Herakles, appoggiato al muro, leggeva con la sua
proverbiale lentezza l’opuscolo dei nuovi arrivati nel suo parlamento.
Si guardò intorno, lo ripiegò e lo infilò nella tasca
interna nella giacca, come fosse qualcosa da tenere nascosto.
Non voleva qualcun altro lo notasse, e magari
facesse partire un discorso: le questioni interne di una nazione non sono cose
di cui le altre dovrebbero impicciarsi, in casa propria ognuno dovrebbe essere
padrone di fare come gli pare.
Senza contare che mai come negli ultimi tempi era di
cattivo umore, e non gli andava tanto di parlare dei suoi guai, quanto di stare
a sentire consigli altrui. Consigli a due facce, dettati da interessi non suoi.
Nell’andarsene, il suo umore peggiorò quando a un
suono concitato di passi si voltò e vide avvicinarsi, ovviamente, Ludwig;
doveva pure aspettarselo, pensò.
“Grecia, hai un secondo?”
“Scusa Germania, sto tornando a casa. Sarà un’altra volta.”
Germania cercò di tranquillizzarlo con toni gentili
e un mezzo sorriso: “Volevo parlare un po’ con te… A proposito delle elezioni a
casa tua.”
Non aveva neppure finito di parlare che l’altro già
proseguiva sulla sua strada; e quando persino lui arrivava ad avere così tanta fretta,
o era qualcosa di grave o era una finta per divincolarsi da una situazione
fastidiosa, o entrambe.
“Grecia?”
Quella volta non si voltò nemmeno.
“Che fai? Mi ignori?”
Si, aveva tutta l’aria di ribadire che non aveva
proprio niente da dire.
Allora Germania abbandonò parole e cautela.
Lo afferrò per la giacca e col minimo sforzo
sbatté Grecia contro il muro; gli si
gettò sopra, tenendolo bloccato per il colletto, con due occhi come aghi
glaciali che gli iniettavano terrore dritto nell’anima. Qualsiasi tentativo di
divincolarsi era soffocato sul nascere.
“Pensa bene a quello che fai, razza di stupido!”
Continuando a tenerlo con l’altra mano, si allentò
il colletto della camicia, aprì altri bottoni, fino a mettere a nudo la pelle sotto
la spalla destra.
“La vedi?”
La cicatrice poco sotto la clavicola, piccola ma
dalla forma assurda, precisa, che sembrava fatta intenzionalmente; quattro zampette
di ragno che avvinghiano il cuore e rendono immondo ciò che toccano.
“Da lì non se ne va. Potrò anche diventare il più
buono dei samaritani, comportarmi da santerellino da qui all’eternità, ma
quella rimarrà lì. E ci devo fare i conti ogni volta che mi guardo allo
specchio. Ne vuoi una uguale? Allora? Rispondi!”
Grecia, non perché spaventato, ma semplicemente
perché esausto, si sciolse davanti a lui. La morsa dei suoi denti si spalancò e
ne uscì un gemito rotto, cui fece seguito una pacato singhiozzare.
“Il mio popolo non ce la fa più!”
Senza lasciarsi impietosire, Germania continuava a
tenergli sotto gli occhi il proprio marchio.
“Non ci sono soldi, non c’è lavoro, solo un mucchio
di debiti… Tutti ci dicono cosa dobbiamo fare, noi lo facciamo e neanche va
bene…” –pianse il paese senza più speranze; e quando sei senza speranze, ti senti
in diritto di agguantare la prima che passa senza neanche guardare il marcio
che ha in faccia.
“Si….” –annuì Germania allentando la
presa- “È sempre così che si comincia, ci
sono passato anch’io… Vuoi aiutarli, restituire loro la
felicità, la dignità, l’orgoglio…
E prima che te ne accorgi li hai trasformati in un branco di pazzi,
talmente
pieni di sé da non vedere nient’altro al di fuori del loro
superbo paese, e
cosa realmente sta facendo loro…”
Gli occhi azzurri si smarrirono nei ricordi di quei
giorni gloriosi e sciagurati.
La folla che
gremiva la piazza a Berlino. I tedeschi che da la sotto lo guardavano su quel
balcone, nella sua bella uniforme.
Gridavano
entusiasti, gli dicevano quanto fosse bello, quanto fosse forte, quanto fosse
immensamente migliore di qualunque altra nazione, quanto ogni altra nazione non
fosse che feccia al suo confronto.
E lui, da
lassù, salutava e sorrideva, felice, sicuro di sé, con la croce uncinata che
sventolava alle sue spalle.
“Finché un giorno cadi nella polvere e apri gli
occhi, e loro con te; e li vedi ritrovarsi tra le macerie di quelle che erano
le loro case, a piangere e a dirsi << Mio
Dio, cosa abbiamo fatto? >>”
Germania lo lasciò e si riabbottonò la camicia. Non
gli importava della rozzezza dei modi: la terapia d’urto in questi casi, a
detta sua, era la migliore possibile. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto di
carta perché si asciugasse le lacrime.
“Grecia, ti prego, è un momento terribile per te, lo
so. Ma pensaci due volte. È sempre così che si comincia. E si finisce sempre
allo stesso modo.”
Andò per la sua strada, capo chino, come un lebbroso
dei tempi antichi che col proprio campanello avvisa chi gli è vicino dal
pericolo dell’impurità in agguato.
Sfiancato e con un cerchio alla testa, Grecia
proseguì verso l’uscita.
Voleva tornare a casa. Aveva disperato bisogno di
una sedia, e di un gatto da carezzare, per dimenticarsi un po’ di tutti i
problemi.
Vecchi, nuovi, e a venire.
NOTE
DELL’AUTORE
Quando in
Germania iniziarono a farsi largo le atroci idee del nazismo, la situazione del
paese era per certi versi simile a quella della Grecia odierna: povertà,
disoccupazione, inflazione, riparazioni di guerra da pagare agli stranieri,
ingerenze di questi ultimi nell’economia, sfiducia totale per il futuro.
Quanto più la
situazione è disperata, in qualunque nazione, tanto più alto è il rischio che
il primo che passa, con promesse di rinascita e nuova forza, prenda il
sopravvento nei cuori della popolazione umiliata, che si lascia
spersonalizzare, privare dei diritti, e condurre verso le più atroci
efferatezze.
Mi riempie, e
dovrebbe riempire tutti noi di preoccupazione e sconforto pensare che, ancora
oggi, si rischi di arrivare a questo punto.
Pensare che
ancora esistono stupidi, e non solo in Grecia, ma anche in Italia e altri
paesi, che vanno in giro dicendo “Hitler era un grande personaggio”, e che così
tante persone li votano, perché hanno smesso di ricordare cosa sia stato
realmente il nazismo e a cosa abbia portato.
Com’è
possibile mi chiedo?
Non
dimenticate.
Ricordate
sempre.
Come ricorda
il povero Germania.
TonyCocchi