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Autore: Yknow_    04/05/2012    1 recensioni
Cominciai a sorridere all'idea della libertà, ma il tutto restava comunque un'inutile illusione. Erano quattro ragazzi con qualche pistola, cosa potevano fare contro un esercito regolare?
-E tu? Neanche tu mi sembri proprio una conformista!- Gerard interruppe i miei pensieri.
-Si, neanche io sono una pedina del governo.- o meglio, rispetto a loro lo ero ancora ma ero una pedina, diciamo diversa.
-E allora cosa ci fai ancora con quella divisa?- colsi ciò che Gerard stava cercando di chiedermi. Di unirmi a loro. Di togliermi la divisa e scappare insieme a loro. L'idea mi pietrificò per qualche secondo, poi risposi.
-Non ho il coraggio che avete voi.-
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-A questo punto dovete invertire tutti i segni e moltiplicare
la campanella suonò e la professoressa smise di parlare, finalmente, dopo sei ininterrotte ore. Si diresse verso la cattedra, ci assegnò parecchi esercizi per casa, che ovviamente nessuno avrebbe svolto e poi ci portò fuori dall'edificio scolastico.
Quel posto non si poteva chiamare scuola. Era un enorme blocco di cemento armato dove tutti i giorni, bambini e ragazzi dovevano cercare di imparare qualcosa, sorvegliati come fossero detenuti. Io lo chiamavo carcere. 
-Oggi sembrava non finire mai, eh?- Jenna, una mia compagna di classe che si riteneva la mia migliore amica, mi raggiunse mentre mi incamminavo verso casa.
-Già, sei ore di matematica.- non mi stava particolarmente a genio. Anzi, nessuno nella mia scuola mi stava particolarmente a genio, tranne Josh, il mio vero migliore amico. Ci conoscevamo sin da piccoli e passavamo insieme praticamente tutta la giornata, fra scuola e tempo libero. Lui era un tipo a posto.
-Che ne dici se verso le cinque andiamo a prenderci un caffè nel bar vicino la scuola, ti va? Ci saranno anche tutti gli altri!
Dovevo inventare una scusa per non andarci, il che era diventato difficile dati gli anni passati a rifiutare inviti. Mi limitai semplicemente a dire -Ecco, veramente io avevo già preso impegni...-e guardai ridacchiando Josh che era qualche metro da noi. Fra me e Josh non c'era niente più che amicizia, ma tutti erano convinti del contrario (anche io lo sarei stata, guardandomi da occhi estranei, dato tutto il tempo che passavamo misteriosamente insieme). Jenna ridacchiò insieme a me. Non che mi piacesse essere considerata la ragazza del mio migliore amico, ma era una cosa che potevo usare a mio favore, a scuola. Avevo una scusa per rifiutare tutti gli appuntamenti che i ragazzi mi chiedevano.
-Bene, nessun problema! Spiego tutto io agli altri! Divertitevi
Jenna mi fece l'occhiolino ridendo maliziosamente e poi si allontanò, andando dal lato opposto a quello in cui camminavo io. Finalmente se n’è andata!
Oltrepassai quattro o cinque palazzi fino ad arrivare alla fermata dell'autobus.
Josh arrivò cinque minuti dopo e mi raggiunse, sfinito dalle lezioni particolarmente pesanti di quel giorno. Non dicemmo niente, semplicemente entrammo nel primo autobus che passò diretto verso casa e restammo tutto il tempo a fissare fuori dal finestrino, lo scorrere dietro di noi delle strade, tutte dannatamente uguali e schematiche.
Se avessi avuto una bomboletta e non avessi dovuto pagare con la pena di morte, avrei fatto un murales gigante e più colorato possibile sul palazzo del quartier generale.
Eh si, proprio così. Nella mia città (ma anche in tutte le altre) l'arte era vietata. Tutto ciò che esprimesse qualcosa di personale veniva distrutto, dai disegni ai libri alle poesie ai film. Ci avevano tolto la possibilità di parlare, perché se non si può parlare non ci si può neanche lamentare. 
Dopo circa quattro fermate il pullman si fermò alla nostra e noi scendemmo dalla porta anteriore. Ci fermammo a guardarlo andare via.
-Giornata pesante oggi.- Josh cominciò a parlare.
-fin troppo.- Aggiunsi io. –ma cosa possiamo farci?-
-A volte l'unica cosa che vorrei fare è scappare, superare quella fottuta barriera e andare via da questa città.- Inutile dire che ero nella stessa condizione, tutti lo eravamo, ma aggiunsi solamente -non penso che altrove la situazione sia diversa.-
Lui annuì, poi mi spiegò che aveva un impegno con sua madre e doveva andare, così ci salutammo e ci dirigemmo ognuno alla rispettiva casa. Lui abitava solo un isolato a destra della fermata, io due a sinistra ma le nostre case erano identiche, come tutte le altre del resto. Tutte le case in America, forse nel mondo, erano identiche fra loro. Palazzi a sei piani con dodici appartamenti ciascuno. Alti e grigi, senza neanche un minimo di personale che li distinguesse dagli altri. Era vietato anche avere dei fiori sul davanzale della finestra.
Perlomeno all'interno erano abbastanza confortevoli, anche se gli arredi erano comunque monocromatici. Era tutto nero, grigio o bianco. Gli unici colori che non significano niente, usati in quel modo. Anche il cielo era perennemente grigio. Ultimamente mi era venuto qualche dubbio sul fatto che fosse un cielo normale, pensavo fosse una specie di cupola messa sulla città. Ma sapevo che era impossibile e che ormai anche il sole si era arreso alle regole del Governo. C'erano bambini che non avevano mai visto i colori, se non quelli della scarseggiante natura nella città. 
Quando il governo “salì al potere” io avevo due anni, quindi qualcosa riguardo il mondo precedente la ricordavo, anche perché mio padre non faceva che raccontarmi della vita felice e del talento di mia madre in tutti i tipi di arte. Mia madre fu uccisa quando io avevo quattro anni, ma lo ricordavo come se fosse ieri, dato che da tredici anni rivivevo il momento tutte le notti. 
Lei era un'artista, perciò quando il governo impose le regole di censura (con la forza ovviamente), diventò una dei ribelli. Ma la guerriglia non durò neanche il tempo di cominciare. I ribelli furono praticamente sterminati, i sopravvissuti pagarono sulla sedia elettrica due anni dopo, fra cui mia madre. Da allora quello fu l'esempio che da quindici anni alimentava il terrore nella nostra città reprimendo tutti gli spiriti di insurrezione. 
Anche io ero un'artista come mia madre, non so come facevo a vivere in un mondo così senza esplodere. Anzi, lo sapevo: tutte le sere uscivo di casa di nascosto e mi dirigevo verso il perimetro della città. Nonostante abitassi in periferia mi ci voleva una mezzoretta per raggiungere il punto preciso dove le torri di controllo non ci sono. Lì, in quel punto dove forse solo io mettevo piede da anni, c'era il deposito abbandonato di una fabbrica ormai distrutta. Quel deposito ormai fatiscente non era stato abbattuto per non so quale motivo e io lo usavo come “nascondiglio”. Circa quattro anni prima lo trovai e ci portai tutto il materiale da disegno di mia madre che avevo tenuto nascosto per sette anni, per sbarazzarmene definitivamente. Era grande più o meno metà scuola, ma io non mi ci ero mai addentrata totalmente. La “mia” parte che chiamavo “lo studio” era interna, una stanza piuttosto ampia piena di scatoloni e scaffali vuoti dove io nascondevo il materiale. Le luci funzionavano solo in quella camera, per questo l'avevo scelta. Quando vidi tutti quei colori ad olio, quelle tempere, quei pastelli, prima di abbandonarli decisi di provare, solo per gioco, a disegnare qualcosa. Scoprii che era la sensazione migliore del mondo. Dipinsi un uccellino rosso fuoco imprigionato in una gabbia grigia e buia, con il becco legato. Non sapevo cosa significasse di preciso ma era la prima volta che provavo a esprimermi, era una sensazione fantastica, come liberarsi da un peso. Così nascosi per bene la tela e il materiale e tornai a casa. Il giorno dopo rientrai in quel deposito e disegnai. Inventai dei personaggi per un fumetto.
Più passavano i giorni e più non potevo fare a meno di esprimermi, così da allora quasi tutti i giorni andavo nel mio nascondiglio e disegnavo. Era diventato l’unico posto sicuro dove potessi essere me stessa.
 Nessuno, neanche Josh, ha mai saputo del deposito.
  
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