Don’t
mess with me
(I’ve
made your misery my goal)
Da che Francis
ricordasse, quella stanza era l’unica che
trovava veramente affascinante in quell’enorme casa: il
soffitto altissimo si
confondeva nel bianco sporco delle pareti, mentre la stanza dal
pavimento di
legno, praticamente vuota lasciava all’ambiente
l’aria che necessitava. Le
grandissime vetrate di fronte a lui rendevano giustizia al pessimo
tempo della
campagna inglese, mentre le nuvole grigie si addensavano chiare ed una
sottilissima pioggia bagnava le finestre ad arco, racchiuse da
bellissimi
rampicanti.
Non
c’era bisogno di sforzarsi per Francis nel ricordare la
bella Elisabetta seduta sulla piccola poltrona verde, a bere, mentre la
sua
nazione suonava, all’angolo della stanza, un rudimentale
violino, ingentilendo
le canzoni che i suoi scagnozzi inventavano per mare, mentre lei rideva
incontrollata, battendo le mani senza produrre alcun rumore, lo
schiocco
soffocato dai lunghi guanti bianchi.
Nonostante le tante ristrutturazioni quella camera nel
profondo non era
cambiata poi tanto: il pavimento adesso era di un legno più
chiaro, le finestre
di un vetro nuovo, all’angolo della stanza uno dei primi
pianoforti prendeva
polvere inutilizzato.
Arthur
sedeva controluce, sulla stessa poltrona che
Elisabetta usava utilizzare, era in silenzio, mentre fissava oltre la
vetrata
quello che a Francis apparve come il vuoto.
Nella loro
lunga storia insieme, da amici, avversari,
alleati, amanti, aveva visto passare qualsiasi emozione sul volto
dell’inglese,
compresa quella di stordito dolore che indossava in quel momento.
Francis
camminò nel silenzio tombale nella stanza, mentre il
rumore dei tacchi dei suoi stivali rimbombava nella stanza vuota,
dall’altra
parte la pioggia improvvisamente cominciò ad abbattersi
contro il vetro con più
forza.
Arthur mosse il
capo per guardare i vetri opachi, mentre si
portava distrattamente il bicchiere alle labbra, sorseggiando un
liquido chiaro
nel bicchiere di cristallo. Francis passò oltre la sua
figura dandogli le
spalle, incedendo piano verso la finestra, fermandosi a guardare tra le
gocce
il paesaggio con quel verde bottiglia sconfinato. Il rumore del secondo
bicchiere che veniva riempito fece voltare Francis, che si diresse a
passo
lento verso la seconda poltrona, sedendosi di fronte ad Arthur,
guardandolo
mentre con la solita meticolosità metteva il liquido nel
bicchiere. Non c’erano
i soliti camerieri, non c’era Scozia ad aggirarsi come un
falco per la casa,
oppure Irlanda, intenta a fare strani scherzi. Nella totale solitudine
Arthur
che l’aveva chiamato lì non aveva ancora detto una
parola, ma in quel momento
lo guardava con due occhi quasi spiritati, mentre il viso ridava
quell’espressione di muta sconfitta.
Francis
mimò un brindisi, mentre si portava alle labbra il
bicchiere, mentre saggiava un fortissimo scotch, guardando
l’altro appena
confuso.
“Lo
scotch delle cinque?” disse allora rompendo il silenzio
della stanza, mentre un tuono sferzava l’aria. Arthur che lo
guardava spostò
lentamente il viso verso le vetrate, un altro bagliore invase la
stanza, mentre
i gesti lenti di Arthur apparvero per la prima volta al francese come
del tutto
innaturali.
“Come
mai sei da solo Arthur?” chiese allora quasi per
circostanza, senza rimanere a pensare più di tanto a quello
che diceva. Arthur
si portò per l’ennesima volta il
bicchiere alle labbra, Francis sospirò sulle labbra rosa
dell’altro, mentre lo
sguardo cadeva sulla camicia leggermente slacciata, mentre
l’umido della calura
estiva inglese lo coglieva impreparato. Da quanto tempo non apriva
quella
stanza?
“Non
volevo confusione in casa” disse laconicamente
l’inglese, con la voce di chi era rimasto in silenzio per
tanto tempo. Francis
annuì, mentre lo osservava rendendosi conto che in
realtà l’altro non guardava
lui nonostante lo stesse fissando da parecchio tempo. “E come
mai non nella tua
capitale?” cominciò Francis, mentre il vuoto di
quegli occhi verdi si spostava
di nuovo sulle finestre. “Ho sentito che
c’è parecchia confusione a Londra”
aggiunse cauto mentre l’altro annuiva, appoggiando il
bicchiere alle labbra
senza bere, tornando a guardarlo immediatamente, mentre un brivido
caldo
correva lungo la schiena del francese.
“C’è molto più caos a
Parigi” disse
Arthur guardandolo ancora, mentre Francis annuiva ancora, fissando la
stanza
vuota.
“Perché
mi hai voluto qui con tanta precipitazione Arthur?”
chiese il francese mentre si alzava spazientito da
quell’assurda immobilità.
“Pensavo
che dopo quello che è successo sarebbero passati
secoli prima di un nostro fortuito incontro” aggiunse poi
studiandolo, la voce
soffice, il tono impostato. Al di là dei convenevoli, la
discussione politica,
il braccio di ferro, il pathos che cominciava, Francis lo sentiva
nell’aria. La
drammaticità di un secondo, il salto prima del fulmine e poi
lo squarcio, che
arrivò sul serio, ma non dal fragore del tuono, ma dalle
lame terribili dei due
occhi verdi che si era voltati, irati, contro di lui. Sottopelle quei
due
pugnali lo eccitavano, lo stordivano, ma così, di fronte a
lui, gli davano la
sensazione di essere sul punto di contrastare una frana a mani nude. E
più o
meno era quello che era successo dal primo momento in cui avevano
deciso che,
oltre ad essere nemici, dovevano essere anche amanti, come se fossero
le facce
di una stessa medaglia, le due cose.
“Mi
sono dovuto inginocchiare” ed
eccolo lì, il primo sassolino che cadeva, facendo un
boato assurdo. Francis avrebbe voluto dire che sì, lo aveva
vissuto anche lui
quel momento, era lì presente quando quello scontro era
finito.
Lui era stato
lì, contro il nemico di sempre. Ed Arthur
adesso lo guardava come se in quegli occhi fosse racchiusa la rabbia di
tutto
un popolo.
“Non
puoi darmi colpe che non ho Arthùr, non è la
prima
volta che perdi contro il sottoscritto” Francis non sapeva se
per la frase o
per la pronuncia storpiata del suo nome, ma aveva visto un altro lampo
di
fastidio negli occhi dell’altro e la cosa non gli era
piaciuta. “Ti avevo pregato
di restarne fuori Francis, lo avevo fatto come uomo” Arthur
aveva ripreso il
controllo della sua voce, in modo che tutte le parole pronte ad uscire
dalla
sua bocca non sembrassero acuminate come la punta di un coltello.
“Come uomo ti avevo pregato di non bruciare Jeanne”
Francis invece si era
inscurito, come se fosse una discussione che aveva previsto e per
questo lo
deludeva. Arthur dopo aver buttato giù l’ultimo
sorso di scotch si alzò,
affiancandolo nel guardare la pioggia.
Era comico come
per tutte le discussioni stupide arrivassero
ad azzuffarsi e come per le tragedie stringessero i pugni e
mantenessero tutta
la rabbia stretta tra le dita.
“Dì
la verità, io ti conosco da sempre, l’ho vista
quell’espressione malefica Francis, l’ho visto come
hai goduto, quando lui è
andato via e mi ha lasciato nel fango…nel fango,
Francis!” ed il francese
scoppiò in una risata controllata mentre gli si metteva di
fronte, guardandolo.
“Mon chere, in quel momento non avevi occhi per
guardarmi” rispose allora con
la voce nervosa di chi si stava alterando, di chi era sul punto di
urlare. “Non
sono spregevole come te” continuò, guardandolo.
“Piansi anche io sul suo rogo,
idiota di un francese, piansi anche io perché non potevo
evitarlo!” il francese
gli diede le spalle mentre camminava con fare stizzito per la stanza.
“Oh, lo
ricordo bene Artùr, quella scena è
l’incubo che mi tormenta tutte le notti… ma
smettila di parlare di Jeanne e dimmi perché mi hai voluto
qui!” disse il
francese sempre più stizzito, senza sapere il motivo
preciso. Lo avvertiva
nell’aria che c’era qualcosa che non funzionava,
non ancora.
“Se
n’è andato Francis, non esiste più
né il porto sicuro,
né la nostra casa…” cominciò
guardandolo, mentre si avvicinava con fare
sconfitto, appoggiando la fronte alla sua schiena, chiudendo gli occhi
verdi
mentre il Francese sospirava.
“Non
credevo che volessi conforto, non da me” disse allora il
francese, mentre si girava, accogliendolo sul suo petto, appoggiandogli
le mani
alla vita sottile, smagrita, ancora.
Arthur si
lasciò stringere, si lasciò coccolare, si
lasciò
toccare con quell’intimità che Francis credeva gli
sarebbe stata negata quasi
in eterno. Francis fissò gli occhi smeraldo, mentre
l’altro gli passava una
mano sciogliendogli i capelli doro dal codino, lasciandoli cadere sulle
spalle.
“Non ho bisogno di conforto, non ti ho chiamato per
questo” disse l’inglese
allora, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Prendo di
nuovo il mare, verso
le colonie, verso l’Impero” disse serio, il
francese sorrise ancora. “Oh, con
la bella divisa blu da capito della marina, potresti sfidare la tua
versione da
pirata” ma Arthur lo zittì con una mano,
sporgendosi verso di lui. “Oh, ora ho
capito, volevi il tuo addio, mio marinaio…” ma
mentre Francis sdrammatizzava
Arthur lo guardava vuoto ancora.
“Mi
hai spezzato il cuore” disse inspiegabilmente, mentre
gli tirava indietro i capelli chiari, baciandolo con forza, con un
impeto tale
da costringere Francis a sottostare, chiudendo gli occhi, reggendolo
per le
spalle.
Fu
l’ennesimo scontro tra loro, tra mani che scomparivano in
lente carezze , bocche che si cercavano fameliche, gli occhi di Arthur
improvvisamente aperti mentre guardavano i suoi. “Prima di
andare via passavo
nella nostra casa e poi andavo per mare” Francis vide i suoi
occhi cambiare,
l’espressione mutava, mentre gli tirava con forza i capelli
all’indietro
facendolo gemere di dolore, mentre l’aria si faceva luminosa,
mentre quel
dannato sguardo da bucaniere gli entrava negli occhi, rendendolo
malefico.
“Tu
hai i suoi stessi occhi” e mentre Arthur
lo abbandonava e gli dava le spalle Francis
sentì il respiro saltare, il cuore pompare troppo
velocemente, le gambe tremare
per un solo secondo, prima di capire. Non lo aveva chiamato per essere
consolato, lo voleva punire, rendendolo un rimpiazzo. Lo sapeva
benissimo
Francis, che sotto tutti i finti panni da perbenista, ad Arthur piaceva
giocare
alla vendetta e lo aveva colpito lì nell’orgoglio,
in quella parte di cuore a
cui più teneva ancora una volta, pur di sottometterlo alle
sue parole.
“Non
credevo che potessi essere così…” ma
l’inglese lo
interrusse ancora, ridendo, mentre lo sguardo non mutava, folle ed
inferocito
come lo conosceva da tempo. “Oh Francis io sono molto peggio,
peggio di così!”
disse stringendo le mani. “Non ho più niente da
proteggere adesso, non ho del
bene da cui tornare” disse umiliandolo ancora una volta.
“Vai a dire a tutta Europa
di non intralciarmi Francis, perché ho intenzione di fare
guerra a tutti quelli
che mi si mettono contro, soprattutto a te, mon petit amour” e
Francis
provò un moto di disprezzo per come Arthur aveva
osato infangare il modo scherzoso in cui lo faceva innervosire da
secoli.
“E’
una prova d’amore, no?” chiese
all’improvviso
l’Inghilterra, lanciandogli uno sguardo di fuoco.
“Volevi che ti facessi vedere
che ti amo anche io, Francis?” gli chiese quasi isterico, con
la faccia di una
persona che non sapeva nemmeno cosa stava dicendo.
“Le
persone che amiamo sono quelle che ci feriscono di più
quando ci fanno male” continuò tranquillizzando il
volto ed il respiro. “Era
così che dicevi…beh, fatti due conti”
disse dandogli le spalle, mentre il
francese, anzi, la Francia guardava quella schiena con lo sguardo opaco
di chi
aveva avuto una rivelazione nel momento sbagliato.
“Non
è stata colpa di nessuno di noi Arthur, soltanto
tua”
aggiunse con la voce grave e bassa di chi annunciava qualcosa di
triste,
l’inglese con una manata fece cadere la bottiglia di scotch
con i bicchieri a
terra, creando il boato dei cristalli che venne seguito dal boato della
pioggia
che ormai violenta si abbatteva sulle vetrate. Lo sfogo momentaneo di
una
tempesta estiva, mentre la calura si alzava attorno a loro.
“Sì
è stata colpa dell’Inghilterra” disse
mentre si voltava
a guardare quei cocci a terra, senza muoversi assolutamente per
raccoglierli,
mentre lo scotch rimasto nella bottiglia si allungava sul pavimento,
tra i
pezzi di vetro dei bicchieri.
“Metà
delle cicatrici che ho addosso me le hai fatte tu”
disse all’improvviso Arthur senza alzare il viso per
guardarlo. “Tantissime
altre ne ho avute mentre cercavo di proteggerlo, da te, da Spagna, da
Olanda o
da chicchessia” la smorfia che gli attraversò le
labbra indicò che era sul
punto di scoppiare. Francis guardò a terra, mentre capiva
che quel cieco dolore
che si portava dentro si sarebbe risoluto soltanto nella desolazione
più
disarmante.
Non ci poteva
essere salvezza quella volta.
“Le
ho viste poi le risatine malefiche, i commenti
divertiti, voi del continente sapete diventare piuttosto uniti quando
c’è da
complottare contro il sottoscritto” disse Arthur sospirando
una risatina
nervosa. “Il leone che ha perso i denti” aggiunse
mettendosi a ridere. “Sto
citando letteralmente i sussurri che mi sono arrivati alle spalle,
vorrei
capire come si fa ad essere così
stupidi…” Francis scosse il capo come se
stesse sentendo qualcuno che delirava.
“Stai
scappando Arthur, scappi allontanando tutto e tutti,
anche me, perché hai paura, paura che qualcuno capisca il
vuoto in cui sei
caduto” l’inglese trattenne il fiato ma non si
scompose, girandosi per
guardarlo negli occhi.
“Da
oggi in poi il mondo sarà diverso” lo guardava
come se
lo stesse implorando di credergli, di rendergli giustizia, di andare
via
spaventato. “Non puoi pretendere di comportarti da nazione,
se mentre
l’Inghilterra è in piedi, è
l’uomo che sta marcendo, ed è l’uomo che
medita
vendetta” ma Arthur non lo seguiva più.
“L’Inghilterra
diventerà ancora più grande, che voi bambocci
lo vogliate o no” concluse, ma Francis non voleva
più ascoltare, si era girato,
andando a passo veloce fuori dalla stanza, mentre Arthur si era
riseduto sulla
poltrone, rigido come una statua a fissare i cocci di vetro e
cristallo.
Francis avrebbe
voluto essere spaventato, avrebbe voluto
credere che stesse solo delirando. Su una cosa Arthur aveva ragione,
loro
continentali erano stupidi a crederlo ferito a morte.
Il leone era
vivo accanto a loro e puntava dritto sulla gola
di chiunque gli si fosse messo davanti.
L’assenza
di Francis non si era fatta notare subito.
Arthur si era alzato a prendere un’altra bottiglia ed una
delle sue vecchie
carte navali.
Quale mare
avrebbe solcato per primo?
Non lo sapeva
ma un sospiro di sollievo gli si aprì nel
petto non appena pensò alle tempeste, al rumore delle onde,
agli ordini gridati
ai marinai, alla bellezza dell’avvistare terra dopo mesi di
blu profondo.
Sì,
avrebbero governato i mari. Se lo sarebbe tirato fuori
dalla testa a suon di cannoni, canzoni di mare e schioppettate.
Così
come era prima di lui, così sarebbe stato.
“Ti
piacerà, Elisabeth”
commentò soltanto, segnando linee immaginarie
sulla cartina.
Note finali: Ciao a
tutti, scusatemi se sono caduta un po’
nell’OOC, ma a volte alcune rappresentazioni di Inghilterra
mi danno sul
nervoso che qui volevo renderlo un po’ più
minaccioso, che poi come al solito l’ho
reso un personaggio folle, non saprei che dire!
Personalmente
io sono per la coppia FrXUk ma non odio
affatto la USXUK (trovo abbastanza stupido poi, lottare per coppie)
quindi
nonostante qualche dichiarazione di Arthur vedetela come vi pare,
almeno questa
qui, che è l’inizio. Non so se questa serie
sarà Shonen ai e non so di quante
parti sarà fatta, suppongo al massimo di altre tre one shot.
Il simbolo
dell’Inghilterra è il leone, anche se non
è il
solo, mi sembrava adatto per Arthur, dalla prossima storia si
vedrà davvero
attivo e meno folle. Mi rendo conto di aver fatto una cosa troppo
seria, ma
ahimè, io sono una che di spiritoso sa scrivere poco, ma se
la cava meglio sul
triste.
Mi dispiace aver messo
pochissimi riferimenti storici, ma ne
farete indigestione presto, non preoccupatevi. Il titolo di questa
storia viene
da una canzone omonima, ed ammetto che l’ispirazione
è venuta vedendo uno dei
video su Arthur pirata accoppiato a questa canzone…spero vi
sia piaciuta, in
tutti i casi spero di rifarmi alla prossima!