima dall’esterno e vedere quei ragazzi da vicino mi fece uno strano effetto: l’obiettivo della mia visita era passato in secondo piano, ora la mia attenzione si era focalizzata su di loro.

«Mello, pretendo che ti scusi all’istante!» strillò una ragazzina con dei codini che, apparentemente, doveva essere una coetanea di Matt. Tra le mani brandiva una scarpa colma di dentifricio e la sua espressione minacciosa, indirizzata ad un compagno vestito di nero, non prometteva nulla di buono.

La mia mente tornò a quando io e mio fratello Steve ci divertivamo a “torturare” Daisy, la nostra sorellina, con rospi e lucertole.

Un sorriso fece capolino sulle mie labbra.

Man mano cominciavo a comprendere il motivo per cui mio padre amava scattare foto a dei soggetti animati.

Condivisione.

Indirettamente, grazie ai miei ricordi, ero in grado di condividere le loro esperienze.

Di farle mie.

«Non ci penso nemmeno, Linda.» stavolta a prendere la parola era stato un ragazzo biondo dagli occhi azzurri, la cui arroganza strideva ampiamente con il suo aspetto “delicato”.

In un libro di psicologia avevo letto che vi era sempre una ragione alla base dei comportamenti altezzosi e che, nella maggior parte dei casi, questi erano dettati da una forte insicurezza o frustrazione. Ma era veramente il caso di Mello quello?

Da come agiva mi dava l’idea di un leader, di un abile condottiero come Alessandro Magno che non scendeva a compromessi con il prossimo.

Mi dava l’idea di un ragazzo cresciuto in fretta, contando solo sulle proprie forze e senza chiedere aiuto a nessuno per orgoglio. Il suo fare autoritario dimostrava quanto fosse più attivo e partecipe alle attività di gruppo rispetto a Matt.

Sì, dalla risposta che aveva dato a Linda percepì che il tallone d’Achille di Mello fosse proprio l’orgoglio.

Il suo essere contradditorio mi fece ricordare lo sguardo del bambino della foto: sveglio, ma spento.

Linda sbuffò stizzita e sbatté i piedi a terra, correndo verso un bambino che indossava un pigiama bianco, intento ad impilare alcuni dadi; essendo il bianco un “non colore” mi sembrava quasi che stonasse con i colori che animavano quel posto.

«Non farci caso, qui è sempre così.» mi avvisò Matt, alzando le spalle rassegnato. Suppongo che facesse spesso da spettatore a scene simili e che ormai erano entrate a far parte della sua quotidianità.

«Near, hai sentito quanto è sfacciato Mello! Dai, digli qualcosa!»

«Qualcosa.»

La voce neutra e apatica di Near mi fece trasalire (Linda, invece, era esasperata): la sua indifferenza mi ricordava quella di noi adulti e strideva molto in un ragazzo della sua età, dove la parola d’ordine era “contraddire”.

Il bianco è anche sinonimo di “assenza”, e a dispetto del suo “nome”, Near mi sembrava lontano anni luce dai suoi amici. La stessa posizione che assumeva, ovvero rannicchiato su se stesso, mi lasciava intendere una chiusura verso il mondo esterno.

Era davvero adatto a diventare l’erede di L, dato che si sarebbe fatto carico dei problemi dell’umanità?

Due spalle così piccole potevano reggere un simile peso?

Eppure ognuno di quei ragazzi nascondeva qualcosa e Near non faceva eccezione.

Che dietro alla sua apparente freddezza ci fosse una sensibilità spiccata, ma latente?

Mistero.

Sì, Near era un mistero tutto da scoprire, un reperto archeologico da portare alla luce.

«Non potevi sceglierti alleato peggiore, Linda.» disse Mello ridacchiando e dando una pacca sulla spalla a Near, che non si voltò minimamente a guardarlo «Near è mio amico, non mi tradirebbe mai.» le sue labbra stirate in un sorriso sincero.

Lealtà.

Come la Terra gira intorno al Sole, la vita di Mello ruotava attorno a questo concetto.

Ma cosa ne pensava Near? Per lui l’amicizia era altrettanto importante?

Click.

Il mio indice si mosse da solo e dalla mia Polaroid uscì una fotografia che ritraeva un Mello sorridente.

Mello che sorrideva alla vita.

Il ragazzo si accorse solo in quel momento della mia presenza e il suo volto si oscurò: con tutta probabilità, non aveva gradito il mio gesto repentino.

«Ehi, tu si può sapere chi sei? E Matt, come mai sei con lui?!» sbraitò furente, mentre Linda mi si avvicinava incuriosita, dimenticandosi della loro scaramuccia.

«S-scusa, ecco…io…» balbettai impacciato, portandomi una mano dietro la nuca. Tutte le volte che mi sentivo in imbarazzo, ripetevo quel gesto.

«E’ solo uno stalker.» si intromise Matt, sorridendomi con complicità e facendo strabuzzare gli occhi a Mello.

Non potei fare a meno di scoppiare a ridere, pensando che quella giornata si era rivelata molto proficua, benché non avessi incontrato lui.

I suoi successori erano persone alquanto singolari, ma ero quasi certo che ognuno di loro avrebbe trovato la propria strada e avrebbe fatto grandi cose nella vita.

Ognuno di loro mi aveva aperto gli occhi.

Adesso sapevo cosa fare.

                       

                                                                           ~

 

Mihael Keehl stava osservando una vecchia foto di qualche anno prima che lo ritraeva sorridente. Da quando era iniziata la “lotta” per la successione al titolo di L, lui e Near non erano più amici; quei tempi erano ormai lontani.

E lui ormai li aveva dimenticati.

O almeno ci stava provando, convincendosi che erano soltanto dei rivali, concentrati entrambi sulla cattura del famigerato Kira.

«A cosa pensi?» gli domandò Mail Jeevas, intento a completare l’ultimo livello di uno dei suoi videogame preferiti; tra le labbra una Lucky Strike accesa.

«A quel giorno.»

Si scambiarono un sorriso fugace.

L’ultimo.

 

 


[1] Nel manga di Death Note viene mostrata un’immagine della Wammy’s House, dove appunto c’è una “clock tower” (vedi Death Note Wiki), a differenza dell’anime dove questa non compare.

[2] In realtà Matt ha i capelli castani e non rossi, come gli sono stati attribuiti dal fandom.

 

Pensieri, parole, scleri di Otoya:

Questa one-shot è nata in seguito ad una telefonata con un'amica e ancora una volta ho lasciato che l'istinto mi guidasse. Tramite il mio OC ho voluto dare una mia interpretazione riguardo ai Wammy's Boys, ed essendo lui un elemento esterno ed estraneo all'orfanotrofio, ho preferito accennare solamente le descrizioni psicologiche/caratteriali dei vari personaggi, cercando di mantenere intatta la loro natura. Ho immaginato che Mello e Near fossero amici (è un mio punto di vista, non obbligo nessuno a pensarla come me), ovviamente prima della lotta alla successione per il titolo di L e tirando in ballo la questione della foto che compare nell'episodio 30. Spero che nel finale il collegamento "implicito" (le sigarette di Matt e la foto) ad Alan risulti abbastanza chiaro. Sul titolo non ho granchè da dire: il fumo di sigaretta può restare nell'aria o svanire in un attimo, un pò come quello che succede intorno a noi.

Un'ultima cosa: ignoro la reale distanza che intercorre tra Londra e Winchester, per cui chiudete un occhio, anzi due XD

Mi auguro di aver allietato, anche solo un pochino, il vostro mattino/ pomeriggio/ sera e che questa storia vi abbia strappato un sorriso^^ ci leggiamo presto sulle pagine dell'altra mia fiction "Fathers"!

Yours sincerely,

OtoyaIttoki.

 

  
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