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Autore: DraconiaMalfoy    08/05/2012    3 recensioni
Non tutti i giorni ci si può svegliare ridendo…, scrissi quel suo silenzioso pensiero sui vetri della finestra, macchiati dalla pioggia che scendeva dal cielo plumbeo.
Il freddo m’intorpidì piedi nudi e strizzai le palpebre, irritata dal formicolio che risalì lungo le mie caviglie.
Mi umettai le labbra con la lingua: avevo la bocca asciutta. Per bere avrei dovuto chiedere, ma erano diciassette giorni che non parlavo. Quasi mi era dimenticata che suono avesse la mia voce… Stavo combattendo una battaglia, che in realtà avevo già perso: prigioniera in casa mia.
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Mio padre
 
Non tutti i giorni ci si può svegliare ridendo…, scrissi quel suo silenzioso pensiero sui vetri della finestra, macchiati dalla pioggia che scendeva dal cielo plumbeo.
Il freddo m’intorpidì piedi nudi e strizzai le palpebre, irritata dal formicolio che risalì lungo le mie caviglie.
Mi umettai le labbra con la lingua: avevo la bocca asciutta. Per bere avrei dovuto chiedere, ma erano diciassette giorni che non parlavo. Quasi mi era dimenticata che suono avesse la mia voce… Stavo combattendo una battaglia, che in realtà avevo già perso: prigioniera in casa mia.
Mi strinsi il cardigan grigio chiaro al petto: l’ennesimo dei miei abiti larghi.
Aspettavo un bambino, ed avevo quasi perso una taglia.
Perso. Non preso.
Piegai le labbra in un sorriso amaro.
Sciopero della parola. Sciopero della fame. Sciopero del sonno.
Servirà mai a qualcosa, tutto questo?,pensai, guardando tristemente fuori dalla finestra.
Erano circa quattrocentootto ore che non vedevo il viso di mio figlio, ma lasciandomi guidare dall’immaginazione avrei potuto disegnarlo sul vetro, tanto mi era impresso nella mente.
Mi accorsi di star piangendo quando una lacrima bagnò le mie labbra.
Un rumore sordo mi accarezzò la schiena dritta: avevano bussato alla porta. Quel semplice suono mi riportò alla mente i pianti disperati del mio bambino, mentre mi pregava di farlo entrare. Avevo condiviso il suo dolore, intrecciando le mie grida a quelle di Jonathan, ma non era valso a nulla…
Il suono si ripeté, ma quella volta fu più breve e conciso.
Sta’ per entrare.
Lentamente raggiunsi il letto. Senza mai poggiare tutto il peso della gamba, e del corpo, sul tallone, ma solo sull’avampiede.
Le mie labbra si arricciarono per un attimo. Il comportamento di un uomo tendeva a divenire, a dir poco, imprevedibile in una situazione come la mia…
Mi sentivo sciocca, inutile, ma stranamente viva.
Mi sedetti sul materasso, ma questi non cigolò, sorprendendomi. Il letto cigolava sempre. Mi chiesi quanto potessi essere dimagrita. Quasi con timore posai le mie mani sotto lo sguardo attento dei miei occhi stanchi.
Tremava. Fu questa la prima cosa che notai di quell’agglomerato di pelle, quasi flaccida e grigiastra, che ricopriva le mie ossa fragili.
Attorcigliai i piedi nella coperta, ricordandomi di come la mia epidermide avesse avuto la sua stessa consistenza, un giorno. Che mi sembrava tanto lontano…
Non dissi nulla, ma bastò quell’Avanti, pronunciato nella mia mente per permettere alla porta di aprirsi cigolando.
I capelli chiari di mio padre, quasi bianchi, abbagliarono i miei occhi, riflettendo la luce della abat-jour.
Deglutii rumorosamente, in attesa.
Quegli occhi grigi, crudeli, saettarono velocemente verso i miei, immergendovisi prepotentemente. «Ben svegliata», sibilò, provando a far assumere alla sua voce un tono dolce, che mai gli era appartenuto, e mai lo avrebbe fatto. «Sono passato un’ora fa», continuò, muovendo un passo all’interno della stanza, mentre con un braccio teneva in perfetto equilibrio un vassoio.
«Ma dormivi e ho preferito non svegliarti… So quanto sia difficile per te dormire in questi giorni», concluse, poggiando il vassoio sul comodino accanto al letto. I piatti al suo interno tremolarono un poco, e la sostanza liquida all’interno della tazza dalla larga circonferenza si erse lungo i bordi lisci, poi si omogeneizzò al suo interno. Non vi erano posate accanto, come al solito, pensai, con una punta di sarcasmo. Mi chiesi allora se avessi dovuto berla, oppure lapparla come una bestia. Ghignai, forse avrei dovuto farlo piegata a carponi sul pavimento mentre mi fotteva con foga…
«Se mangiassi staresti meglio», le sue parole erano acute e gracchianti, simili ad un distorto sussurro gentile, ma anche ad un ordine, chiaro e conciso: Mangia.
E per la priva volta, dopo tanti anni, eri riuscita a rispondere “no”, lasciando ai miei occhi, unici portavoci del mio volere, il compito di scandire con lettere perfettamente udibili quel semplice monosillabo.
Accolse quel silenzio ostile, come un contorto segno d’assenso, e si sedette sul letto. Si porse leggermente in avanti qual tanto che bastava per capire tra le dita lunghe la ciotola. Non appena i suoi polpastrelli sfiorarono la scodella, un lungo cucchiaio d’argento apparve fra le sue falangi pallide, come per magia. Strizzai gli occhi, forse stavo davvero impazzendo…
Repressi un mugolio disgustato non appena avvertii l’argento freddo scontrarsi con le mie labbra, e subito dopo con i miei denti, nel vano tentativo di farmi schiudere la bocca.
«Apri!», abbaiò, mentre il suo volto cominciava ad acquisire una colorazione vermiglia. Fulmineamente mi artigliò il mento con le dita, aprendomi forzatamente la bocca. Mi ritrassi, sfuggendo da quella presa prepotente e dolorosa, ed i suoi occhi vennero accecati dalla furia.
Lanciò in aria la scodella, che compì una breve parabola e poi si scontrò con il pavimento. «Perché mi stai facendo questo?!».
Lessi perfino un velo di disperazione in quegli occhi grigi, faceva capolino da dietro quella furia incontrollata. Mi chiesi se quella che avessi visto, in realtà, non fosse solamente la mia, ma riflessa in quelle iridi così simili alle mie.
«Mangia o ti ammazzo!», latrò, portandosi una mano all’altezza del capo. Seguii la traiettoria disegnata da quel braccio: collimava con il mio volto.
Socchiusi le palpebre, e mentre stava per colpirmi, qualcosa dentro di me esplose: «Ammazzami allora!», urlai con la gola che ardeva per lo sforzo. «Così ammazzerai anche tua figlia!», gridai, ed il doppio senso di quelle ultime parole lo ferì più di qualsiasi dolore fisico. Boccheggiò per qualche attimo prima di infilarsi le mani fra i capelli. «Sta’ Zitta! ZITTA!», tuonò, scuotendo il capo, prima di chiudersi sonoramente la porta alle spalle.
***
I frammenti dello specchio giacevano ovunque: sul pavimento, nel lavandino, qualcuno aveva persino raggiunto il piatto umido della doccia.
Con lo sguardo basso ne carpii uno fra le mani, lasciai che quel frantume riflettesse la mia gola pallida, mentre piegavo il braccio sinistro, sfiorandomi l’orecchio con le dita.
Posizionai la punta affilata all’altezza del suo gomito, e poi risalii con un gesto deciso verso l’alto. Il sangue zampillò improvvisamente: schizzando ovunque.
Scorse velocemente lungo tutto il mio braccio, sino a gocciolare sul mio fianco nudo e scendere lungo la mia coscia, accanto al mio piede si formò una piccola pozza vermiglia, che s’ingrossava velocemente.
Avevo reciso un’arteria.
Mentre il mio corpo veniva macchiato con rapidità da quella vernice rossa, mi passai una mano sul ventre, pulendolo.
Nella mia mente baluginarono diversi ricordi…
Avevo pianto per tutto il tempo la prima volta, mentre mio padre mi prendeva da dietro, ansimando contro il mio collo: temendo di svegliare mia madre, nella stanza accanto.
Da allora le lacrime rigavano velocemente il mio volto, ogni volta che udivo le molle del mio letto gracchiare, quando di notte, al mio s’aggiungeva anche il suo peso…
Con gli occhi lucidi posizionai la punta affilata su quella cicatrice già segnata, provocata undici anni prima dalla nascita del mio primo figlio.
Premetti. Quasi con rabbia. E qualche goccia di sangue fuoriuscì dal piccolo taglio inflitto. Mi sarei strappata via quel bambino dal ventre. Da sola. Non volevo dare un altro figlio a quel mostro…
In quell’istante la porta del bagno si spalancò ed in un frammento di specchio, riuscii a scorgere il volto di mio padre, colmo di un allarmismo totale, talmente grande da farlo impallidire.
«CHE CAZZO FAI?!», urlò, strappandomi via il pezzo di specchio dalle dita, gettandolo poi lontano. «SEI IMPAZZITA?!», continuò, fuori di sé, scaraventandomi fuori dalla stanzetta.
S’affrettò a trascinarmi nella mia camera.
Un senso di beatitudine e calore mi avvolsero, non appena delle bende candide carpirono delicatamente il mio corpo, coprendo tutti i tagli, che purtroppo non erano gravi come speravo…
«Perché l’hai fatto?!», singhiozzò.
Le lacrime scorrevano velocemente lungo il suo volto, andando a macchiare la sua camicia. «PERCHÉ?!».
In quelle lacrime riuscii a leggere ciò che da molto tempo era stato negato ai miei occhi. Paura. Che ben presto, però, si tramutò in rabbia. La stessa che trapelava dai suoi occhi.
Serrai la mascella, decisa. «VOGLIO LE MIE MEDICINE!».
«NON LE AVRAI!».
«Allora mi ucciderò… Io ci riuscirò, un giorno o l’altro!».
Nei suoi occhi scorsi l’impotenza che l’affliggeva. «Se te le dessi… Smetteresti di tentare il suicidio?».
Sorrisi. «Me le daresti davvero?!»
Con un balzo lo raggiunsi, e dopo avergli conto il collo con le braccia, premetti le mie labbra sulla sue. «Grazie, grazie, grazie…».
Le sue mani si poggiarono sui miei fianchi. «Non hai niente da offrimi in cambio?», sibilò, con voce maliziosa, premendo le dita sul profilo delle mie natiche nude.
Mi inginocchiai a terra ed avvicinai una mano alla patta dei suoi pantaloni, mentre sulla sua lingua riuscivo già a percepire il sapore dei miei antidepressivi.
Bang!
Il sangue schizzò dal volto e dal petto di mio padre come se fosse stato colpito da una spada invisibile.
 
Barcollò all’indietro, con le braccia afflosciate, poi piombò sul pavimento.
 
Scivolando e barcollando, mi lanciai verso di lui: aveva il viso lucido e rosso, le sue mani bianche raspavano il petto zuppo di sangue.
Mio padre aprì gli occhi, ma li richiuse subito dopo, e solo allora con orrore mi accorsi di come anche il mio corpo fosse sporco di sangue.
Il sangue di mio padre.
Mi voltai, ansimando. «Ma cos…?».
Il volto di mio figlio sembrò illuminare la stanza, e prima che potesse parlare lo abbracciai di slancio, sollevandolo da terra, senza un motivo ben preciso.
Lui ricambiò, stringendo le sue braccia esili e lattee attorno al mio collo, prima di immergervi il viso affilato. «Ora è tutto finito, mamma?».
«Si amore mio, ora è tutto finito», dissi accarezzandogli i capelli, mentre provavo a nascondere il tremore che pervadeva la mia voce.
Incurante di ciò che il mio bambino stringeva fra le dita.
Una pistola.
 
 
  

  
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