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Autore: LazyMe    09/05/2012    1 recensioni
La strada si snodava nel vuoto tra campi di foschia sempre uguali a se stessi e profili degli alberi appena intuibili, Marco guidava teso - alla cieca - distratto dall’eccitazione dei passeggeri e dal gracchiare della radio che sembrava non riuscire a ricevere oltre i muri di nebbia.
Per un attimo gli sembrò di vedere qualcosa sul ciglio dell’asfalto, una forma indistinta e strisciante...
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice: Ciao a tutti! Per una curiosa scommessa, per altro priva di un premio gratificante, mi sono cimentata in un genere che non ho mai sentito appartenermi. Eccomi con questo raccontino Mistery che, senza troppe pretese, mi rimetto al vostro giudizio e – soprattutto – ai vostri consigli che saranno come sempre sollecitati e ben graditi!
 
Buona lettura :)
 






 

Oltre lo specchio

 


 
 
La nebbia non era una novità per quella stagione ma lo era il fatto che da due giorni non fosse mai salita. La città e, soprattutto, la campagna circostante sembravano cristallizzati in quell’indistinto paesaggio brumoso. Era salita come sempre saliva, nel tardo pomeriggio lingue fumose si erano alzate dalla terra umida avvolgendo torpidamente ogni cosa, imprigionando in un indistinto mantello case e cortili, poi vie, poi interi quartieri. E non se n’era più andata.
Marco pulì le lenti degli occhiali da miope dalle goccioline di nebbia, che riducevano ulteriormente il suo campo visivo, e si appoggiò allo sportello della sua vecchia FIAT rossa in attesa. Un’ombra prese forma nella caligine e un suono di passi attutito risvegliò la sua attenzione.
“Alquanto spettrale non trovi?”
La voce sembrava emergere dal nulla.
“Allora ci sei anche tu?” Ma la sua era un’affermazione provocatoria più che una domanda.
“Con uno scenario del genere non avrei mai potuto tirarmi indietro.” Rispose l’amico raggiungendolo e stringendosi nelle spalle.
I due si salutarono e poco dopo l’invadente grigiore alle loro spalle prese vita, animato dalle voci scherzose degli altri ragazzi.
“Serata perfetta! Chi non se la sente è ancora in tempo a restare a casa e vincere il premio per il cacasotto dell’anno!” 
Marco rise, come gli altri tre, e qualcuno imitò l’ululato di un lupo che non risultò molto credibile dato che non c’era nessuna luna piena né stelle né cielo, c’era solo del grigio scuro e bagnato ovunque. Sperò di ricordarsi la strada e, prima di salire in macchina imitato dagli amici, controllò distrattamente l’orologio, più per abitudine che per reale interesse. Erano le sette e tre quarti.
 

La strada si snodava nel vuoto tra campi di foschia sempre uguali a se stessi e profili degli alberi appena intuibili, Marco guidava teso - alla cieca - distratto dall’eccitazione dei passeggeri e dal gracchiare della radio che sembrava non riuscire a ricevere oltre i muri di nebbia.
Per un attimo gli sembrò di vedere qualcosa sul ciglio dell’asfalto, una forma indistinta e strisciante, e quell’istante di distrazione fu sufficiente per vedersi comparire improvvisamente davanti ad una curva.
Reagì d’istinto sterzando e pigiando a fondo il pedale del freno. La fiancata grattò con stridore metallico contro i cartelli di segnalazione piegandoli e deformandoli, la macchina ruotò quasi completamente su se stessa e si arrestò dopo diversi metri in un spiazzo accanto alla carreggiata sfiorando il tronco di un platano.
“Cazzo!”
“Hey! Se volevi spaventarci ci sei riuscito!”
“Sì, bella trovata.”
Ma Marco li sentiva distanti, oltre la puzza di gomma bruciata, nelle orecchie rimbombava il pulsare frenetico del suo cuore e l’adrenalina gli serrava le mani intorno al volante come artigli insensibili. Dopo qualche momento riuscì di nuovo a respirare regolarmente e col dorso della mano si asciugò il sudore sulla fronte guardando oltre il vetro del finestrino appannato.
Celata dalla foschia si stagliava ombrosa ma comunque riconoscibile la sagoma di un’imponente costruzione colonica, erano arrivati a destinazione.
L’amico accanto lo scosse leggermente e poi gli disse di scendere. Marco guardò turbato il quadrante dell’orologio che aveva al polso, annuì al ragazzo e smontò dall’abitacolo davanti ad un rugginoso e ammaccato cancello chiuso con un pesante catenaccio. Erano le otto e cinque minuti.
Respirò avidamente l’aria gelida densa di umidità, sentendo la bruma depositarsi sugli abiti e sui capelli corti mischiarsi con il sudore rimastovi. Sentì i peli biondicci della nuca rizzarsi e decise di rimboccarsi la sciarpa nel bavero del cappotto.
Qualcuno disse “Beh ma guarda dove siamo arrivati, ci è andata bene. E bravo Marco, come hai fatto a vederla qui in mezzo?”
Seguirono un coro di “entriamo” e “andiamo” e qualche battuta per smorzare la tensione che tuttavia non ebbe alcun effetto.
Marco esitò. Era stato altre volte in quella Villa, non dentro certo, ma cosa ci poteva essere di cui avere paura quando fin da piccolo aveva giocato con gli amici a nascondino tra fienili abbandonati e ruderi del dopo guerra? Tuttavia era orribilmente a disagio, forse per quello che credeva d’aver visto sul ciglio della strada, forse per un sinistro presagio che sentiva incombere su di loro come le nuvole gonfie di pioggia durante i temporali estivi. O forse per qualcosa di altrettanto oscuro che non c’entrava nulla con tutto ciò.
Nel mentre gli altri presero ad armeggiare con la recinzione metallica che nel tempo aveva sostituito le parti crollate del muro di cinta, allargando un passaggio già esistente tra le lamiere ossidate.
Uno dopo l’altro vi passarono attraverso e si ritrovarono a camminare rapidamente tra gli arbusti e i ciuffi d’erba incolti del giardino. D’un tratto si arrestarono all’unisono illuminando con le torce elettriche il rettangolo nero che doveva esser stato il portone d’ingresso.
Un silenzio carico di apprensione prese il sopravvento tra loro, si guardarono tutti brevemente prima di sfilare all’interno dell’edificio inghiottiti dal buio.
 

I fasci di luce delle torce illuminarono muri scrostati e imbrattati con scritte oscene, lembi di intonaco chiazzato pendevano dal soffitto e dalle pareti, a terra calcinacci e rifiuti di vario genere orlavano i rimasugli di una sfarzosa pavimentazione. Facendosi largo tra polvere e detriti sentivano i respiri condensare tra loro e i passi rimbombare nelle stanze deserte.
Il pungente odore di vecchio e di stantio ricordava a Marco qualcosa che, pur rendendolo inquieto e nervoso, non riusciva a riportare a galla nella memoria.
Pensò che forse portare qualche torcia in più sarebbe stata una buona idea e, subito dopo, si immobilizzò incredulo e atterrito spalancando gli occhi per scrutare nell’ombra.
Ma non c’era niente. Solo angoli grigi, resti di mobilio distrutto e pulviscolo che si sollevava a ondate al suo passaggio.
Eppure era certo che prima – appena un attimo prima – ci fosse stato qualcosa proprio in quel punto, credeva di aver visto una sagoma strisciante orribilmente familiare. Un brivido gli corse lungo la schiena e deglutì a vuoto.
Si obbligò a spostare lo sguardo e a riprendere l’esplorazione, ma i muscoli erano assurdamente rigidi, come se fosse stato immobile a lungo, e solo allora si accorse dell’assoluto estraniante silenzio che lo circondava.
Fece qualche passo incerto in direzione della scala smantellata che conduceva ai piani superiori ma degli altri ragazzi non c’era traccia, non si udivano voci né passi, sembravano essere semplicemente scomparsi nel nulla. Era impossibile.
Un alito di vento caldo come un respiro lo investì all’imbocco della scala. Voltò la testa a destra e a sinistra controllando ansiosamente le finestre rotte, le porte scardinate e gli spifferi che sicuramente lasciavano entrare a suggestionare i giovani dalla fervida immaginazione come la sua. Non era un sospiro, si disse per calmare il martellare che aveva nel petto, era solo una corrente d’aria.
Riprese a salire un gradino dopo l’altro, o quello che ne rimaneva, perché comunque doveva trovare gli altri e non poteva certo andarsene senza di loro lasciandoli lì, in campagna in una qualunque sera d’inverno gelida e nebbiosa. Controllò nervosamente l’ora. L’orologio segnava le otto e cinque. Ancora.
Sgomento sfregò i palmi delle mani umidicce sui jeans poi mulinò la torcia in tutte le direzioni per illuminare il più possibile con quel debole cono di luce. La puzza di muffa a cui ormai si era abituato si fece d’un tratto più acuta, un disgustoso odore di marcio colpì i suoi sensi in allerta e, trattenendosi dal tapparsi il naso, ne individuò la disgustosa scia.
Affatto convinto da quello che stava facendo e ostentando una sicurezza che non aveva mai avuto attraversò una stanza dopo l’altra, tutte nelle stesse fatiscenti condizioni, fino a trovarsi di fronte a quella che probabilmente era l’unica porta della casa rimasta intatta e nella sua sede. Al posto della maniglia c’era un buco.
Vi diede un colpetto col piede, fremente, sembrava potesse sgretolarsi da un momento all’altro e la osservò aprirsi scricchiolando in modo poco rassicurante su quello che gli parve un ripostiglio più che l’ennesimo vano padronale. Molti oggetti infatti vi si trovavano ammonticchiati in cumuli disordinati e sudici, ricoperti di escrementi di piccione e di topo.
Il respiro gli si mozzò in gola quando ai margini del campo visivo vide di nuovo la sagoma strisciante. Solo in quel momento fu certo di aver visto sempre la stessa cosa: sul ciglio della strada, nell’angolo della stanza al piano inferiore e ora lì, accanto a lui.
Con il tremore delle mani ormai incontrollabile e il terrore che sembrava aver sostituito il sangue nelle vene avrebbe voluto scappare il più in fretta possibile, ma c’era qualcosa di raccapricciante che lo inchiodava a quel luogo e glielo impediva.
Molto lentamente aggirò un piccolo mucchio di cose dimenticate tra cui riconobbe a malapena una scarpa e un vecchio orologio a pendolo rotto, con le lancette ritorte che puntavano un tempo immortale.
Quando finalmente lo vide avrebbe voluto sorridere per il sollievo, ma non vi riuscì e si ritrovò a fare un’orrida smorfia alla sua immagine riflessa. Un grande specchio arrugginito e incrostato, incastonato in una massiccia cornice dorata, sembrava sbeffeggiarlo rimandandogli una copia di lui spaventosamente somigliante e allo stesso tempo contrastante.
L’ombra strisciante comparve alle spalle del suo riflesso.
Barcollò all’indietro sbigottito, improvvisamente instabile, di scatto guardò dietro di sé per non vedervi nulla oltre quello che aveva scavalcato poco prima e che era sempre stato lì da chissà quanti anni.
Poi finalmente riconobbe la traccia particolare del fetore che permeava quel luogo, quella che fin dall’inizio lo aveva disgustato e angustiato ma che non aveva individuato: era il retrogusto ferrigno del sangue. Gli sembrava quasi di sentirne il sapore sulla lingua troppo asciutta.
Fissò di nuovo lo specchio e vide l’ombra, che ora aveva acquisito una forma ben precisa, avvolgere la sua immagine in un abbraccio inquietante.
Si vide arricciare le labbra in un sorriso crudele e deforme, sollevare le mani ricoperte di una sostanza viscosa e scarlatta fino all’altezza della gola e piegare la testa all’indietro abbandonandosi completamente alla malefica ombra alle sue spalle.
 

Ruppe il gelo che lo attanagliava scaraventando la torcia con tutta la forza che riuscì a racimolare contro quell’abominevole immagine irreale, poi si lanciò fuori dalla stanza in cerca di una via di fuga, di aria vera e della nebbia che l’avrebbe protetto, in cerca non più degli altri ma di se stesso. Incespicò per le scale e per i corridoi improvvisamente popolati di tenebre ingannevoli e misteriose, corse fino all’ingresso e, solo quando lo oltrepassò, crollò a terra senza fiato arrancando in preda ai brividi e cercando faticosamente di inghiottire boccate d’aria umida e densa.
Sentì il terreno fradicio inzuppargli la giacca e, quando si decise a rialzarsi, vide quel mondo spaventosamente grigio e vecchio vorticargli intorno.
Si prese la testa tra le mani, chiuse gli occhi poi li riaprì e, in cerca di un punto fermo, sbirciò il suo fidato orologio. Erano sempre le otto e cinque.
Sospirò angosciato e riprese a correre in direzione del cancello e del passaggio nella rete, oltre la fumosa cortina creata dalla nebbia non riusciva a vederli ma sapeva che erano lì da qualche parte e che doveva solo continuare a scappare.
Invece non c’erano. Alla fine della sua fuga si ritrovò di fronte all’ingresso della Villa, sempre buio e ansioso di inghiottirlo.
Provò altre direzioni, altri punti di riferimento ma arrivava sempre e solo lì.
Ormai disperato e senza sapere cosa fare, rientrò.
Cercò insensatamente gli altri, aggrappandosi a quei pochi brandelli di lucidi pensieri rimasti gridò i loro nomi fino a perdere la voce, scrutò in ogni stanza e ogni angolo, ma non c’era nessuno oltre a lui.
Ansante e stravolto tornò nello sgabuzzino con lo specchio, lo specchio era lì con un’evidente crepa nel mezzo ma non c’era più nemmeno il suo perverso riflesso. Lui non c’era.
Al suo posto vi era rimasta l’ombra deforme e non più strisciante ma saldamente eretta. Pareva attenderlo.
In lontananza sentì il suono di una sirena e intravide il riverbero di luci blu intermittenti sullo stipite della porta.
Sconfitto si appoggiò allo specchio e vi scivolò contro.
 
 
 
 
 
 
 
  
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