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Autore: ermete    08/05/2012    14 recensioni
John e Sherlock hanno litigato, o meglio, John si è arrabbiato con Sherlock e non torna a Baker Street per sette lunghissimi giorni.
DECLAIMER: questi personaggi non mi appartengono ma derivano dalla mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle e dalle perfide e geniali menti di Moffat e Gatiss.
NOTA: è sicuramente ambientata prima di Reichenbach!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Giorno 1

Successe che Sherlock, in preda alla noia più totale, aveva deciso di ficcanasare nei cassetti e nell’armadio di John, ribaltandogli tutti i vestiti, le scarpe e i documenti, sparpagliandoglieli per tutta casa.
Quando John era tornato a casa non poteva crederci, no, perchè finchè Sherlock avesse messo sotto sopra tutto l’appartamento, sparato al muro o messo delle dita nel frigo, poteva ancora sopportarlo. Ma non poteva esistere in alcun modo che, per qualunque motivo e tanto meno per noia, Sherlock potesse mettere le mani tra i suoi oggetti personali e bistrattarli in quel modo.
“Sherlock!” urlò John, seguendo la scia dei maglioni e delle camicie buttate per terra che, come le briciole di pane di Hansel&Gretel, lo guidarono direttamente al luogo del misfatto, il tavolo della cucina, sul quale Sherlock stava analizzando chissà quale sostanza al microscopio.
“Mh? Oh, ciao.” rispose Sherlock tranquillamente, come se nel 221B di Baker Street non si fosse appena scatenato un ciclone e come se non se ne stesse per infuriarne un altro.
John trasalì “Oh ciao? Oh ciao?!” via via che parlava, alzava sempre più il tono di voce: non lo faceva apposta, era la rabbia che lo controllava “Sherlock cosa diavolo ti è saltato in mente? Perchè i miei vestiti sono tutti per terra?”
Sherlock sbuffò, staccandosi svogliatamente dal microscopio “Non urlare, prima di tutto. Ci sento bene.” rispose acidamente, per poi spostare lo sguardo sul pavimento “Un esperimento.”
“Un esperimento?!” strillò John, nuovamente.
Sherlock si esibì in una smorfia di fastidio “Sì, John. Mi annoiavo, così mi sono messo a cercare la tua divisa, ne ho tagliato un pezzettino e mi sono messo ad analizzare la sabbia rimasta incastrata nelle cuciture per capire il livello di acidità e la concentrazione salina...”
Sherlock continuò a parlare, ma John non capì più nulla quando vide la propria divisa a terra, un angolo tagliato, il resto stropicciato contro una delle gambe del tavolo: fu rapidissimo nell’afferrare la maglia dell’altro, arricciandola sotto la presa forte e nervosa del pugno chiuso. Ma mentre il linguaggio del corpo suggeriva rabbia e furore, il tono che uscì dalle labbra tirate di John era risoluto e fin troppo pacato, lo sguardo era così rabbioso che, a confronto, gli occhi color ghiaccio di Sherlock sembravano una pallida pioggia estiva.
“Questa volta hai decisamente esagerato.” lo lasciò andare subito dopo con un’impercettibile spinta, quindi si voltò, sparendo nel soggiorno.
Sherlock fece un enorme sforzo per riprendersi da quello sguardo, il respiro era leggermente accellerato, John gli aveva fatto paura. Un momento, John l’aveva spaventato davvero? Non era possibile. Si alzò, intenzionato a rispondergli per le rime, ma quando vide John raccogliere due jeans e due camicie dal pavimento e buttarle in un sacco di plastica, si mise istintivamente davanti alla porta.
“Che fai?” domandò il detective.
“Se ti sei messo davanti alla porta, vuol dire che l’hai già intuito.” replicò secco John, mentre raccoglieva un maglione che andò a fare compagnia agli altri capi in quella che voleva essere un’improvvisata valigia.
Sherlock scoprì la spiacevole sensazione di rimanere senza parole e il dubbio che sì, forse aveva esagerato.
“John, senti, scusami, lo sai, mi conosci.”
“Non è una buona scusa, Sherlock, conoscerti. Anzi, è un buon motivo per andarmene.” tagliò corto John che proprio in quel momento si parò di fronte al consulente investigativo, l’unico, tanto geniale quanto irritante.
“John...”
“Fuori dai piedi.” sibilò John, e lo fece apposta ad usare quelle precise parole, voleva provare a fargli male anche se era abbastanza sicuro di non riuscirci.
Deduzione sbagliata: Sherlock infatti si scostò meccanicamente, lasciandolo passare. Quelle parole l’avevano effettivamente ferito, parole che solitamente non vogliono dire nulla di particolare, parole non eccessivamente offensive, eppure particolari, perchè erano le parole che non pensava che John gli avrebbe mai rivolto. Perchè erano le parole che non andavano dette, l’antitesi dei complimenti che invece John gli faceva sempre, una frase che sapeva l’avrebbe ferito se pronunciata da lui. L’aveva fatto apposta.
Gli angoli della bocca di Sherlock si inarcarono verso il basso, l’interno delle guance stretto nervosamente tra i denti, lo sguardo che vagava verso il pavimento, i vestiti sparsi per terra.
Tirò sù col naso, si sistemò un riccio ribelle, e si riavvicinò al microscopio: era orgoglioso e neanche con la certezza che ci non fosse nessuno a vederlo avrebbe mostrato il proprio turbamento.
D’altronde, era sicuro che John sarebbe tornato.


Giorno 2

La prima cosa che John fece quando si svegliò, fu accarezzarsi il collo: il divano di Sarah era scomodo come la prima volta in cui ci aveva dormito. Si stropicciò gli occhi con i pugni chiusi, stiracchiandosi finchè non sentì le vertebre cervicali schioccare, provocandogli un piccolissimo accenno di piacere.
Fece colazione con Sarah, la quale, intuendo a grandi linee i motivi del malumore di John, chiese più volte al suo ospite che cosa gli avesse fatto Sherlock questa volta.
John rispose con un sorriso, rimando sul vago “Le solite cose.” non apprezzava l’insistenza di Sarah: lui che solitamente era così discreto con gli altri, si sarebbe aspettato lo stesso trattamento, ma si sforzò di non risponderle acidamente vista la sua continua predispozione ad ospitarlo, anche se avvisata all’ultimo momento.
Andarono al lavoro insieme, iniziando la loro quotidiana routine.

Sherlock rimase sveglio tutta la notte, non che fosse strano per lui, alternando lo sguardo tra Baker Street, poi tra i vestiti di John e posandolo infine sulla porta.
Accolse di buon grado Mrs Hudson che salì nell’appartamento con il vassoio della colazione ed il giornale: ripeteva spesso di non essere la loro governante, ma la verità era che li vedeva come due nipoti ai quali, non potendo dare la paghetta perchè troppo grandi, rivolgeva delle calorose attenzioni come preparare loro la colazione o la cena di tanto in tanto.
“Oh santo cielo, cos’è successo qui miei cari ragazzi?” domandò, dovendo stare molto attenta a non inciampare nei vestiti di John: quando posò il vassoio sul tavolo del soggiorno si accorse però dell’unica presenza di Sherlock nell’appartamento “Il dottore è già uscito per andare al lavoro? Così presto?”
Sherlock sbuffò in tutta risposta, prendendo subito il giornale tra le mani, esitando un impercettibile istante di fronte alle due tazze, ai due cucchiaini, alle due fette di torta, quando in quella circostanza serviva solo una di ciascuna di quelle cose.
“Avete litigato?” domandò la padrona di casa, osservandosi nuovamente attorno “L’ho sentito urlare ieri sera, ma pensavo sarebbe tornato per la notte.” ammise poi, alzando la mano destra sulla nuca di Sherlock, carezzandolo sofficemente.
“Ha fatto una tragedia per un non nulla.” borbottò Sherlock, nascondendosi dietro il giornale.
“Sei stato tu a fare questo ai suoi vestiti?” incalzò Mrs Hudson che s’allontanò dal tavolo, attirata dal luccichio delle medaglie sulla divisa di John “Oh, mio caro ragazzo, cosa hai fatto?”
Sherlock si voltò, osservandola recuperare la divisa da terra e nello sbatterla contro le proprie gambe per spolverarla, potè vedere il pulviscolo volare per l’aria attraversato dai raggi di sole che filtravano dalla finestra: la vide osservare con tristezza il piccolo taglio che aveva fatto nell’angolino destro e non capì il senso di tutta quella malinconia per una stupida divisa.
“Sherlock caro, queste cose non si fanno.”
“Non capisco tutto questo scalpore, è’ solo un abito che non indosserà mai più.” una constatazione, una inconscia speranza.
“Ha un valore affettivo per John, come fai a non capirlo, caro?” il tono di Mrs Hudson era sempre così gentile che Sherlock non poteva risponderle male, quasi mai “E’ come l’abito da sposa per una donna: lo indossa una sola volta, ma lo porterà nell’armadio per sempre. E se avrà una figlia allora lo tramanderà a lei, ma mai e dico mai lo butterà via.”
Sherlock arricciò le labbra, ancora non capiva.
“Come ti sentiresti se John, se proprio il tuo John prendesse il tuo adorato violino e te lo rovinasse? Proprio sapendo quanto ci tieni.” proseguì Mrs Hudson, tornandogli vicino e posandogli una mano sulla spalla.
Sherlock non rispose, ma i suoi ingranaggi, quelli arruggini, quelli che non usava mai, quelli riguardanti l’affetto e quello che ne derivava, cominciarono a girare e fecero un gran rumore nella sua testa, erano unghie su una lavagna, metallo che stride, vetri che si infrangono: scosse la testa, infastidito da tutto quel chiasso.
Raggiunta quella nuova consapevolezza, decise di voler stare solo “Grazie per la colazione, Mrs Hudson.”
La padrona di casa intuì la velata richiesta, quindi, dopo aver poggiato la divisa di John sulla sedia vuota davanti a Sherlock, si avviò verso la porta “Buona giornata, caro.”
Quando rimase nuovamente solo, abbassò il giornale, osservando la sedia vuota di fronte a sè: spostò poi lo sguardo sul proprio cellulare. Avrebbe dovuto scrivergli? Il suo orgoglio diceva di no.


Giorno 3

A metà mattinata John si concesse il suo quinto caffè: nonostante Sarah gli avesse proposto nuovamente il divano, il dottore preferì un afterhour in un locale per veterani di guerra piuttosto che doversi sorbire un altro interrogatorio da parte della collega, ed il risultato era una profonda stanchezza e un riacutizzarsi dell’arrabbiatura nei confronti di Sherlock. Molti dei presenti nel locale, infatti, erano degli ufficiali addestratori che amavano indossare la divisa anche nei momenti di svago e John non potè proprio non pensare al disastro combinato da Sherlock.
John sapeva che sarebbe tornato a casa, ed era sicuro che quella non sarebbe stata l’ultima volta che il coinquilino l’avrebbe fatto arrabbiare, ma voleva concedersi qualche giorno di pausa prima di tornare a conviverci. Era vero, lo conosceva, sapeva come era fatto, conosceva i suoi limiti e la sua totale mancanza di empatia, ma chissà perchè sperava che almeno con lui fosse diverso. Pensava di meritarselo, quantomeno. E proprio perchè Sherlock era tutto fuorchè uno stupido, John esigeva che non si nascondesse sempre dietro alla scusa della sua scarsissima empatia per rimediare ai suoi disastri. Poteva prendere in giro gli altri, ma non lui.
“Che palle.” borbottò tra sè: neanche quando era arrabbiato con lui non poteva fare a meno di pensarlo.

Sherlock passò tutta la giornata col violino sotto il mento, ma neanche per un istante riuscì ad alzare l’archetto fin sopra le corde per produrre un qualsiasi tipo di melodia: osservava fuori dalla finestra, le labbra arricciate in una smorfia infantile, le sopracciglia inarcate al punto da provocargli delle profonde rughe sulla fronte.
Il terzo giorno non disse una parola, non suonò una nota e non bevve neanche un sorso di the.


Giorno 4

Visto che John coprì l’orario notturno in ambulatorio, dormì per buona parte della giornata, in uno degli stanzini allestiti per i medici di turno. Quando si svegliò, a metà pomeriggio, controllò istintivamente il cellulare: nessun messaggio. Chissà perchè ci sperava.

“E’ ridicolo... è veramente ridicolo.” continuava a borbottare Sherlock mentre, al supermercato, si ritrovò costretto a fare un po’ di spesa “Come fa John a farlo tutti i giorni?”
Ringhiava tra una corsia e l’altra, cercando di evitare il più possibile qualsiasi contatto con le casalinghe impegnate a mettere i diversi prodotti nei carrelli, scansando con particolare enfasi le clienti che portavano dei bambini con sè.
Aveva messo ben pochi prodotti dentro al cestino che portava sull’avambraccio ed era fermo da almeno mezzora di fronte all’espositore delle marmellate, scartando le marche che indicavano l’uso di conservanti e additivi chimici con la stessa riluttanza con cui si rivolgeva ad Anderson.
“Abbiamo davvero mangiato questa roba tutti i giorni?”
Dopo un altro quarto d’ora di lamentele rivolte alle marmellate, gli si avvicinò un giovane commesso, che dopo averlo squadrato più volte e cercato di richiamare la sua attenzione con dei modesti “Signore?”, decise di alzare la mano fino a toccargli il braccio.
A quel punto Sherlock rivolse al commesso lo stesso sguardo schifato che prima stava torturando le marmellate, scrollandosi via di dosso la mano che aveva osato toccarlo.
“Non farlo mai più.” in pochissimi avevano il permesso di toccarlo e tra questi non si annoverava nessuno sconosciuto.
“Scusami, è che sei qui fermo da un’ora e pensavo avessi bisogno di aiuto.” s’azzardò il giovane commesso, per poi continuare ad osservare Sherlock con una maliziosa curiosità.
“Senti, non mi interessi ora e non mi interesserai mai, quindi vattene e lasciami solo con le marmellate.” replicò secco il detective, ascoltando con non poco fastidio il tono e i modi confidenziali che il ragazzo s’era permesso di adoperare con lui, intuendo in pochi secondi le reali intenzioni del giovane.
“Guarda che io non volevo provarci con te.” indietreggiò di un passo, chiudendosi sulla difensiva, provando a negare, ma quel suo movimento secco peggiorò la situazione.
Quel movimento infatti, provocò uno spostamento d’aria che raggiunse Sherlock, il quale inspirò con una certa insistenza l’aria proveniente dal commesso, verso il quale alzò alzò un indice accusatore.
“Tu! Sei tu che ti strusci addosso a John lasciandogli addosso il tuo terribile profumo da due soldi! Ecco di chi è quel terribile odore che ha addosso dopo aver fatto la spesa.” mosse un passo verso il giovane commesso, non preoccupandosi minimamente della piazzata che stava inscenando di fronte ad alcune casalinghe curiose.
“Io? Cosa? Non mi struscio su nessuno e abbassa la voce o mi licenzieranno!” indietreggiò di qualche passo, rivolgendogli un’ultima occhiataccia “Sei tutto strano tu. Sarai anche carino, ma sei fuori di testa.”
Sherlock sorrise di fronte a quelle parole che era ormai abituato sentirsi affibbiare: vide il ragazzo scappare con la coda tra le gambe e sentì le signore che avevano assistito alla scena bisbigliare frasi altrettanto offensive. Come quando andava a Scotland Yard e Anderson e Donovan lo schernivano, solo che lì c’era John pronto ad infuriarsi: poi Sherlock lo fermava sempre, perchè non gli importava che l’amico rispondesse loro per le rime, gli bastava sapere che lui si arrabbiava perchè la pensava diversamente, perchè a lui ci teneva e voleva difenderlo per paura che alla lunga potesse soffrire di quelle parole.
Sospirò, quindi lasciò il cestino per terra, in mezzo alla corsia, e uscì dal supermercato senza aver comprato nulla.


Giorno 5

John fu chiamato al Pronto Soccorso: quella mattina infatti, c’erano stati numerosi feriti a causa di un piromane che si divertiva a incendiare benzinai e stazioni di servizio.
Gli capitarono per le mani molti feriti, alcuni con leggere bruciature, altri con ustioni di secondo o terzo grado e gravi problemi respiratori. Le ambulanze sembravano non bastare per quell’emergenza particolare, quindi qualche volante della polizia si unì al trasporto dei feriti: alcuni riconobbero John e chiesero al dottore il motivo per cui non stesse aiutando il suo inseparabile detective.
“Quindi Sherlock Holmes sta lavorando al caso con l’ispettore Lestrade?” domandò ad uno dei due, al quale offrì una tazza di caffè.
“Sì, mi è parso di vederlo assieme a lui. Diciamo che è uno che si fa notare.”
“Già. Siete vicini a prendere questo piromane?”
“Sembravano sulla pista giusta, grazie a Holmes. Ma come mai non è con lui? Non l’aiuta sempre a risolvere i casi?” domandò senza alcuna malizia nel tono.
“Servivo qui in ospedale. Stanno arrivando molti feriti.” glissò John, per poi congedarsi dai due agenti. Prima di tornare ad occuparsi dei feriti però, estrasse il cellulare e digitò velocemente un breve messaggio di testo.
-Stai attento. Le ustioni sono noiose. JW-

Sherlock fu determinante nel rintracciare il piromane che fu consegnato nelle mani di Scotland Yard: era un giovane appena uscito dall’adolescenza che aveva manifestato fin da piccolo dei problemi caratteriali e che riusciva a trovare pace solo osservando il tremolio di una fiamma. Poi la patologia si è trasformata in psicosi e non bastavano più piccoli incendi controllati, ma vere e proprie esplosioni scatenate con l’aiuto della benzina delle stazioni di servizio che aveva preso di mira.
Sherlock potè riconoscerlo ben presto osservando i video delle telecamere a circuito chiuso sparse per Londra: in tutti e tre gli incendi infatti, era presente tra i curiosi e tra i passanti, ed è tipico dei piromani osservare il proprio lavoro da vicino. Una volta individuato, dunque, bastò un controllo incrociato e un breve interrogatorio per farlo confessare.
Dopo aver lasciato l’edificio di Scotland Yard, estrasse il telefono dalla tasca e lesse il messaggio di John, ripetendolo in un sussurro, immaginandolo col tono di voce del dottore, del suo amico.
“Le ustioni sono noiose.” sorrise a quelle parole e si affrettò a fermare un taxi, così come si precipitò sui diciassette gradini del 221B di Baker Street, convinto di trovare John a casa, la rabbia ormai sbollentita, pronto ad accoglierlo di nuovo per come era fatto, difetti compresi, stranezze annesse.
Niente. La luce dell’appartamento era spenta, non c’era nessuno ad aspettarlo. Urlò la sua rabbia scalciando i vestiti che erano ancora per terra, un surrogato di John con cui prendersela.
Poi si fermò: aveva il fiatone e la testa gli girava, probabilmente aveva respirato troppo fumo, forse era stanco, magari gli mancava John. Prese il cellulare e digitò con rabbia un sms.
-Basta. Non fare l’infantile, torna a casa. SH-


Giorno 6

“Hai proprio un bel coraggio, Sherlock Holmes.” John lanciò sul tavolo il cellulare che slittò qualche centimetro in avanti, fermandosi solo grazie ad un giornale che bloccò la sua corsa con un frusciare di pagine.
John era stanco: non dormiva in un letto decente da sei giorni, non vedeva Sherlock da cinque ed in generale si sentiva come uno di quei lupi solitari abbandonati dal branco perchè il maschio alfa non ti vuole tra i piedi.
Poi mugugnò tra sè: aveva forse appena ammesso che Sherlock era il maschio dominante e lui un umano inferiore? No, assolutamente. Che Sherlock avesse una mente superiore era indubbio, ma non si era mai considerato inferiore a lui, si vedeva al suo stesso livello, seppur in modo diverso.
“Sopravvive il più adatto, non il più forte o, in questo caso, il più intelligente.” pensò a voce alta, poggiando le braccia intrecciate sul tavolo e poi il volto sopra di esse, stancamente. Sherlock era sicuramente l’uomo più straordinario che avesse mai conosciuto, ma non era completo: un essere umano è fatto anche di emozioni e lui non sapeva controllarle, quindi non era compiuto, finito, integro. E quel messaggio lo dimostrava: John potè intuire la rabbia dietro a quelle parole, e dietro la rabbia stessa si celava una sorta di disperazione, la paura di restare solo, la paura di aver perso l’unica persona che lo capisse. John aveva intuito tutto questo, perchè il suo istinto era fortemente sviluppato e perchè conosceva Sherlock, ed in quanto animale notevolmente empatico riusciva ad immedesimarsi in lui  e a scoprire, talvolta, le falle della sua corazza logica e analitica. Ma soprattutto perchè John era convinto, e nessuno lo avrebbe persuaso del contrario, che Sherlock non solo avesse un cuore, ma che fosse anche più sensibile di quanto si potesse immaginare: non ci si può nascondere per sempre dentro una corazza, perchè anche il materiale più resistente finisce con l’incrinarsi.
Per questo John, nonostante le straordinarie capacità di Sherlock, non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui: la logica è una scienza che, mentre da un lato ti aiuta a collegare il maggior numero di informazioni possibili, dall’altro ti acciuffa nella sua rete di proposizioni consequenziali impedendoti di rompere gli schemi e affrontare situazioni ambigue che non sottostanno a nessuna regola.
John sospirò con la consapevolezza che si era arreso: sarebbe tornato tornato a casa, ma non quella sera. Si addormentò infatti poco dopo, esausto, sul tavolo della saletta riservata ai medici di turno.

Sherlock stava camminando in quello che sembrava il corridoio di un castello: alzò lo sguardo esaminando con rapide occhiate le pareti stretti ed il soffitto basso. Sembrava tutto a posto, eppure non era convinto.
Fece il primo passo, alzando la mano destra fino a sfiorare la parete vicina al proprio fianco e strinse gli occhi in una smorfia quando constatò che i polpastrelli erano graffiati come se li avesse sfregati con forza contro l’asfalto.
Continuò tuttavia a camminare, accorgendosi che via via che avanzava, le pareti e il soffitto gli si restringevano attorno e le mani che sfioravano le pareti si ferivano di graffi sempre più profondi facendo sì che le dita iniziassero a sanguinare. Ma sui muri non c’era nulla, le superifici sembravano lisce, quindi come poteva ferirsi? Sherlock ripetè più volte che era tutto nella sua testa, che non poteva ferirsi realmente visto che sui muri non c’era niente, tuttavia questo non impedì alle sue belle mani di sanguinare ancora: pensò al suo violino e a quanto gli piacesse suonare, ma non si fermò.
Continuò ad avanzare e mentre le pareti si restringevano, vide finalmente qualcosa in fondo al corridoio: una porta. Era una porta strana, che stonava con lo stile del corridoio: era una di quelle porte con l’imbottitura di stoffa come decorazione, di un colore caldo, i disegni tondeggianti e a prima vista sembrava anche molto morbida. Sherlock voleva raggiungerla, pensando che forse, se l’avesse toccata, i suoi polpastrelli sarebbero guariti.
Accellerò il passo dunque, ma quella scelta fu infausta, perchè non solo le pareti gli concedevano sempre meno spazio, ma da esse iniziarono a spuntare anche molti rovi, tanti cespugli che avevano bucato la roccia e che ora laceravano parte dei vestiti di Sherlock, graffiandogli la cute sottostante, rigandola in più punti, rovinando il candore della sua pelle quasi trasparente.
Sherlock urlò di rabbia, estraendosi alcune spine dal braccio e gettandole a terra con un gesto di stizza: riprese a camminare, facendo più attenzione ma senza salvarsi da quei rami che sembravano muoversi apposta per ferirlo e lui non sapeva perchè, ma arrivare a quella porta era più importante della propria vita, lo sentiva, lo sapeva.
Sfinito e pieno di ferite arrivò di fronte alla porta: era esausto ed ansimante, ma finalmente poteva toccare la stoffa che rivestiva quell’uscio. Era morbida e vi strusciò sopra il viso, macchiandola col proprio sangue che la porta sembrò assorbire senza lasciarne traccia, senza risultarne sporca. Sherlock cadde in ginocchio, stremato, e alzò la mano destra verso il pomello che gli diede una scarica elettrica, quindi una nuova scossa di dolore.
“Perchè?!” Sherlock urlò di dolore e disperazione e sembrò che qualcosa o qualcuno gli avesse posto una domanda perchè annuì e disse “Sì. Voglio entrare.” provò a girare il pomello ed un’altra scossa lo percosse e di nuovo urlò “Sì! Lo voglio!” sussurrò poi, sempre più stanco “Fammi entrare, ti prego.”
Il pomello scattò e Sherlock riuscì ad aprire la porta col peso del proprio corpo che cadeva in avanti, sbattendo a terra: dopo pochi secondi di semi incoscienza riuscì ad aprire gli occhi, ancora sdraiato sul pavimento, su quella moquette così morbida che sembrava rassicurante. Alzò gli occhi e li lasciò vagare per la stanza, sorridendo quando vide una figura farglisi incontro.
“Lo sapevo.” realizzò con assoluta certezza che quella figura si sarebbe presa cura di lui, quindi si lasciò andare, chiudendo gli occhi.
Nel momento in cui chiuse gli occhi sul pavimento di quella strana stanza, li riaprì sul divano del suo appartamento. Il viaggio nel suo Mind Palace era, per il momento, concluso: versò un’unica lacrima prima di addormentarsi in posizione fetale, esausto ma soddisfatto.


Giorno 7

Pioveva già da tre ore filate quando John uscì dall’ospedale: era riuscito ad avere tutto il pomeriggio libero grazie ai turni extra coperti in quei giorni senza dimora, e l’avrebbe utilizzato per tornare a casa, farsi una lunga doccia e poi per parlare con Sherlock di quanto successo. Era questo il piano.
Prima di uscire dalla porta dell’ospedale, John alzò lo sguardo al cielo, che sembrava voler piangere disperatamente tutte le gocce di pioggia di cui disponeva, e borbottò qualcosa riguardo ad un ombrello che non aveva mai con sè nonostante abitasse in una delle città più bagnate dell’Europa.
Alzò dunque la giacca sopra la propria testa percorrendo il marciapiede a velocità sostenuta alla ricerca di un taxi quando la sua memoria visiva fu attratta da uno stimolo conosciuto: al di là della strada, infatti, appoggiata al muro sotto la pioggia battente, c’era una lunga figura vestita con abiti scuri.
John attraversò distrattamente la strada, tanto che dovette schivare una macchina da cui si sentirono provenire parole non propriamente gentili, e raggiunse la figura che si confermò essere Sherlock, bagnato da cima a piedi, le mani in tasca, il fiato caldo che usciva dalle narici a forma di vapore denso e bianco, gli occhi chiusi.
“Sherlock?” lo chiamò John, leggermente preoccupato, alzando subito le mani sulle guance dell’amico, scoprendole tiepide e leggermente tremanti “Da quanto sei qui?”
Sherlock aprì gli occhi di scatto quando si sentì chiamare, socchiudendoli stancamente quando sentì le mani di John su di sè “John. Ciao.” sorrise debolmente alzando la mano destra a spettinare i capelli dell’altro, modellandoli appena con l’acqua.
John sorrise a quella che interpretò come una carezza, quindi alzò la mancina sulla fronte di Sherlock, scoprendola calda e soffice al tatto “Da quanto sei qui fuori?”
“Non lo so. Non pioveva quando sono arrivato.” rispose a bassa voce, alzando anche l’altra mano sul viso di John: sembrava in trance, le parole erano pronunciate con lentezza, il tono pacato, lo sguardo socchiuso “Ti ho visto.”
“Scotti, Sherlock, dobbiamo subito andare a casa. Saresti dovuto entrare in ambulatorio.” sfuggì per qualche istante alla sua presa, durante i quali si tolse la giacca, buttandogliela sulla testa “Mi hai visto? Dove?” si voltò poi, alzando un braccio in direzione di un taxi.
“Nel mio Mind Palace.” bisbigliò Sherlock mentre provava a far girare John verso di sè, in cerca del suo sguardo. Intanto gli altri sensi lavorano: il tocco di qualcosa di asciutto sui propri capelli bagnati, come un balsamo che dava sollievo ed il profumo di John proveniente dalla sua giacca, un’essenza rilassante.
“Io? Tra tutte le nozioni di vitale importanza che potevi inserire nel Mind Palace?” per John era la conferma dello stato di trance in cui Sherlock sembrava essere caduto: gli prese la mano, guidandolo verso il taxi che era riuscito a fermare.
“Tu lo sei, John. Di vitale importanza.” confermò Sherlock mentre saliva in macchina seguito dal coinquilino: aveva il fiatone, era sfinito e faticava a tenere gli occhi aperti, ma non poteva evitare di parlare “Eri lì. E ti prendevi cura di me perchè ero ferito.”
John dettò l’indirizzo al tassista, quindi tornò a prestare attenzione a Sherlock al quale tastò nuovamente la fronte “Sherlock. Scotti, per la miseria.” gli fece appoggiare la schiena sul proprio petto, stringendolo, poichè lo sentì tremare “Certo che mi prendo cura di te, finchè fai cose stupide come questa.”
“John.” lo chiamò nuovamente e chiuse gli occhi, in pace, quando si sentì stringere: sentiva sempre freddo, nel corpo, nonostante il calore, spirituale, che emanava John. Sorrise a quella contraddizione, approfittando dello slancio affettivo dell’altro per accoccolarsi contro di lui, incastrandosi sotto la sua mascella, respirandogli sul collo “Torni a casa?”
Proprio come pensava, John scoprì uno Sherlock dotato di una sensibilità fanciullesca che si concedeva di mostrare solo a lui e in un momento di debolezza, e proprio come aveva promesso a se stesso, l’avrebbe protetto e tenuto con sè. Sorrise a quella manifestazione di dolcezza che fece sparire tutta la rabbia dei giorni passati “Avevi dubbi?”
Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, poi, una volta arrivati a Baker Street, John notò con piacere che i suoi vestiti erano stati raccolti, piegati e poggiati sul tavolino del salotto, mentre Sherlock ringraziò mentalmente Mrs Hudson per quel lavoro che non sarebbe riuscito ad adempiere in modo così efficace.
John preparò per Sherlock un bagno caldo, per contrastare i brividi di freddo dovuti alla lunga esposizione alla pioggia, e lo preparò pieno di schiuma, in modo da non creare nessun imbarazzo per entrambi: il dottore infatti, rientrò in bagno solo dopo aver sentito il coinquilino immergersi nella vasca.
“Va meglio?” domandò John che, dopo essersi messo dei vestiti asciutti, stava frizionando i capelli di Sherlock con shampo e acqua calda: il detective sembrava restio a rispondere, più che altro perchè si stata godendo quel massaggio con la stessa bramosia con cui un gatto prende dei grattini sotto al collo “Sherlock?”
“Mh-mh” annuì Sherlock che finalmente riaprì gli occhi, indirizzandoli verso il dottore “John, sei stato cattivo.” disse dunque: sembrava più lucido rispetto a prima, o quanto meno il tono di voce suggeriva una minore intorpidimento “Sette giorni. Potevo morire di fame, di sete, di noia.”
“Spero ti sia servita da lezione almeno.” rispose John con una certa risolutezza, andando poi a massaggiare la parte posteriore del collo di Sherlock, rimasta scoperta dall’acqua calda e quindi ancora gelata “Se provi a rifarlo...”
“Mi uccidi?” ridacchiò l’altro, per poi mugolare in risposta a quel massaggio.
“No. Me ne vado di casa. Ho potuto constatare che per te sarebbe una punizione ben peggiore.”
“Non vale, dottore. Hai un’arma potentissima da usare contro di me.”
“Sei intelligente, saprai comportanti di conseguenza. Ho fiducia in te.” replicò John con una tranquillità tinta con un pizzico di ironia, pescando poi due ciuffi di schiuma dalla vasca e andando a posizionarli a mo’ di baffi sul volto di Sherlock “Sarebbe da farti una foto e farla vedere a tuo fratello e a tutta Scotland Yard.”
“Sì, e poi dovresti spiegare perchè eri in bagno con me mentre ero nudo dentro la vasca.” lo provocò Sherlock, mimando poi il fare di John, disegnandogli una barba da Babbo Natale sul volto con la schiuma del sapone.
John rise, ma dovette ammettere che la cosa l’avrebbe imbarazzato parecchio, quindi rinunciò all’idea di immortalare Sherlock con quei baffoni tanto buffi quanto artificiali “Vado a preparare qualcosa di caldo da mangiare. Non restare troppo lì dentro, capito?”
Sherlock annuì sventolando in aria un po’ di schiuma e John si fermò a guardarlo intenerito: eccolo che mostrava a lui soltanto il suo lato sensibile, e si sentì privilegiato. Prima di lasciarlo solo in bagno però, si voltò verso la vasca un’ultima volta.
“Quello che hai detto prima era vero?” gli domandò mentre s’asciugava la schiuma dal volto con un asciugamano “Parlo del Mind Palace.” esitò un poco, imbarazzato “Ci sono anch’io?”
Sherlock, che non l’aveva mai abbandonato con lo sguardo, gli sorrise inarcando gli angoli della bocca come mai aveva fatto fino a quel momento “Lì dentro c’è posto per tutte le cose importanti.” e si tolse i baffi di schiuma dal volto per dirlo, come per rimarcare una certa serietà sull’argomento “E tu lo sei, John. Tu sei importante.”
John sorrise e non pensò neanche per un istante di essere fragile nell’avere la necessità di sentirselo dire: voleva che Sherlock ammettesse di avere bisogno di lui, ma non per scoprire un suo punto debole, bensì per avere una nuova forza a cui appoggiarsi nei momenti difficili.
Sherlock lo osservò lasciare il bagno e si abbandonò in un momento di riflessione: c’erano voluti sette giorni lontano da John per entrare in quell’ala del Mind Palace che non aveva mai osato oltrepassare, spaventato dal dolore che la sola vista di quelle pareti gli causava. Ma per capire come risolvere la situazione con John, non solo aveva deciso di affrontare quel corridoio, ma anche di percorrerlo, provare un dolore lancinante e infine supplicare affinchè quella porta si aprisse: chiuse gli occhi e si ritrovò proprio lì, in quella stanza morbida in cui non era più doloroso entrare, in cui era bellissimo soggiornare.
Per la prima volta in vita sua, Sherlock si ritrovò pensare che era proprio un peccato che un’altra persona non potesse entrare nella sua testa, che John non potesse vivere in quella stanza con lui: poi sentì la sua voce provenire dalla cucina chiamarlo a gran voce ed uscì dal suo Palazzo così come schizzò fuori dalla vasca. Si rivestì ed andò a vivere la sua vita con John, nel mondo reale.



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Ciao belle figliole! Rieccomi con la mia prima one-shot! Vi piace? *_* Non pensavo di farcela °_° divento sempre prolissa quando scrivo, è inutile XD Sto lavorando al progetto "Back to London" ma siccome non sono ancora soddisfatta al 100% dell'idea centrale sto rimandando la pubblicazione del primo capitolo D: baci, bacilli, baciotti! *_*
   
 
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