.:: Note ::.
Ok,
premetto che questa storia contiene un po’ di spoiler,
quindi se non hai letto il terzo libro della saga di Hunger Games, il
Canto
della Rivolta (o Mockingjay), ti consiglio di non andare avanti. Uomo
avvisato,
mezzo salvato.
Spero
che questa one-shot vi piaccia, comunque, e spero che proviate le
stesse emozioni che ho provato io leggendo.
Perciò, buona lettura. ^^
Mi chiamo
Katniss Everdeen. Ho
diciassette anni. Sono nata nel Distretto 12. Il Distretto 12 non
esiste più.
Sono la Ghiandaia Imitatrice. Ho rovesciato Capitol City. Il Presidente
Snow mi
odia. Ha ucciso mia sorella. Adesso io ucciderò lui. E
finalmente gli Hunger
Games saranno finiti per sempre…
Rigiro
il
braccialetto medico tra le mani. Poi lo ripongo nel cassetto. Guardo
fuori
dalla finestra e i raggi di sole mi accecano. Maggio è
arrivato così
velocemente. Il compleanno di Prim è alle porte. Peccato lei
non ci sia più.
Che lei non sia qui per festeggiarlo.
Riapro il
cassetto e guardo il braccialetto. No, non è stato Snow a
portarmela via. Sono stati
i ribelli con quella bomba disegnata da Gale e Beetee.
Tremo al solo ricordo e torno a sdraiarmi sul
letto, dove ormai passo le mie giornate, sola o in compagnia di Peeta.
Lui ora non
c’è. Non so se sia un bene o un male, ma mentre
non sopporto più di lasciarlo
vedermi soffrire, al tempo stesso mi sento egoista e lo voglio accanto
a me, a
consolarmi e a proteggermi.
Gale è
lontano, nel Distretto 2. Non riesco a sentire la sua mancanza, ma
ciò non mi
turba per niente.
Un’altra
persona, invece, di cui ho bisogno non è qui. Mia madre
è in chissà quale
Distretto a prestare soccorso. L’egoismo fa nuovamente
capolino e desidero che
curi me, non degli estranei.
Sento
suonare il campanello e, poco dopo, alcune voci provenienti dal piano
di sotto.
Peeta ha
fatto entrare Sae la Zozza affinché ci prepari la cena.
Sospiro,
mentre mi alzo da letto e mi dirigo verso la porta. Non scendo
giù, ma vado in
bagno.
Il bisogno
di un bagno caldo s’impossessa di me e mentre lascio
l’acqua scorrere, indosso la
vestaglia e mi affaccio alla finestra. Vedo la foresta, in lontananza,
luogo
per me portatore di felicità, un tempo. Quando avevo Prim,
Gale, mia madre.
Quando Effie Trinket non aveva estratto il nome di mia sorella il
giorno della
Mietitura.
Dopo aver
mandato giù una boccata d’aria pulita, richiudo la
finestra e mi siedo sul
bordo della vasca. Non me la sento ancora di cacciare. Non sono ancora mentalmente stabile, rifletto, pensando
al
braccialetto medico chiuso in un cassetto nella stanza accanto.
Vado verso
la porta e la chiudo a chiave. Ho bisogno
d’intimità. Loro capiranno.
Infine, mi
sfilo la vestaglia e mi lascio scivolare nell’acqua calda e
piena di bolle.
Chiudo gli occhi per un po’, ma accade
l’inevitabile. Proprio come l’acqua
usciva dal rubinetto nella vasca, fino a poco fa, così
pensieri e ricordi si
riversano prepotenti nella mia mente. Ogni tentativo di scacciarli
è inutile e
mi trattengo dal mettere la testa sott’acqua e farla finita.
Ma provocherei
altro dolore alle persone che amo. Mia madre non sopporterebbe
un’altra
perdita. Rimarrebbe sola. Peeta mi ama. Soffrirebbe quanto mia madre.
Haymitch…beh,
Haymitch soffocherebbe il dolore nell’alcol. E non posso
permettergli di
rovinarsi così.
Guardo la
finestra e capisco di aver sbagliato nel chiuderla. Mi sento soffocare.
Ma non
dal vapore che sale dall’acqua calda della vasca. No, sono i
ricordi.
Vedo i bambini.
Guardano il cielo.
Scendono i paracadute. Prima esplosione. Arrivano gli infermieri. Non
sono di
Capitol. Sono dei ribelli. Poi la vedo. Vedo la sua treccia ricadere
disordinata. La sua treccia bionda. Il cappotto le viene strappato per
coprire
un bambino che si lamenta. Ed
è allora
che vedo un lembo della camicetta che le è uscito dalla
cintura. E’
indubbiamente lei. E’ la mia paperella. Chiamo il suo nome.
Lo urlo. Inizio ad
avanzare verso di lei. Sono quasi arrivata al recinto. Mancano pochi
passi. Mi
ha sentito. Si gira e mima con le labbra il mio nome. Seconda
esplosione. Prendo fuoco e,
agonizzante, sento la carne bruciare. E’ buffo pensare che
“Ragazza di fuoco” fosse
il mio soprannome, un tempo. Ma adesso sono senza vista, udito, e
tatto. E sono
senza sorella.
Riapro
gli
occhi e annaspo, come se avessi passato tutto il tempo
sott’acqua. Invece sono
rimasta in superficie. Rivedere i suoi ultimi attimi di vita
è stato atroce. Avverto
un groppo in gola.
Peeta bussa
alla porta. Chiama il mio nome ripetutamente. Sembra preoccupato.
Non gli
rispondo. Non ce la faccio. Una, due, dieci, cento lacrime si mescolano
con l’acqua
della vasca. Mi soffocano. Non riesco a parlare.
Scossa dai tremiti,
mi esce un singhiozzo. Ma sento che Peeta non è
più oltre la porta. Mi alzo ed
esco sul tappeto, tutta gocciolante. I capelli appiccicati alla faccia.
Mi
aspetto l’abbraccio di Flavius con il suo morbido telo.
Invece non c’è. Non c’è
per asciugarmi.
Prendo l’accappatoio
e torno in camera. Sul letto, scoppio. Non riesco a capire che fine
abbia fatto
la coraggiosa Ghiandaia Imitatrice che pochi mesi fa studiava piani per
uccidere Snow e ribaltare Capitol City.
Ora è un
uccellino indifeso, in preda alle lacrime.
Sento la
porta aprirsi alle mie spalle. Peeta entra, poco silenzioso come al
solito.
Si limita ad
abbracciarmi. Sa che in questi casi le parole servono a poco. Lo
stringo a me,
mentre nella mia mente avviene una battaglia. Una parte vuole tenerlo
lontano,
per impedirgli di soffrire vedendomi così. L’altra ha bisogno
di lui, la
necessità di averlo accanto, sempre.
La seconda
parte di me vince e passiamo la notte insieme, stretti l’uno
all’altra.
Nessun
incubo fa capolino quella notte. Solo alcuni sogni che, nonostante la
loro
innocenza, mi turbano. Mi agito lievemente nel sonno, mentre rivivo
quei
momenti.
Sono con Gale,
nel nostro piccolo
rifugio, parlando degli Hunger Games. Io prendo una mora dal cespuglio
vicino e
la mangio, gustando la sua dolcezza e asperità che insieme
formano proprio un
buon sapore.
Sento il mio migliore amico inveire
contro Capitol City, contro la crudeltà alla quale ci
sottopone da
settantaquattro anni. Non riesco a comprenderlo pienamente. Forse
perché non m’interessa
più di tanto.
Non mi preoccupo nemmeno per Prim. Il
suo nome c’è solo una volta. Quante
probabilità ha di essere estratta?
Pochissime.
Era il
giorno della Mietitura. Me lo ricordavo bene. Era iniziato tutto
allora. Respiro
profondamente mentre ripiombo nel sogno e la coscienza mi abbandona.
Sono seccata con
Gale. Sta qui a
parlarmi di Capitol City mentre potremmo cacciare. Forse ha ragione.
Con tutti
questi Pacificatori in giro è un vero rischio. Ma a me il
rischio piace. Guardo
il sole, quasi al culmine, e capisco che è ora di andare.
Devo preparami per
questo stupido giorno della Mietitura. Un giorno nel quale sono scelte
ventiquattro persone di cui solo una si salverà.
Dopo aver pescato lascio Gale e mi
avvio verso il Prato. Varco il recinto di metallo, quasi mai
elettrificato, e
prendo la strada di casa. Trovo mia madre e mia sorella ad aspettarmi.
Percepisco lo spavento e la preoccupazione negli occhi di
quest’ultima e mi
tornano in mente le parole che le ho rivolto stamattina presto.
“È il tuo primo anno, Prim. Il tuo
nome è lì dentro per la prima volta.”
Lei ha annuito e ha accennato un sorriso.
Mi sono fermata a guardare il suo bel visino, fresco come una goccia di
pioggia
e incantevole come la primula da cui ha preso il nome.
Le accarezzo i lunghi capelli biondi
che mia madre ha acconciato con accuratezza per il giorno della
Mietitura.
“Sei bellissima, ” le dico, “ma tieni
dentro la coda, paperella.”
Una
lacrima
mi solca la guancia nel sonno. Peeta, inaspettatamente, la cattura con
un
bacio. Soffoco un gemito.
Mia madre ci
guarda, poi mi dice di
avere qualcosa per me, nella mia camera. Mi lavo velocemente con acqua
piovana
e guardo cosa mi aspetta sul letto. L’abito blu di mia madre.
E delle scarpe in
tinta. Era l’abito che usava quando viveva ancora una vita da
commerciante
insieme al nonno. Mi mordo un labbro mentre lei mi arriva alle spalle e
inizia
a intrecciare silenziosa i miei capelli.
Allungo una
mano per stringere Peeta, ma mi accorgo che la sua parte del letto
è quasi
fredda. Apro gli occhi e poco dopo lo vedo tornare con una tazza
fumante di tè.
“Forse è un
po’ troppo dolce, ” mi dice guardando il pavimento.
Io assaggio la bevanda
bollente e provo un moto di gratitudine verso di lui. Mi avvicino per
dargli un
bacio. Lui sembra sollevato.
Finito il
tè, ci sdraiamo nuovamente sul letto e mi accovaccio contro
di lui. Lui mi
avvolge con le sue braccia e mi sento al sicuro. Prima di riprendere
sonno, mi
balena di nuovo un’immagine nella mente. Stringo saldamente
la sua maglietta e
mi trattengo dal versare altre lacrime.
Rivedo un’ultima
volta Prim guardarmi preoccupata mentre le sistemavo la camicetta nella
gonna,
prima di addormentarmi.
“…ma tieni dentro la
coda, paperella.”