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Autore: rosie__posie    11/05/2012    4 recensioni
L’odore della pelle di John, il profumo del suo shampoo, che raggiungono il proprio corpo e, filtrando attraverso l’epidermide e le narici, si spingono fino al cervello, dove lì Sherlock vuole intrappolarli.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alza il bavero del cappotto non appena mette il naso fuori dalla fermata, annodandosi ancora di più la sciarpa al collo. I primi e timidi fiocchi di nevi si depositano sui suoi capelli scuri, finendo per inumidirli. Indossa i guanti e percorre a passo sicuro ma sostenuto i cinque minuti di strada che lo separano dall'imponente residenza vittoriana.
 
Al cancello, suona il citofono e attende, sfregandosi le braccia nel tentativo di scaldarsi un po'. Dopo aver trascorso ore intere della sua vita dissezionando cadaveri e pezzi di cadaveri per lavoro o per passione, ciò che lo attende dietro l'imponente cancellata non dovrebbe essere poi così terribile. O, per lo meno, è questo ciò che si augura.
 
-Sì?-, gracchia la voce al citofono.
 
-Holmes.
 
Dopo pochi secondi, si sente uno scatto e il cancello si apre. Sherlock si tira indietro.
 
-Cammini dritto lungo il sentiero di sinistra. Troverà qualcuno ad attenderla all'ingresso.
 
Vorrebbe rispondere che non c'è bisogno che gli diano tutte quelle istruzioni, che è già venuto in passato, ma sa che sarebbe solo un eccesso di presunzione. Ci è già stato in quel luogo pieno di pace e desolazione al tempo stesso, ma è trascorso così tanto tempo dall'ultima volta da dimenticarsi anche lui quando.
 
Una donna magra e bionda l'aspetta all'ingresso, come promesso. Prima di chiudere la porta dietro di sé, Sherlock si scosta dalle spalle e dai capelli i fiocchi di neve che si sono depositati sul suo corpo, quindi si toglie i guanti e li infila in tasca.
 
-Signor Holmes, è un piacere rivederla.
 
Grazie a Dio, mi risparmia commenti inutili sulla frequenza delle mie visite.
 
-Signora Stevenson-, ribatte, stringendole l'esile mano ossuta.
 
-Non l'aspettavamo, oggi.
 
Sicuramente vorresti dire "Non è mai venuto a Natale, signor Holmes. Come mai ha deciso di iniziare a farlo proprio quest'anno?", ma non ti darò la soddisfazione di saperlo.
 
-È fortunato, oggi è una giornata buona.
 
La segue lungo i corridoi. Incontrano solo un paio di infermiere, qua e là. Nessun altro visitatore. È pomeriggio inoltrato e, probabilmente, il grosso delle visite ai degenti è terminato dopo pranzo.
 
Le pareti sono dipinte di una calda tonalità di pesca e adornate con riproduzioni di quadri di artisti famosi. Mirò, Degas, Kandinsky. Quel luogo non ha molto l'aspetto di una casa di cura e Sherlock si stupisce di se stesso per esserne contento.
 
Alla fine di un ultimo e lungo corridoio, giungono a una grande stanza circolare, con vetrate su quasi tutto il perimetro che danno sul bosco di cedri e pini che si trova sul limitare nord della residenza. Una sorta di serra, in cui la temperatura media è costantemente superiore a quella dei corridoi che hanno percorso finora. Gli unici arredamenti sono piante d'appartamento sempreverdi e qualche tavolino e poltrone di vimini.
 
-Vi lascio soli, signor Holmes. Mi troverà all'ingresso, quando avrà finito.
 
I passi della donna risuonano sempre più deboli, nel corridoio, fino a sparire del tutto.
 
Sherlock rimane lì, sull'ingresso, per qualche minuto. Poi, si allenta la sciarpa e slaccia il cappotto. Si sente incerto sul da farsi. È lì, da solo, a fare qualcosa che ha deciso di fare nel giro di pochi secondi. E ora, senza John, il suo John, lì vicino a dargli man forte, non sa bene come procedere.
 
John, che è da sua sorella.
 
Lui, Sherlock, che è da sua madre
 
Proprio non gli è andato giù che Harry sia stata preferita a lui. Non è perché sia Natale o altri sciocchi sentimentalismi del genere. Semplicemente, gli piacerebbe che per una volta, una volta soltanto, John gli chieda di accompagnarlo. Harry è l’unica parente che ha, l’unico legame col passato che è rimasto al dottor Watson. Oltre, ovviamente, ai ricordi dell’Afghanistan che ogni tanto gli fanno visita. Harriet rappresenta per Sherlock uno dei preziosi tasselli mancanti per completare il difficilissimo puzzle che sta cercando di completare da tempo: comprendere a fondo l’anima di John. Per farla propria. Per mischiarla alla sua. Due metà della stessa anima. Sarebbe un interessante esperimento scientifico e al tempo stesso spirituale da poter condurre.
 
Scuote un paio di volte il capo, sperando che basti a scacciare il pensiero di John dalla sua testa. Un ciuffo bagnato di capelli gli sfiora le ciglia e lo caccia indietro con la mano. Quindi, si muove verso una figura snella seduta di spalle in una grande poltrona di vimini. L’unica persona, oltre a lui, presente nel salone.
 
Sherlock si accosta a lei e, rimanendo in piedi, osserva il profilo rigido della donna, il naso aquilino, gli occhi grandi e chiari, i lunghi capelli castani. Indossa un lungo abito bianco, ballerine ai piedi e tiene le braccia lungo entrambi i braccioli della poltrona. Gli occhi sono fissi su un punto indefinito tra gli alberi, là fuori.
 
-Ciao mamma…
 
La donna non risponde, ma Sherlock nota un leggero fremito nelle dita della mano sinistra. Rimane qualche attimo a fissarla, poi si volta, prende una seggiola di vimini, l’accosta alla poltrona della madre e si siede accanto a lei.
 
Si sfrega le mani, altamente incerto su come procedere.
 
-Ed eccoci qui di nuovo…
 
Pausa.
 
-Come stai?
 
Si morde un labbro. Idiota, pensa. Ecco, è anche in momenti come questi che troverebbe utile la presenza del caro dottore, tutto cuore. D’altra parte, non è nemmeno certo che John sarebbe in grado di aiutarlo con una persona nel cui cervello le sinapsi rimaste in piedi sono ben poche. Ma ogni cosa diventa fottutamente più semplice quando c’è lui al suo fianco.
 
Si arrende e prende a guardare anche lui fuori dalle vetrate, verso il bosco. Qualche minuto dopo, potrebbe giurare di aver visto passare un coniglio.
 
Stupidaggini.
 
-Sherlock…
 
Sua madre lo sta osservando, sorridendo. Non può impedire al proprio cuore di sussultare.
 
-Ciao, mamma-, ripete.
 
Non può nemmeno impedire alla sua bocca di accennare a un sorriso.
 
-Sei in ritardo.
 
Tre semplici parole che sono sufficienti a spegnere quel timido sorriso.
 
-O sei in anticipo?
 
La signora Holmes lo guarda con aria perplessa.
 
-Un po’ entrambe le cose.
 
Silenzio. Tornano entrambi a guardare fuori dalle finestre, lontano.
 
-Sai, mamma, ho conosciuto… ho conosciuto una persona.
 
-È speciale?
 
Silenzio.
 
-Sì.
 
-E riesce a far sentire speciale anche te?
 
Che scemenze, lui è già speciale.
 
-Intendo, realmente speciale, Sherly.
 
Di nuovo silenzio.
 
-Sì, credo di sì, mamma.
 
-Gliel’hai mai detto?
 
-No, mamma.
 
-Magari un giorno dovresti dirglielo.
 
-Magari, un giorno…
 
Sherlock si impone di tornare a guardare fuori.
 
-Quando lo farai, assicurati di utilizzare anche il linguaggio del corpo, caro. Perché non hai ancora imparato a esprimerti con la lingua che sembrano usare tutti gli altri.
 
Lo sguardo della signora Holmes si perde di nuovo lontano, oltre agli alberi.
 
-Mangi, caro?
 
-Qualche volta, mamma.
 
Non si dicono più nulla. Un quarto d’ora più tardi Sherlock è di nuovo alla fermata della metropolitana.
 
Deve cambiare un paio di volte prima di incrociare la Jubilee line. I treni sono puntuali e semi vuoti. Probabilmente mezza Londra è ancora seduta a tavola, con allegre coroncine di carta colorata in testa. L’ultimo cambio è Westminster, a poche fermate dal suo anelato salotto. Scende dal treno e affonda le mani nelle tasche del capotto. Si incammina seguendo i cartelli che portano ai treni per la Jubilee, lo sguardo basso, la mente che vaga verso chissà quali lidi.
 
-Sherlock.
 
La voce profonda e calda lo raggiunge e lo avvolge come un abbraccio, facendolo trasalire e spingendolo a guardarsi intorno, sorpreso. John lo sta aspettando ai piedi della rampa mobile. Sherlock inclina leggermente il capo, come per studiare l’amico. Deve fissarlo diverse volte prima di essere sicuro che sia proprio lui.
 
-Tuo fratello mi ha detto dove probabilmente ti avrei trovato.
 
John non chiede niente e Sherlock non spiega nulla.
 
-Andiamo a casa?
 
Il detective annuisce e si avviano entrambi verso il treno della Jubilee. Attendono per quattro minuti su una banchina vuota, con le folate di vento gelido che ogni tanto, irrompendo dalle scale mobili, vanno a scompigliare i riccioli di Sherlock, ormai asciutti.
 
Quando il treno arriva, si siedono l’uno di fianco all’altro, sotto i finestrini, di fronte alla porta. Cosa insolita per lui, Sherlock reclina completamente la schiena, rilassandosi contro il sedile e chiudendo addirittura gli occhi. John, invece, assume una postura rigida, quasi all’erta, come se intuisca che qualcosa stia passando davanti a suoi occhi, pur non riuscendo a scorgerla, né tanto meno ad afferrarla.
 
-Regalo di Harriet?- chiede, indicando con un dito una bella busta rossa di carta appoggiata al pavimento, contro le gambe del dottore.
 
-Uh… questo? Sì-, risponde l’altro, distratto.
 
-Un maglione?
 
-Già.
 
-Ho perso il conto di quanti…
 
-Lascia perdere.
 
Sherlock ha ancora gli occhi chiusi ma può sentire che l’amico sta sorridendo. Increspa anche lui le labbra leggermente, in quella che è quasi la sua massima espressione di sorriso.
 
-Rilassati, John, ci sono ancora due fermate. Quasi bastano per un pisolino.
 
Può udire lo stropiccio della giacca del dottore, segno che finalmente anche lui sta iniziando a rilassarsi. O, almeno, ci sta provando. Sente, tuttavia, le sue dita che prendono a tamburellare nervosamente sui jeans.
 
-Mi sembrava di averti detto di cercare di rilassarti. In genere, tra noi due, quello nervoso non sei tu.
 
Sherlock alza la mano sinistra e, in un gesto rapido ma ugualmente armonioso, va a posarla su quella del dottore, fermando il movimento ritmico delle dita.
 
-Coraggio, Natale è quasi finito. Tornerà solo l’anno prossimo.
 
Estende bene le dita e preme con delicatezza la mano di John contro la coscia. Sente i muscoli irrigidirsi sotto il suo palmo e la cosa, inspiegabilmente, gli piace. Così come il contatto con la pelle della mano, più fresca della propria.
 
-Sembrerebbe una di quelle frasi che solitamente si dicono a te, invece che a me.
 
-Sarà per via dell’effetto assurdo che possono avere le feste sulle persone. Sarebbe interessante condurci un esperimento, qualche volta.
 
Il treno si ferma. Sale una sola persona, nel loro vagone, che va a sistemarsi in fondo. Quando le porte si richiudono, la mano di Sherlock è ancora stretta a quella di John.
 
-Sai, penso che, dopotutto, tu abbia ragione. Non sarebbe male l’idea di un pisolino.
 
Sherlock ha ancora gli occhi chiusi quando John appoggia il capo sulla sua spalla. I capelli corti dell’amico gli solleticano la guancia. Inclina leggermente la testa e affonda delicatamente il mento tra quei capelli. Apre finalmente gli occhi e si guarda distrattamente intorno, prima di abbassare nuovamente le palpebre. China ancora di più il capo e, questa volta, tra i capelli biondo cenere di John deposita un lieve e timido bacio. Si domanda se il gesto potrebbe incontrare l’approvazione della madre. In tutta sincerità, non ne è sicuro. Lo è, tuttavia, del fatto che l’opinione dell’uomo seduto in fondo al vagone non potrebbe interessargli di meno.
 
-Avrei potuto venirci anch’io.
 
La voce di John lo scuote dai suoi pensieri.
 
-Credevo dormissi.
 
-Lo sai bene che non stavo dormendo.
 
Sherlock sente la mano di John stringere la sua, ancora ferma sulla coscia del dottore.
 
-Non ero sicuro che la cosa potesse interessarti.
 
-Certo che mi interessa, Sherlock. È la tua vita. Tutto mi interessa, della tua vita.
 
Il cuore del detective sussulta alle ultime parole. -Magari, l’anno prossimo…-, mormora.
 
Ancora una fermata e Sherlock non ha molta voglia di parlare. Vuole solo cullarsi nella sensazione di pace che sta provando e nei profumi che sta sentendo. L’odore della pelle di John, il profumo del suo shampoo, che raggiungono il proprio corpo e, filtrando attraverso l’epidermide e le narici, si spingono fino al cervello, dove lì Sherlock vuole intrappolarli. Non vuole che si smarriscano, portati via dalla prima doccia. Vuole che l’odore di John si appiccichi a se stesso, entri nella sua anima, si instauri nel suo cervello e che lì ci rimanga. Lo desidera con la testa e con il cuore. Disperatamente, fisicamente.
 
Il treno si ferma per l’ultima volta prima di Baker Street. Sale una vecchietta e l’uomo ficcanaso scende. Le porte si richiudono di nuovo davanti a loro.
 
-E magari, l’anno prossimo, potrei venire con te da Harry…
 
-O magari venire lei, da noi.
 
-Magari, un giorno…
 
La mano di John si stacca e cerca a tentoni la coscia di Sherlock. Ora, una mano dell’uno riposa tranquilla su una coscia dell’altro.
 
-Andiamo a casa, ora.



Nota dell'autrice: scritta per il secondo turno dello Sherlothon dello SFI. Soprattutto, scritta di superfretta prima di partire per le vacanze. Ergo, perdonatemi tutti gli errori. ^__^
   
 
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