Le
mie parole non erano mai bastate. In nessun momento e in nessun
contesto.
La
vedevo mangiarsi le mani e l’intestino in una rabbia senza fine e senza oggetto,
la vedevo contorcersi in spire di odio e di disprezzo, ma per quanto le mie mani
fossero grandi e forti, per quanto le mie braccia avvolgessero il suo corpo, lei
non smetteva mai di tremare. Le sue labbra serrate nascondevano spesso denti
digrignati; la sua mascella era stretta, chiusa in un intreccio di parole di
fuoco.
Simulava
indifferenza o stupore quando le chiedevo se andasse tutto bene, il più delle
volte sorrideva e mi guardava con occhi annebbiati ma fermi. Certo rispondeva e mi voltava le spalle,
continuava a camminare, con il suo passo svelto e palesemente
agitato.
Un
fuoco infernale le bruciava dentro e, per quanto tentasse di dissimularlo con i
suoi modi di fare tranquillizzanti, riluceva in ogni suo
movimento.
Spesso
le avevo chiesto di aprirsi con me, ma lei si era sempre schernita con un
sorriso o con un bacio. Le parlavo, allora, di come alla nostra età fosse
difficile accettarsi, accettare gli altri e la propria incapacità di reagire e
di difendersi. Le spiegavo che io ero al suo fianco e la abbracciavo, ma lei
rimaneva immobile e coerente alla sua parte. Mi baciava il collo e sussurrava tutto va bene, sei tu quello
nervoso.
Ogni
tanto veniva a casa mia e mi mostrava i suoi disegni. Diceva che solamente
guardandoli avrei potuto capire tutto quello che c’era da sapere su di lei. Vi
leggevo angoscia ed oppressione, ma non volevo accettare l’idea che una figura
così gracile e così apparentemente delicata provasse emozioni così negative.
Improvvisavo qualche complimento fugace, mi giustificavo dicendo che non ci
capivo niente di arte e che non era assolutamente colpa sua se io non riuscivo a
cogliere il vero significato delle sue opere d’arte.
Le
mie parole erano troppo deludenti, probabilmente, perché dopo qualche tempo
smise di portarmi i suoi quadri e smise di chiedermi che cosa ne pensassi. Non
smise, tuttavia, di venire a casa mia. Passavamo lunghe giornate sul divano di
camera mia a chiederci che cosa desiderare dal futuro. Spesso si perdeva nei
suoi pensieri e ammutoliva. In quei momenti i suoi occhi riflettevano la sua
anima e io potevo leggervi tutto lo scontento e la disillusione che aveva sempre
tentato di nascondere. Anch’io smettevo di parlare e il silenzio, prolungandosi
nei minuti ed adagiandosi sui nostri corpi e sugli oggetti, iniziava a pesare
tanto da distoglierla dalle sue riflessioni e da spingerla a riaccendere la
discussione.
Non
era mai onesta con me, ogni volta che le facevo una qualunque domanda lei mi
mentiva, spesso spudoratamente. Probabilmente per non lasciar trasparire nemmeno
un minimo aspetto della sua vita. Accettavo queste sue menzogne e queste sue
reticenze nella speranza che la mia pazienza la inducesse a fidarsi di me e a
rendermi parte della sua vera vita. Era come se il tempo che passava con me
fosse una pausa dalla sua realtà, come se io fossi il pretesto per
l’evasione.
Non
ero mai andato a casa sua, non mi parlava nemmeno della sua famiglia. Sapevo che
aveva un fratello perché frequentava il nostro stesso liceo, ma non mi aveva mai
permesso di avvicinarmi a lui ed io non avevo mai insistito. Credevo che prima o
poi sarebbe giunto il momento più adatto per le presentazione, esattamente come
credevo che prima o poi il mio amore incontrollato avrebbe abbattuto la barriera
che lei aveva costruito attorno alla sua anima.
Il
giorno del suo diciottesimo compleanno mi disse che a casa le avevano
organizzato una festa, ma che lei non avrebbe partecipato. Mi chiese di scappare
e disse di aver già pronte le valigie, che aspettava solo un mio consenso e che
saremmo andati dovunque avremmo voluto. Fu il giorno in cui la sentii più
sincera e più mia. Vidi nei suoi occhi qualcosa di nuovo, che assomigliava ad
una consueta e indomabile tristezza. Le chiesi il perché di questa decisione, ma
lei, ovviamente, non rispose. Mi prese le mani e disse solo vieni con me, ti prego, ma io non volevo
seguirla. Troppi dubbi mi assalivano, troppe incertezze. Quell’amore che avevo
sentito incrollabile era divenuta fragile come un cristallo e la veemenza con
cui lei mi supplicava di accompagnarla in un viaggio senza scopo e senza fine
stava per infrangerlo definitivamente. Le chiesi di calmarsi e di riflettere su
quello che voleva fare, ma lei non mi voleva ascoltare, non quel giorno. Disse
che non c’erano più parole da dire, che non c’erano più discorsi da fare e che
avrei dovuto essere io, per una volta, ad ascoltarla. Ti fidi di me? mi chiese, e mi spiazzò.
Ero sempre stato io a chiederle di fidarsi di me, di sfogare la sua rabbia e la
sua frustrazione contro di me, in qualunque modo possibile, perché il mio amore
era solido e lei avrebbe dovuto avere cieca fiducia in lui. Ricordando le mie
parole, ricordando la certezza che riponevo in esse, e rendendomi conto di
quanto rapidamente si fosse trasformata in dubbio, non seppi cosa rispondere a
quella sua domanda, così semplice e così spontanea.
Lei
notò la mia incertezza e sorrise, di un sorriso così grande e così splendente da
annebbiarmi i sensi. Disse che andava bene così, che mi capiva, che, d’altronde,
anche lei non avrebbe saputo cosa rispondersi.
Io
restai immobile, fermo nella mia indecisione e nel mio tormento. Avvicinò le sue
labbra alla mia guancia e, prima di abbandonarvi il suo ultimo bacio, mi
sussurrò grazie di tutto, so di non
esserci stata.
Non
ho mai saputo che cosa abbia fatto dopo quel bacio, dove sia andata, chi abbia
incontrato e, soprattutto, dove si sia fermata. Mi è sempre piaciuto pensare che
abbia preso il primo treno per Montréal, la città dei suoi nonni, gli unici
parenti di cui mi avesse parlato. Ho sempre sperato che si fosse sistemata lì,
che avesse terminato la scuola e che avesse realizzato il suo sogno più
evidente: essere libera.
Dalla
sua rabbia, prima di tutto.