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Autore: aylee    04/05/2012    2 recensioni
John ha preso una decisione, Sherlock è sempre in viaggio e due errori non fanno una soluzione. Forse.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Appassionata di Sherlock Holmes da sempre, ho amato SherlockBBC da subito e dopo mesi dalla fine della seconda serie ho deciso che meritava un riconoscimento.

C’è stato un tempo felice in cui avevo tanto tempo per scrivere, leggere e commentare quanto volevo. Oggi ho due lavori, le ore tristemente contate e, anche se spero di riuscire a lasciare qualche commento almeno alle autrici delle storie che ho amato di più, approfitto di questo spazio per fare complimenti collettivi perché questo è un bellissimo fandom.

Fuori allenamento dopo tanto che non scrivevo fan fiction, ovviamente sono partita da un’idea per arrivare a qualcosa di un po’ diverso e soprattutto più lungo. Saranno due capitoli, pubblicati a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro.

Un avvertimento: ho visto la serie solo in inglese, leggo (quando riesco) per la maggior parte fan fiction in inglese, qualcosa del modo in cui scrivo potrebbe non coincidere con il linguaggio della serie in italiano. Segnalatemi eventuali imprecisioni.



Boomerang.
 

 
La clinica è affollata, come sempre l’arrivo dell’autunno sembra cogliere tutti di sorpresa e ci ritroviamo lunghe code di pazienti spaventati dal primo raffreddore, dai primi reumatismi, dai primi mal di gola. Il ritmo è frenetico, la pressione tanta, poco tempo per pensare.
 
Forse è per questo che nel corso della mattina, tra un paziente e l’altro, sono abbastanza distratto dai miei stessi pensieri da prendere coraggio e afferrare al volo il cellulare, cercare il numero di Sherlock sulla rubrica e far partire la chiamata.
 
Da quando ho bisogno di farmi coraggio per chiamarlo?
 
Una voce meccanica mi risponde che il numero al momento non è raggiungibile. Riattacco, mi immergo nuovamente nel lavoro, inquietudini e domande relegate in un angolo della mia mente ma mai del tutto assenti. È tardo pomeriggio quando arriva il messaggio che aspetto.
 
“John, ho visto la chiamata. Tutto bene? SH”
 
“Tutto bene. Tu come stai?.”
 
Sono oltre due settimane che non ti fai sentire, vorrei aggiungere. Mi manchi, vorrei dirgli. Ma non lo faccio, ancora testardamente determinato ad attaccarmi a una normalità che chiaramente si è persa per strada da qualche parte.
 
“Bene. Il caso ungherese è terminato, sono in Romania adesso. Paese estremamente interessante. SH”
 
Sorrido mio malgrado, non oso immaginare di cosa si stia occupando per trovare un posto estremamente interessante. Comincio a digitare una risposta, mi blocco, cancello, ricomincio a scrivere, tentenno. Il mio cellulare vibra nuovamente.
 
“Sarò a Londra tra una settimana. SH”
 
Quando fa così, attraverso le migliaia di chilometri che ci separano, mi sembra di poter vedere la sua mente matematica che gli suggerisce meccanicamente di inviarmi un messaggio che manifesti una qualche traccia di rapporto, di intimità, tanto per farmi contento.
 
Rispondo: “Bene, ci vediamo presto allora.”
 
E questo pensiero, che fino a qualche mese fa mi avrebbe riempito di un confuso sentimento di attesa, si scontra oggi solo con una ancora più confusa amarezza, che mi accompagna durante tutto il tragitto verso casa.
 
Non ho mai pensato di aver compreso fino in fondo quello che per anni è stato il mio migliore amico e coinquilino. John Watson che deduce Sherlock Holmes, andiamo, non sono così presuntuoso. Ma qualcosa pensavo di averla capita. Siamo passati attraverso inseguimenti, sparatorie, sequestri, cene a lume di candela, pezzi di cadaveri nel frigo, bollette non pagate, concerti alle quattro del mattino e perfino una resurrezione -la sua, o forse quella di entrambi- durante i sei anni della nostra amicizia. So che questo ha avuto un valore per lui, forse non lo stesso emotivo valore che ha avuto per me o che avrebbe avuto per chiunque altro, ma ci teneva a me, ne sono sicuro. Come può aver cancellato tutto in soli dieci mesi?
 
Sedici giorni che non ci sentiamo- è la prima volta che il silenzio dura così tanto, in genere non sono mai passati più di cinque o sei giorni senza che gli mandassi un messaggio, gli facessi una telefonata, gli scrivessi una mail, raggiungendolo almeno virtualmente nei suoi vagabondaggi in giro per l’Europa.

No, non raggiungendolo: inseguendolo sarebbe forse più corretto, perché in tutto questo tempo solo tre volte (tre!) è stato lui a cercarmi per primo, l’ultima volta ormai molti mesi fa. Questa volta ho scelto di non cercarlo, in attesa di vedere fin dove si sarebbe spinto o fin dove potessi spingermi io. Adesso conosco il mio limite e mi trovo a dovermi chiedere se per lui ce n’è uno o se faccio già parte di  quel mondo di comparse che Sherlock percepisce confusamente al di fuori del perimetro del suo interesse – il Lavoro, i Casi, la Scienza della Deduzione.

Sono fermo davanti alla porta di casa, il cuore appesantito da questi pensieri. Eppure dovrei esserne quasi felice, mi dico. Perché se davvero è bastato così poco al mio migliore amico (posso ancora
chiamarlo così?) per eliminarmi dalla sua vita, questo non può che significare che ho fatto la scelta giusta. Che alimentare quell’inspiegabile e insensato intreccio che erano diventate le nostre vite mi avrebbe portato a svegliarmi una mattina pieno di rimpianti. Che è davvero stato meglio così.
 
È stato meglio così.
 
Poco meno di un anno fa, mentre i preparativi del trasloco mangiavano il mio tempo – il nostro tempo, quello mio e di Sherlock insieme- e facevo il conto della rovescia dei giorni che ancora avevo da trascorrere a Baker Street, questa frase era la mia fedele alleata. Ormai mi è sufficiente ripeterla solo ogni tanto - in genere basta una volta al giorno, la mattina, quando mi sveglio. Ogni tanto capita una giornata particolarmente malinconica e allora devo ripetermelo una volta in più. Oggi è una di quelle giornate, evidentemente.
 
Respiro profondamente, mi concentro sul pensiero del calore che mi attende al di là della porta chiusa, sento le spalle che si rilassano e sorrido. Ho ancora la chiave nella toppa quando nell’ingresso compare Mary, il viso stanco dopo una giornata di lavoro e gli occhi che cercano i miei.
 
“Bentornato.”
 

*


Mary è il tipo di donna con cui immaginavo di mettere su famiglia a breve quando, ancora ventenne, non sapevo quali strade tortuose avrebbe preso la mia vita.

Non è bellissima ma decisamente carina, riservata senza essere impacciata, morbida nei modi e nel fisico, con un’ironia vivace  che mi fa sorridere spesso. Non so cosa l’abbia resa diversa dalle altre donne che ho frequentato dopo essere tornato dall’Afganistan, non so perché sia lei quella a cui una sera, mentre passeggiavamo, quasi casualmente ho detto: “E se andassimo a vivere insieme?”

Forse perché l’ho conosciuta poco dopo il mio quarantaduesimo compleanno, festeggiato con una serata passata a bere con Greg, Mike e qualche altro collega dell’ospedale, e svegliandomi la mattina dopo con un mal di testa martellante avevo pensato: Dio, non ho più l’età per queste cose.
E il pensiero successivo era stato: per quanto tempo ancora potrò considerarmi giovane, senza sentirmi almeno un po’ ridicolo?

Forse perché quando abbiamo cominciato a frequentarci conoscevo ormai così bene Sherlock da essere in grado di evitare che la facesse scappare a gambe levate durante uno dei nostri primi appuntamenti. Forse perché Sherlock stesso non aveva dato peso alla sua presenza, troppo immerso nella nostra routine per pensare che un giorno una donna avrebbe potuto avere un’importanza diversa nella mia vita.

Quello che so per certo è che è rimasto sorpreso – solo qualche attimo, ma la sorpresa era lì- quando gli ho detto che pensavo di andare a vivere con lei. E so che qualche settimana prima del trasloco, negli stessi giorni in cui io cominciavo a infilare la mia roba negli scatoloni senza nemmeno capire se lui si stesse accorgendo di quello che succedeva, una sera inaspettatamente mi aveva chiesto: “Cosa ha di diverso?”

L’avevo guardato perplesso: era sul divano, immobile e concentrato, da oltre tre ore. Per quel che mi riguardava avrebbe potuto riferirsi a qualunque cosa. Aveva sbuffato, e poi lentamente, con aria annoiata, aveva spiegato: “Mary. Cosa ha di diverso dalle altre? Perché lei e non Sarah, o Carol, o Lidia?”

Avevo notato, con una ingiustificata punta di agitazione, che aveva nominato le tre donne che da quando lo conoscevo mi avevano affascinato di più – se avesse detto cosa ha di diverso da Janette, o Micol, o Brit, avrei risposto senza esitazione: Mary mi piace di più.

Ma spiegare perché Mary e non Sarah, che era bellissima e brillante, o Carol, che sembrava avere i miei stessi gusti in tutto e per tutto, o Lidia, con cui avevo avuto il miglior sesso degli ultimi anni… mi spiazzava. Del resto Sherlock non sarebbe stato Sherlock se mi avesse messo di fronte a una domanda semplice, per cui mi ero sforzato di spiegarglielo in termini onesti e per lui comprensibili.

“Quando sei molto giovane e inesperto pensi che la persona con cui dividerai la vita sia quella che ti fa battere il cuore più delle altre. Poi cresci, la vita si complica, tu stesso ti complichi, e ti rendi conto che il batticuore non è sufficiente, serve qualcuno… compatibile. Non serve l’anima gemella, serve qualcuno che voglia le stesse cose che vuoi tu, nello stesso momento.”

Mesi dopo mi capitava ancora di chiedermi perché questa descrizione così impersonale del mio rapporto con Mary rimanesse la più sincera che ero riuscito a trovare, anche con me stesso. E mi sforzavo di dimenticare l’unico commento che era arrivato da Sherlock che, dopo essere rimasto qualche momento in silenzio con le sopracciglia aggrottate, aveva detto: “Interessante. Avrei detto che tu eri rimasto un tipo da batticuore.”


*

 
Non so se sia l’assenza di batticuore o la stranezza di trovarsi improvvisamente a vivere una vita normale, sta di fatto che la fase di assestamento, inevitabile all’inizio di ogni convivenza,  sta durando per quel che mi riguarda un po’ più del previsto. Di fatto non sono in grado di dire se sia mai finita, nonostante l’inverno, la primavera e l’estate siano già alle nostre spalle.

La cosa che più mi confonde è che non c’è qualcosa che non va. Io e Mary non litighiamo, non ci facciamo piccoli e stupidi dispetti domestici, non ci stiamo con il fiato sul collo. Eppure un senso di irrealtà avvolge ancora gran parte delle mie giornate, come se stessi vivendo una lunga vacanza che prima o poi finirà, come se quello che esce ed entra ogni mattina da casa non fossi davvero io.

Mary sembra percepire a tratti il mio spaesamento, ogni tanto prova a parlarne, altre volte non dice niente ma mi coccola un po’ di più la sera, quando ci ritroviamo a letto. Una volta sola mi guarda con reale preoccupazione, durante una conversazione a cui mi sforzo di non pensare ma che in alcuni giorni sembra aleggiare su di noi, come in agguato.

Era luglio, il mio compleanno si avvicinava di nuovo – quasi due anni prima ci eravamo conosciuti, un anno e mezzo prima avevamo iniziato ad uscire insieme, da quasi otto mesi dividevamo lo stesso appartamento- e mentre combattevamo il caldo di una sera estiva guardando la televisione e mangiando gelato all’improvviso mi aveva detto: “Sai John pensavo che potremmo anche smettere di essere così… attenti. Quando siamo insieme intendo. Insomma quando… hai capito.”

Avevo capito. Avevo capito benissimo e sapevo che il discorso sarebbe uscito prima o poi – quasi quarantaquattro anni io, trentasei lei, cosa avremmo dovuto aspettare? Nessuno si sarebbe meravigliato se avessimo fatto un figlio il giorno dopo. Eppure non avevo avuto dubbi nel risponderle.

“Io preferirei continuare ad essere attento, ancora per un po’.”

Mi aveva guardato con una punta di ansia: “…per un po’?”

“Non… non so dirti esattamente per quanto. Ma vorrei ancora un po’ di tempo, è… è tutto ancora piuttosto nuovo, è un po’ presto. Non trovi?”

Non aveva ribattuto ma avevo letto nel suo sguardo che no, per lei non era troppo presto, che lei era pronta, che mi avrebbe aspettato come altre migliaia di donne prima di lei avevano aspettato il loro compagno ma che in un qualche modo, da quella sera, era cominciato tra noi un silenzioso conto alla rovescia. E mi era tornata in mente quella spiegazione data Sherlock molti mesi prima, “serve qualcuno che voglia le stesse cose che vuoi tu, nello stesso momento”.

E quando il momento non coincide?, mi ero chiesto in quel momento. E per la prima ma non ultima volta mi ero detto che forse avevo sottovalutato un po’ l’importanza del batticuore.


*


“Ognuno elabora i propri lutti a modo suo, tesoro. Sherlock non è mai stato bravo con queste cose, lo sappiamo, e personalmente non penso che questa eterna fuga sia la soluzione ideale. Ma noi, come suoi amici, possiamo solo aspettare e rispettare i suoi tempi, non credi?”

No, Mrs. Hudson, non credo, vorrei risponderle. Anzi, vorrei proprio non parlarne, vorrei non sapere che c’è qualcuno (Mrs. Hudson, non qualcuno!) che pensa che Sherlock sia rimbalzando per l’Europa come una pallina impazzita per elaborare... la fine di un periodo della sua vita? La fine della nostra convivenza? La mia assenza?

È fine agosto, sono tornato da poco da una vacanza con Mary e sono passato a Baker Street attirato dalla promessa di una fetta di torta, di un po’ di sano affetto materno e dalla remota speranza di incrociare Sherlock, che non vedo da tre settimane e di cui ormai fatico a seguire le tracce.

Quando, qualche settimana dopo il mio trasloco, aveva annunciato in modo quasi casuale che avrebbe passato un mese a Berlino per seguire un caso internazionale, una parte di me era rimasta sorpresa, un’altra dispiaciuta, un’altra ancora sollevata. Mi mancava più di quanto fosse giusto, saperlo a portata di mano -nella nostra vecchia casa, al Bart’s o a Scotland Yard- era una tentazione continua e dovevo fisicamente forzarmi per non chiamarlo troppo spesso, per non cercarlo, raggiungerlo. Saperlo all’estero mi avrebbe fatto bene, mi ero detto.

E così Berlino era stata, e se durante quel mese l’avevo sentito poco, se al suo ritorno l’avevo incrociato per caso nell’ufficio di Lestrade invece di ricevere una sua telefonata, se rivederlo mi aveva emozionato un po’ più di quanto fosse normale (…batticuore?), era comunque ancora tutto a posto, lui era ancora il mio miglior amico e un insopportabile sociopatico, e io non avevo ragione di preoccuparmi o rimanerci male più del dovuto.

Ma poco tempo dopo c’era stata Praga (due settimane), e poi Parigi (dieci giorni, aveva detto, ed erano stare tre settimane) e poi ancora Lisbona, Atene, Bruxelles, Roma…

Improvvisamente Sherlock, il sedentario, annoiato Sherlock, sembra non poter vivere lontano da treni, stazioni, aerei e aeroporti. Le sue soste a Londra sono sempre più brevi, le nostre comunicazioni sporadiche, i sui tentativi di contattarmi inesistenti. E questa cosa ha cominciato a mangiarmi dentro.

Non so se Mrs. Hudson abbia intuito il mio stato d’animo, non so perché siamo finiti a parlare di lui e non so perché sto qui su questa su una stupida sedia con una stupida fetta di torta in mano a sentirmi dire che “Sherlock sta elaborando un lutto”. Ma so che non voglio ascoltarlo, non voglio saperlo, non voglio chiedermi se è vero e questa conversazione mi fa quasi più paura del breve scambio avuto con Mary sui figli che – decisamente- non sono ancora pronto ad avere.
 
Perché la verità -che ammetto tra me e me per non più di pochi secondi ogni tanto, quando proprio non posso farne a meno- è che io sto letteralmente soffocando nella sua assenza, e penso che non è normale che un altro essere umano mi manchi così tanto, e che questo prova che il nostro era sul serio un rapporto malato e ho fatto bene ad andarmene. E poi penso anche che se davvero – davvero- Sherlock, il mio orgoglioso, solitario e sociopatico amico mi facesse capire che gli manco, anche solo un po’, io potrei non farcela, potrei non riuscire a non tornare da lui. E questo pensiero mi terrorizza, per quello che significa per me, per Mary, per la mia vita.

Quindi no, Mrs. Hudson, io non credo che Sherlock sia sempre in giro perché gli manco, o perché sta male, o per qualunque altro diavolo di motivo del genere. E questa conversazione finisce qui, e lei non vedrà quanto mi ha disturbato, e se lo vedrà sarà così gentile da fare finta di nulla.

Sorrido.

“Ha ragione, Mrs. Hudson. Del resto non abbiamo motivo di preoccuparci, se c’è qualcuno che sa badare a sé stesso è Sherlock.” Ci rifletto meglio. “Più o meno”, aggiungo.
 
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere.

 
*

 
Il locale è affollato, quasi tutto lo Yard sembra essere qui per festeggiare, la birra corre e qualcuno è già passato al whisky e al gin. Mi muovo da un gruppo all’altro, sono uno dei migliori amici del festeggiato e mi sento in dovere di aiutarlo a fare gli onori di casa. Sono contento che Mary abbia deciso di non venire perché era molto stanca, domani mattina dovrà alzarsi all’alba e in questa confusione di persone a lei in gran parte sconosciute non sarei potuto starle accanto.
 
Ok, sono contento che abbia deciso di rimanere a casa anche per un’altra serie di altri motivi che non ho intenzione di analizzare al momento – sto cominciando ad essere stanco di questo dover continuamente riflettere sui perché e i per come del nostro rapporto.
 
Niente pensieri complicati stasera, sono qui, tra amici, con una birra in mano e Greg festeggia i suoi cinquant’anni, un traguardo che incredibilmente non sento più così lontano. La serata è già decollata da un po’ e io sto ridendo insieme a un gruppo di agenti della scientifica quando lo vedo. Vicino all’ingresso, sciarpa e cappotto, occhi impassibili che studiano rapidamente la situazione, sorriso teso e di circostanza.
 
Sono passati dieci giorni da quando mi ha scritto che dopo una settimana sarebbe tornato dalla Romania. Dieci giorni in cui ho aspettato un messaggio, una chiamata, un segnale, qualcosa. E adesso che lo ritrovo qui, in questa situazione di festa e confusione così lontana dalla tranquillità casalinga che un tempo era la nostra quotidianità, per la prima volta non riesco a negare la distanza che questi ultimi mesi hanno creato fra di noi, e finalmente ammetto di avere paura. Paura che sia successo qualcosa di irreversibile, paura di averlo perso senza nemmeno sapere se l’ho mai avuto.

Per un orribile attimo, mentre osservo il suo sguardo immobile e i suoi lineamenti controllati, ho l’angosciante sensazione di non averlo mai conosciuto davvero, di aver sognato tutto la confidenza, l’intimità, le risate, la fiducia … l’affetto che c’è stato fra noi.

E improvvisamente nulla mi sembra più abbastanza per allontanare questo opprimente velo di malinconia – nostalgia, rimpianto- che accompagna tutte le mie giornate. Non è sufficiente Mary che mi aspetta a casa con un sorriso rassicurante e spera di realizzare presto un sogno che forse non è il mio, non sono sufficienti gli amici che mi circondano anche questa sera, in questa atmosfera di festa.

Lo vedo procedere, salutare con frasi brevi, espressioni appena accennate (sono ancora in grado di leggere le sue espressioni?), raggiungere Greg più o meno nel momento in cui io raggiungo lui – e facciamo appena in tempo a scambiarci un breve sguardo prima che un festeggiato leggermente brillo lo stritoli in un abbraccio entusiasta, mentre lui storce il naso indignato. In un altro momento avrei trovato la scena divertente o forse anche tenera, al momento è tutto sfocato, tutto pesante, tutto… diverso.

Una volta libero Sherlock si limita a un cenno della testa nella mia direzione – lo stesso cenno fatto a chissà quante altre persone questa sera, e io non so cosa mi faccia più male, se la sua indifferenza (non gli manco, è evidente che non gli manco, lo vede Mrs. Husdon?) o il fatto che anche in questa situazione assurda e distorta io continui a trovarlo l’essere più incredibile della terra. Incredibile, geniale, sorprendente, unico… bellissimo.

Lo trovo anche bellissimo, e questo davvero non ha senso perché io non sono gay, non mi è mai interessato un uomo e non sono un represso benpensante quindi so quello che dico. Ma il mio legame con Sherlock in qualche modo va al di là delle categorie e a un certo punto, anni fa, mi sono reso conto che lo vedevo così. Bellissimo.

Non so da quando, forse da prima di Moriarty,  sicuramente da dopo –o forse è solo che dopo negarlo mi sembrava un’idiozia. Ed è stata un’ammissione semplice perché priva di conseguenze: a Sherlock non interessano queste cose, non è la sua area, e io non ho mai avuto motivo di pormi domande rispetto a quello che avrei dovuto fare. Semplicemente non c’era nulla da fare e io non sono tipo da meditare in castità sulla mia presunta attrazione per qualcuno che non si interesserà mai a me nello stesso modo. Soprattutto quando questo qualcuno è comunque e sempre accanto a me – e solo a me.
 
Ma le cose hanno preso una piega diversa negli ultimi mesi, forse fin da quando mi sono trasferito o forse da poco prima, dal giorno in cui mi sono reso conto che non l’avrei più avuto intorno in ogni momento e il pensiero della sua assenza fisica mi ha colpito come un cazzotto. Mesi di lontananza e di dubbi sembrano non aver fatto altro che peggiorare questa sensazione (“Sono solo reazioni chimiche, John”, mi direbbe lui), e adesso che è qui a pochi metri da me darei qualunque cosa per toccarlo – nulla di sessuale, no, ma qualcosa che mi faccia sentire senza ombra di dubbio che è qui, che posso ancora raggiungerlo, che…
 
Passo il resto della serata al suo fianco, non posso farne a meno, lui quasi sembra non farci caso ma ogni volta che si muove per spostarsi in giro per il locale lancia una breve occhiata nella mia direzione. E vorrei dire che questo mi basta, ma non è così.
 
Vedo che ascolta con attenzione gli Yards che parlano di alcuni degli ultimi casi (quindi è per questo che sei qui, Sherlock?), racconta con frasi concise ed essenziali alcune indagini di cui si è occupato nell’ultimo mese, accenna a una prossima partenza, destinazione Turchia (di nuovo, Sherlock? Di nuovo??).
 
Quando, dopo poco più di un’ora, mi rendo conto che sta per andare via  per un momento mi manca l’aria al pensiero che sto di nuovo per salutarlo, senza sapere per quanto, senza avere visto nemmeno un’ombra di tutto quello che siamo stati. Quindi prendo una decisione impulsiva, incoerente (sbagliata?), e lo fermo mettendogli una mano sul braccio.
 
“Pensavo giusto di andare anche io”, dico ostentando una tranquillità che non sento, “saluto Greg e facciamo un pezzo di strada insieme.”
 
Per un attimo ho come l’impressione di vederlo irrigidirsi ma nel caos del locale è tutto molto confuso, e il tono di Sherlock è neutro quando mi risponde “Ti aspetto fuori”.
 
  
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