Ciò che è rimasto
In una fredda mattina di metà marzo, una delle tipiche giornate uggiose che
si susseguivano a Londra tutte uguali e che perciò parevano fatte con lo
stampino, Rose si svegliò con un feroce mal di testa. Aveva sognato di
galleggiare nel vuoto, impigliata come un pesce in un mare fatto di stelle, la
risata di uno sconosciuto nelle orecchie a riscaldarla e una mano a trattenerla
a mo’ di amo ad una porta aperta. Le ultime scintille di sonno le annebbiavano
ancora gli occhi, scintille blu in qualche modo, di un blu caldo e familiare,
nostalgico.
Il colore dei sogni dopo
che si sono avverati e si è lì lì per vederli sgretolarsi tra le dita.
Si alzò trascinandosi in cucina e facendosi cadere di peso sulla sedia
più vicina, di fronte alla tavola per metà apparecchiata. Nella luce
abbagliante della stanza, scoccò uno sguardo assassino alla figura allampanata che
fischiettando mischiava la pastella per le cialde con un’allegria che lei
avrebbe definito solo detestabile.
All’inizio era stato divertente, ricordava vagamente, vederlo
affaccendarsi intorno ai fornelli di prima mattina, fare cose improponibili per
chiunque altro essere umano ben prima dell’alba, parlottare con voce squillante
e acuta. Quella fase però era durata poco, incredibilmente poco. Ora sentiva
solo un forte impulso omicida nei confronti dell'uomo che con una
mano le versava del caffè bollente nella tazza di Totoro e con l’altra
rivoltava frittelle come se non avesse mai fatto altro nella sua vita. John,
fiutando l’aria, smise di canticchiare la sciocca canzoncina di Ben Ten che
Tony adorava, appoggiò l’ultima frittella in cima alla pila di quelle già
ammucchiate nel piatto alla sua destra e si voltò verso di lei con un sorriso
appena meno smagliante del solito.
– Uhm, buongiorno? – tentò per saggiare il terreno. Rose rispose con un
mugugno incomprensibile poggiando la testa sulle braccia conserte. Lui capì
l’antifona. Lo sentì blaterare qualcosa a proposito di orari e asilo e sparire
nel corridoio in direzione della camera degli ospiti, a conti fatti diventata in
tutto e per tutto di suo fratello. Nel silenzio dell’appartamento si udì in
successione un grido, un tonfo e i rumori inequivocabili di una lotta di
cuscini, poi John tornò con il capo impiumato e appoggiato al braccio ora, la
testolina bionda e ricciuta sulla spalla, il visetto aggrottato premuto contro
il collo, c’era Tony. Chiaramente il risveglio doveva essere stato traumatico
come nel suo caso, ma quando John glielo sistemò sulle gambe, suo fratello si
dimenava già come un’anguilla. Troppo vitale e chiassoso, protestò la sua testa
in tono lamentoso.
– Attento a tua sorella – lo ammonì passandogli un bicchiere di latte e
delle frittelle. - Ha un’espressione che non mi piace per niente, proprio per
niente. –
La bocca già piena, Tony si voltò verso di lei per controllare di persona
e sputacchiò poche parole: - Che espressione? –
John si avvicinò sorridendo e gli scompigliò i capelli facendolo dimenare
ancora di più e costringendo lei a tenerlo fermo acchiappandolo al volo, prima
che le cadesse sfuggendo al suo abbraccio. Sbuffò e John le puntò contro il
ramaiolo indicandola al fratello. Vedi, pareva dire.
Sbuffò di nuovo, più forte. Suo fratello si limitò a studiarla a sua
volta, concentrato, masticando lentamente un biscotto ai cereali.
Memore di quanto successo poco prima lo ingoiò e poi disse: - Sei
arrabbiata. –
Il fastidio le si sciolse dentro come nebbia in una giornata di agosto. –
No – si affrettò a rassicurarlo. – Non sono arrabbiata. –
- Sembra di sì – insistette lui. – Ora invece sei anche triste. –
Rose ingoiò a vuoto. Le parve che il tramestio ai fornelli si fermasse e
poi ricominciasse, più urgente e fragoroso di prima. – Non lo sono. È che ho
fatto un sogno… -
- Che tipo di sogno? – proseguì Tony. – Uno di quelli brutti coi mostri?
- Aveva i baffi di latte e suo malgrado, Rose si ritrovò a combattere contro
l’impulso di ridere e piangere contemporaneamente. – Non proprio. Era un bel
sogno, sai, ma anche brutto. –
Suo fratello corrugò le sopracciglia. In quel momento era uguale a sua
madre, la stessa aria intollerante e poco paziente. Non capiva cosa volesse
dire, il ché lo portava ad irritarsi facilmente.
– Ho sognato un amico – gli spiegò con dolcezza. Questa volta non fu
un’impressione, ma una certezza che John stesse ascoltando fingendo di non
farlo. Con ovvi e pessimi risultati.
- È lui? – Tony indicò John. – Quello di cui mi parlate sempre? Suo fratello? –
- Fratello? – ripeté Rose e sgranò un’occhiata sconcertata. Che storia
era quella?
- Sì, Rose, mio fratello. – John fu lesto a rispondere e le fece cenni da dietro la caraffa di succo d’arancia. –
Quello un po’ pazzo – roteò un dito al lato della tempia, come a sottolineare
la stravaganza del soggetto in questione e Tony rise.
- Oh, tuo fratello – assentì lei rapidamente con uno sguardo d’intesa. –
Ma certo. –
- Allora? – Tony si girò di nuovo verso di lei, incalzante. – Hai sognato
lui? -
Rose si trovò a corto di parole. – Non proprio – borbottò alla fine,
evitando di incrociare lo sguardo di entrambi. Prese un pezzetto di cialda dal
piatto del fratello e se lo portò alle labbra, sperando che quello bastasse ad
eludere altre domande insidiose. Non aveva fatto i conti con la curiosità
sfacciata e senza freni di Tony. – E tu
non sei geloso? - chiese infatti a John.
Il boccone rischiò di andarle di traverso. John sorrise, ma era un
sorriso che non gli raggiungeva gli occhi, uno di quelli che gli aveva visto
rivolgere tante volte quando doveva mentire o fare qualcosa di spiacevole. – Un
po’ – ammise, stringendosi nelle spalle con naturalezza. – Ma è pur sempre mio
fratello, no? Sarebbe come essere gelosi di se stessi. E poi io rimango il più
bello tra i due – concluse pavoneggiandosi.
Lei si sentì stringere il cuore e fece per dirgli qualcosa, ma lui non la
guardava. Per un momento pensò che avesse distolto l’attenzione concentrandola di
proposito sulla finestra aperta, ma poi qualcosa di piccolo, quadrato e bianco
piombò giù dal cielo come una cometa luccicante, attraversò le tende azzurre e
prese a ronzare in tondo nella stanza, sotto gli occhi sgranati suoi e di Tony
che spalancò anche la bocca. Suo fratello si sbrodolò il latte che stava
bevendo sul mento, ma Rose non ci fece caso, tutta presa dal registrare la
reazione di un’altra persona nella stanza. John prese a battere le mani e
scoppiò a ridere. Si issò in piedi su una sedia e arrabattò le dita verso il
contenitore luminoso che girava attorno alla luce del soffitto, come una falena
attratta dal calore di una fiamma. Lo catturò e sembrò quasi che volesse
portarselo al cuore tanto felice appariva.
Quando ebbe rigirato più e più volte tra le mani l’aggeggio con un
sorriso beota stampato in viso e senza spiegarle nulla, Rose decise di averne avuto
abbastanza di quell’atmosfera misteriosa. - Che diavolo è quella cosa? – domandò
accigliata.
John non parve far caso al suo malumore. Le riservò un sorriso accecante in
risposta.
- C'è posta per me! – urlò raggiante. Lei lo fissò sbigottita. – Cosa? -
Il sorriso di lui s’incrinò un poco mentre scendeva dalla sedia e le
passava il contenitore che ora aveva smesso di fremere. E che al tatto, a
dispetto di ogni sua opinione, si rivelò freddo come ghiaccio. Rose dovette
lottare con Tony perché non lo toccasse, malgrado il professore le avesse
assicurato che fosse assolutamente innocuo. Si trattava di un aggeggio alieno,
in fondo, e non desiderava scoprirne gli effetti o l’utilizzo a discapito di
nessuno, men che meno di suo fratello di cinque anni. - Sistema di
messaggistica di emergenza dei Signori del Tempo – stava dicendo in quel
momento John. - In un'emergenza inscatolavamo pensieri in contenitori psichici
e li spedivamo nello spazio e nel tempo(1). –
- Sembra interessante – disse lei, non sapendo cos’altro aggiungere.
- Di più! Sai questo cosa significa? –
Di fronte alla sua espressione confusa, lui parve deluso, ma si riprese
velocemente.
- Chi può averlo inviato? – le
chiese arricciando la bocca in una specie di sberleffo.
E allora Rose capì. L’arnese nella sua presa non si agitava più
dibattendosi, ma emanava un acuto, prolungato, inconfondibile ronzio. Il ronzio
che lei aveva ascoltato tante volte da perderne il conto, quello di un
cacciavite sonico. Si ritrovò a sorridere quasi senza accorgersene. Non
riteneva più il sogno di quella notte qualcosa di crudele, adesso, ma anche
quello parte del messaggio.
- Cosa dice? - chiese in fretta.
Troppo in fretta, la rimproverò lo sguardo ferito di John. Tony, ancora seduto
sulle sue gambe e intento a far dardeggiare i vivaci occhi scuri da lei al
professore come in una partita di ping pong, fu l’unica cosa a trattenerla
dall’alzarsi per correre ad abbracciarlo. – Cosa dice? – richiese più calma,
abbassando la voce.
John le accarezzò i capelli e con il pollice le sfiorò quasi per caso il
centro della fronte trasferendole nella mente numeri e cifre e parole precise.
Coordinate e una data.
La fissò e nei suoi occhi c’era una sorta di tristezza e
rassegnazione.
Come se avesse accettato da tempo qualcosa che lei non riusciva a
vedere. – Sta
arrivando – si limitò a risponderle scrollando la testa.
Le piume rimaste caddero in una pioggia bianca attorno al suo volto
serio. – Il Dottore
sta arrivando. -
*
- Sì, mamma è all’asilo! Per chi mi prendi? Certo che ho contattato
Donna. Andrà a prenderlo all’uscita e poi lo porterà a casa sua. Si, lo so. Ma
se lo adora! Come devo dirtelo che non era una reazione allergica? L’infermiera
al pronto soccorso fu piuttosto chiara, si trattò di indigestione. Come osi
dire che… -
- Oh, per l’amor del cielo. – John le strappò il
cellulare di mano prima
che lei potesse fare alcunché e se lo portò
all’orecchio con un’espressione
irritata. – Ciao, Jackie – salutò in tono snervato.
– No, no. Sì, stiamo bene,
siamo arrivati, abbiamo mangiato e dormito e… - lo vide
arrossire e arrossì a propria volta mentre lo guardava
strozzarsi con uno scandalizzato “Jackie”.
Rose gli diede le spalle e prese a passeggiare lungo la spiaggia
allontanandosi
un poco. Lo ascoltò dire qualche altra frase di rassicurazione e
finalmente il mostro all’altro capo parve convincersi a porre
fine alla
telefonata. – Ok – lo sentì chiudere. - Stammi bene,
Jackie e saluta Pete.
Buona luna di miele. -
John la raggiunse e le passò il cellulare, che lei ripose nella tasca del
giubbotto con un sorriso che era estenuato e divertito insieme.
– Rose, devi giurarmi una cosa – pronunciò convinto. - Che non diventerai
mai, mai così. –
Il sorriso le si fece più marcato e scoppiò in una risata autentica allargando
le braccia e facendo una piroetta su stessa, ad occhi chiusi. Li riaprì quando
percepì la mano di John attorno alla sua che la tirava, come chiedendole di non
lasciarlo indietro. Il suo viso era a un tiro di schioppo dal suo. Sarebbe
bastato allungarsi di poco, sporgersi sulle punte per dargli un bacio.
Distolse con forza gli occhi dai suoi e l'udì trarre un respiro
profondo. Non gli lasciò la mano, ma cominciò ad osservarsi attorno con aria agitata.
Lanciò un’occhiata inquieta all’orologio che portava al polso. - Fra quanto
credi che arriverà? – domandò tesa.
– Manca poco – la rassicurò lui. – Tranquilla. –
Più facile a dirsi che a farsi.
- E se non riuscisse a venire? E se… fosse una specie di trappola? –
John sospirò, ma non si irritò. Non era la prima volta
che dava voce a
quei pensieri, ma lui la confortava ogni volta, spiegandole la faccenda
come se
fosse la prima che fosse costretto a farlo. Rose si aspettava quindi la
solita
risposta, studiata sul fatto che il messaggio fosse stato esplicito al
riguardo, che il luogo, la data e l’ora fossero esatti e che non
ci fosse nulla
di cui preoccuparsi in merito. – Verrà – disse
inaspettatamente John, sorprendendola. – Si tratta di te,
Rose. Non potrebbe mai deluderti. –
Avrebbe voluto ringraziarlo, invece si limitò a stringergli con maggiore forza
la mano e ad affiancarglisi. Le loro braccia si sfioravano e per un attimo rimase
indecisa se appoggiarsi del tutto a lui. Il timer che aveva regolato giorni
addietro suonò proprio in quel momento emettendo un bip prolungato. Quasi saltò
sul posto, rischiando di inciampare per il sobbalzo, ma John la trattenne.
- Non è ridicolo? – gli chiese forzandosi in un sorriso. Si sistemò i
capelli dietro un orecchio fissando il mare in lontananza. – Che io sia così
nervosa… - chiarì, ma si interruppe mordendosi il labbro.
- Non lo è affatto. – Fu lui stavolta a rafforzare la presa delle loro
dita intrecciate. Le indicò un punto preciso, metri avanti a loro. – Arriverà
lì a momenti. Tienti pronta. –
Rose annuì, rilassando i muscoli delle spalle che aveva tenuto contratti
fino a quel momento. Inarcò la schiena e raddrizzò la testa. – Bene così –
approvò John al suo orecchio.
Ma il Dottore non arrivò. Né in quel punto né nei minuti successivi. E
proprio quando lo sgomento stava per cedere il passo alla delusione, un uomo
che non era il Dottore sbucò fuori dal nulla a pochi metri dal punto in cui
avrebbe dovuto comparire il Dottore. Fu strano, come se qualcosa l’avesse
spinto e rischiò di cadere incespicando nei suoi stessi piedi. Non cadde però e
si rimise su con una certa prontezza sciolta, aggiustandosi i risvolti della
giacca di tweed sulla camicia e raddrizzandosi quello che anche ad una distanza
moderata Rose riuscì a distinguere comunque per un farfallino.
Lo sconosciuto rivolse ad entrambi uno sguardo allucinato, poi prese a
gesticolare al vuoto e ad inveire contro qualcuno. Non riuscirono a sentire
cosa dicesse esattamente per colpa del vento, ma pareva molto arrabbiato.
Rimase fermo ad un certo punto, con un’aria concentrata come se ne stesse
ascoltando la risposta. Lo videro scuotere la testa più e più volte, allargare
le braccia in un gesto esasperato e poi voltarsi verso di loro con un’espressione
confusa e tormentata, visibilmente indecisa.
– Chi è quello? – chiese Rose a fior di labbra.
John aveva la fronte aggrottata mentre fissava insieme a lei quello
strano ragazzo. – Non lo so – disse infine, lo sguardo insolitamente duro, – ma intendo scoprirlo. –
*
Vedendoli avvicinarsi, il ragazzo andò nel pallone. Letteralmente. Cercò
di muoversi contro il vuoto, come se volesse attraversarlo e fosse bloccato da
una specie di muro invisibile. Batté i pugni nel nulla, ma alla fine desistette.
Assomigliava a un mimo, solo che era mille volte più buffo. Le scappò una
risata. L’espressione di John era stupita.
– Scusa – biascicò lei tra le risate, - ma è davvero buffo. –
John annuì, ma si sforzò di mantenere un’aria grave, riuscendoci alla
perfezione nonostante un arricciamento sospetto alle labbra. – Dovremo rivedere
le tue priorità per quanto riguarda ciò che è davvero divertente, Rose. Ora
occupiamoci di una cosa per volta. –
Il ragazzo li attendeva con simulata calma, immobile. Si dondolava sui
talloni e giocava con le mani, guardandole come se non sapesse bene cosa farci.
Quando gli furono di fronte, indirizzò loro un gran sorriso. – Ehilà – scandì a
voce alta alzando una mano in segno di saluto.
- Ehilà – ripeté lei, un po’ incerta.
Lo sguardo del ragazzo aveva cercato per tutto il tempo di non fissarsi
su di lei, se n’era accorta, ma ora sembrò che non potesse farne a meno e la
guardò studiandola in silenzio, scuro in volto. I suoi occhi che erano verdi,
registrò Rose, saettarono da lei a John alle loro mani unite e parve che
volesse sorridere, ma non ci riuscisse.
John interruppe quel gioco di sguardi. – Sei tu? – domandò in tono
severo.
- Er… dipende da cosa intendi per “tu”. Io sono io e non so se l’io me
stesso corrisponda al tu che cerchi tu – rispose velocemente.
John strabuzzò gli occhi. – Cosa?
–
Il ragazzo sembrò a sua volta confuso. – Devo ripetermi per forza? – chiese.
Qualcosa disse a Rose che preferisse non farlo per la verità.
Si mise ad osservarlo d’impegno. Era alto e dinoccolato, con i capelli
castani abbastanza lunghi e un modo di fare nel suo sbracciarsi continuamente
che risultava davvero comico per chi lo guardava. Era quasi sicura di non
averlo mai incontrato prima, ciò nonostante aveva anche la netta sensazione di
averlo già visto da qualche parte in passato. Aveva qualcosa di familiare.
- Ciò che ti sto chiedendo – ridisse John cercando di dominare il
fastidio, - è se sei chi penso che tu sia. –
- Aspetta. – Era la prima volta che parlava, escluso quell’incerto
“ehilà” iniziale e gli occhi di entrambi le si puntarono contro come i fari di
una macchina. – Mi stai dicendo che… - iniziò, mentre un’intuizione cominciava
a farsi strada dentro di lei con il riguardo di un uragano. – Tu, - gli puntò in
petto un dito tremante, – tu sei il
Dottore? –
Il ragazzo, no il Dottore, si
corresse, la guardò con occhi malinconici. Allargò le braccia.
– Dimmelo tu – rispose.
Rose sentì un groppo formarsi in gola. In un primo momento pensò che
fosse l’emozione del momento, ma poi capì. – Sei tu. –
Il Dottore sorrise e fu davvero il Dottore. – Già.-
- No – pronunciò a fatica e strinse le mani serrandole per la rabbia. –
Sei tu! Tu… tu… -
- Ehm – il Dottore si grattò una guancia, palesemente disorientato da
quella reazione. – Forse dovresti abbassare la cornetta. –
- Tu, io… da bambina… - provò lei. – Argh! – e gli si lanciò addosso.
Il Dottore fece un salto all’indietro d’istinto e sempre d’istinto riuscì
a bloccarla per i polsi, guardandola dimenarsi ad un soffio dal suo viso, terrorizzato.
– Potresti gentilmente fare qualcosa? – domandò all’indirizzo di John, fermo a
pochi passi a gustarsi la scena.
- Intervenire? Io? – John s’indicò. Era il ritratto della serenità e
sembrava stesse veramente divertendosi. Peccato fosse a loro spese. – E perché
mai? Me la sto godendo un mondo! Non rosso e scortese, ricordi? – concluse
ridendo.
- Rose… - il Dottore tentò di chiamarla un’altra volta, esasperato. –
Rose, ti prego! – supplicò e lei cedette. – E va bene! – sbottò, mollandogli un
unico pugno, piccolo e letale e potente, sulla spalla.
– Ma davvero… - ricominciò rifilandogli un’occhiata tagliente. – Mentirmi
a quel modo. Mi hai fatto credere per anni di essermi immaginata tutto. –
- Amico immaginario – il Dottore ripeté, sfregandosi il mento. – Perché
questa cosa mi suona familiare? –
John li osservava in silenzio, senza più sorridere ora. Non era stata
molto precisa, ma lui pareva aver capito lo stesso la situazione. E che la cosa
non gli andasse a genio. – Quanto tempo dopo ti sei rigenerato? – chiese Rose.
Il Dottore sembrava a disagio. – Poco – rispose sviando il suo guardo.
- Ti ho chiesto quanto – ripeté lei indurendo appena il proprio.
Il Dottore annuì, in una specie di consenso. – Qualche mese credo. –
- Hai viaggiato con qualcun altro da allora? –
La propria voce aveva assunto alle sue stesse orecchie una sfumatura che
non le piaceva per niente, ma sia il Dottore che John sembrarono non badarvi, o
meglio fingere di non accorgersene.
- Una coppia di coniugi. I Pond – le spiegò il Dottore con inflessione
trillante, agitandosi sul posto più irrequieto che mai. – Gente simpatica, Amy e
Rory. L’ultimo centurione e la bambina che ha aspettato. A- do- ra- bi- li –
pronunciò distintamente battendo ogni sillaba col dito.
Rose lanciò un’occhiata cauta alle proprie spalle, verso John. Era sconvolta.
– Dici che sta bene? Non è che ha ricevuto una botta in testa o qualcosa di
simile, giusto? –
John prese a fissare il Dottore scuotendo impercettibilmente il capo,
disturbato. – Rose, temo si comporti in questo modo di solito. Normalmente –
concluse caricando d’enfasi l’ultima parola.
- È che è così… - cercò una termine per esprimere la cosa confusa e
turbinante che sentiva rimescolarsi dentro di lei. La trovò. - …diverso. -
- Ed è un male? – Era stato il Dottore a porle quella domanda e lei si voltò
colpevole. Per calmarsi prese a stringersi le dita. Grazie al cielo, il dolore
le svuotò la mente rendendola un po’ più lucida.
– No… - farfugliò abbassando di colpo gli occhi sulle sue scarpe. Il
Dottore indossava stivaletti di pelle nera e i pantaloni erano troppo corti,
lasciavano scoperta una porzione di caviglie, pur se piccolissima. – Non lo so.
Io… - rialzò la testa e incrociò lo sguardo paziente del Dottore. Era
tranquillo, come un condannato che attende il verdetto dal giudice, ma qualcosa
nei suoi occhi, ora verdi, ora più tristi che mai, la fece sussultare. C’erano
passati entrambi già una volta, ricordò, e in quella occasione lei aveva
commesso un errore. Non se ne sarebbe permessa un secondo. Prima di rendersene
conto, gli aveva buttato le braccia al collo stringendolo come se da quello
dipendesse la propria vita. Dopo un attimo d’incertezza dovuto alla sorpresa,
il Dottore rispose all’abbraccio anche se goffamente, dando l’impressione che
non ci fosse avvezzo.
– Mi sei mancato – bisbigliò trattenendo a stento le lacrime e
ricacciandole indietro per dopo, quando ci sarebbe stato davvero di ché
piangere.
- Anche tu Rose Tyler – il Dottore si staccò un poco allentando la presa
delle sue mani che allora afferrarono un’estremità della giacca marrone, come
se non volessero lasciarlo del tutto. Una parte di lei nutriva ancora il
terrore che le scomparisse sotto agli occhi. Il Dottore le diede una carezza
sulla guancia che era più un buffetto gentile. – Ma eri in buone mani –
continuò lanciando un’occhiata insondabile a John che gliene restituì una
identica.
– Beh… - disse lei tendendo una mano a John e formando quindi una specie
di catena umana, - a quanto ne so vale lo stesso anche per te. – Gli sorrise e il
Dottore la fissò, increspando le sopracciglia con perplessità. – Ehm… mi sono
perso qualcosa? –
Rose fece per rispondere, ma John fu più veloce e il tono che usò fu
asciutto. – Il tuo matrimonio – disse. – Parla di quello. –
- Oh… - esalò il Dottore andando in iperventilazione e facendo zigzagare
lo sguardo attorno senza posarlo su di loro. Deglutì in preda all’imbarazzo. –
Voi avete… oh. –
- Sei arrossito? È davvero arrossito? – chiese conferma a John per
precauzione. John si ficcò le mani in tasca portandosi proprio accanto a lei,
le spalle ingobbite e prese a elencare tra sé, rivolto al cielo annuvolato: –
Ancora non rosso, fronte strana, un’insana passione per i cravattini e per di
più arrossisco. Cosa può esserci di peggio? Ah, già – contrasse la bocca in una
smorfia come ricordandosi di un particolare odioso. – Sei sposato. -
Rose non capiva i motivi di quell’astio, non più almeno, riconobbe con onestà a se stessa, e per il Dottore
sembrava essere lo stesso. Fissò con curiosità John. – Perché ho come la
sensazione che la cosa ti infastidisca? –
- Tu sai cosa accadrà – replicò John, infuriato. – Lo hai sempre saputo.
–
- Sì. –
La rabbia di John si smontò di botto mostrandosi per quello che era:
preoccupazione e dispiacere per quella parte di sé sempre destinata alla
solitudine bruciante, al dolore della separazione.
Era basito. – E lo stesso hai deciso di… -
- Mi sbagliavo – lo interruppe il Dottore incrociando le braccia in
petto. – Sei meno Signore del Tempo di quel che pensassi. –
- Disse quello sposato. –
- Perché fissarsi così su una parola? – scattò lui spalancando gli occhi.
– Dottore, sposato, cravattini. I cravattini sono cool – dichiarò sistemandosi
il suo.
- Amico immaginario – perseverò John e suonò severo. Rose era ormai
sicura che avesse davvero compreso quanto fosse accaduto poco prima e le parole
successive di lui le dimostrarono che aveva ragione. – Non posso credere che tu
abbia fatto una cosa così stupida. Andare a trovare Rose da bambina. Avresti
potuto scombinare l’equilibrio del tessuto dell’universo e solo per un tuo
capriccio! -
- Ma non è successo – obiettò il Dottore in un tono sereno che non
accettava repliche. – Non parliamone più. –
La discussione però non sembrava risolta e Rose si guardò attorno,
cercando qualcosa che vi mettesse fine una buona volta. – Dov’è il Tardis? –
s’informò all’improvviso.
Entrambi si girarono e le loro espressioni identiche, di sorpresa e
rimprovero per averli interrotti, la fecero scoppiare a ridere. Le sorrisero,
ammorbiditi dal suo buonumore.
Il Dottore si schiarì la gola. – Allora… chi vuole fare un tour nel
Tardis? – propose e li guardò, come se si aspettasse che alzassero una mano
saltellando sul posto o diventassero scalmanati buttandolo con le gambe
all’aria e travolgendolo per l’eccitazione del momento. Insomma che si
comportassero come fan scatenati di un qualche cantante o divo.
– Ok – disse, leggermente deluso dalle loro mancate dimostrazioni
d’entusiasmo. Fece un passo in avanti nel vuoto e bussò su un muro invisibile.
Rose poté sentire il rumore delle nocche che colpivano qualcosa, ma non
successe nulla. – Com’è che non si vede a proposito? – chiese interessata a
John.
– Ha messo lo scudo esterno su invisibile(2) – le illustrò
subito.
– Uhm… cara? – provava intanto il Dottore. Diede loro le spalle e accostò
il viso. – Potresti aprire… - una pausa d’indugio e poi un sospiro. – Per piacere? –
La porta o il vuoto, che dir si voglia, si aprì per magia riversando una
luce calda e aranciata sul Dottore. Rose allungò il collo per spiare
all’interno. John al contrario si mosse rapidamente, appena una ruga di dubbio
a solcargli la fronte. Avanzò rapido oltrepassando il Dottore sulla soglia e
sparì all’interno. Il Dottore non lo seguì. Si voltò verso di lei invece e le
tese una mano. Rose non la prese. Stava pensando a qualcosa e quell’idea le
martellava incessantemente contro le tempie e le faceva battere il cuore ad una
velocità inaudita. – Prima mi hai abbracciato come se non mi vedessi da anni –
disse guardandolo dritto in faccia. Il Dottore abbassò il braccio lentamente.
– Tecnicamente sono davvero passati anni dall’ultima volta. –
- No. – Rose s’impuntò, ostinata. – È stato diverso – prese un respiro
profondo e poi come se non fosse niente di speciale, aggiunse: - Quanto? –
Il Dottore la guardò con occhi stanchi e incerti.
Lei si sentiva sospesa nel nulla. Le mancava l’aria e il petto le doleva.
– Poco fa parlavi di anni. Quanti ne sono trascorsi? Quanti anni hai, Dottore?
–
Lui esitò appena.
- Ne ho 1108. -
- 200 anni – considerò lei.
John ricomparve dietro il Dottore, dando l’impressione che non si fosse
mai davvero allontanato e avesse ascoltato quel breve scambio, e lui gli si
rivolse con tono aspro: - Le hai detto quanti anni ho? –
John non si scompose. - È Rose – rispose con disarmante semplicità. – E
comunque abbiamo. Quanti anni abbiamo. Ricordi? – si picchiettò la
tempia. - Pensieri, passato, sentimenti. Tutto uguale. -
- Ma il cuore – contestò il Dottore gettandole di sfuggita un rapido
sguardo nel dirlo. – Quello è umano ed è solo tuo. –
- Quanto il tuo – convenne John. Quello zittì entrambi.
- 200 anni – articolò lei con la gola secca. Non voleva lasciar cadere il
discorso. – Stai viaggiando nel passato quindi. Io, noi – indicò se stessa e
John – in realtà siamo già morti. –
Dirlo era orribile, ma pensarlo, sentirlo sapendo di essere nel vero, era
ancora peggio.
Ecco perché non voleva dirglielo. Ecco perché il suo comportamento era
parso così ambiguo all’inizio. Non si aspettava di trovarli lì. Eppure qualcosa
non tornava. Perché se era questo che il Dottore credeva, allora come era
arrivato lì e proprio secondo l’orario e la data inseriti nel messaggio? Se non
era stato lui ad inviarglielo, allora chi…
Scambiò un’occhiata con John e comprese che lui avesse formulato i suoi
stessi pensieri. Forse era anche per questo se si era comportato così duramente
con il Dottore.
- Questo universo procede un po’ più avanti rispetto all’altro – le
rammentò John.
- Ma non così tanto – ribatté lei, - non due secoli. –
- Sì – disse il Dottore, apparendo svuotato. Se per lei o per se stesso,
era impossibile dirlo.
Rose si costrinse ad ingoiare il garbuglio d’emozioni che le allacciava
la gola. – Allora - disse cercando di risuonare leggera, - questo tour? –
Senza offrire loro l’opportunità di risponderle, si catapultò nel Tardis prima
che la malinconia o il rimpianto potessero raggiungerla.
*
Ci sono cose nella vita che piace a tutti pensare che non cambieranno
mai. Sono un po’ gli appigli a cui ci si aggrappa nei momenti cupi in cerca di
conforto. Stelle in un cielo altrimenti buio.
Nelle difficoltà, affrontando di petto i soliti problemi, guerre
intergalattiche, razze aliene pronte a mettere in ginocchio la Terra e in
schiavitù la cittadinanza umana nel migliore dei casi, o a sterminarli nel
peggiore. In tutte queste situazioni, le era sempre stato di aiuto, di
incoraggiamento sì, pensare che là fuori, anche se a migliaia di anni luce da
lei, distante e irraggiungibile, qualcuno la seguisse col ricordo e apprezzasse
i suoi sforzi.
Ed era stato bello, più che bello, uno strazio che era una banderuola nel
vento un po’ piacere un po’ tortura, immaginarlo correre sulle grate attorno alla consolle, nel completo blu e nella
luce azzurrina della sala di comando. Un eroe senza calzamaglia, ma con tante
cicatrici dietro lo sguardo da far sembrare cieca la giustizia per le troppe
volte in cui lui si era dovuto accollare le sue ragioni d’imparzialità. Giusta
nel mostrare ingiustizia a tutti, indistintamente.
Per questo e per mille altri motivi tanto più egoistici, mettendo piede
nel Tardis Rose sentì rompersi qualcosa. - Cosa è successo qui dentro? –
Si guardò attorno sbalordita e anche ferita nell’incredulità. L’interno
era completamente diverso da come lo ricordava. Nuovo e più scintillante, meno
vissuto. Sedili, si accorse. C’erano dei sedili! John non sembrava impressionato,
ma c’era qualcosa nel modo circospetto in cui si aggirava, prendendo nota di
ogni novità con un corrugamento di sopracciglia o un’aria accigliata, che le
disse che in realtà lui fosse scosso quanto lei da quei cambiamenti. Più di
lei.
Il Dottore si strofinò le mani con un sorriso gioviale, senza
accorgersene. – Allora? Che te ne pare? Ti piace? -
No, avrebbe voluto dire, ma non era più una ragazzina, non aveva vent’anni,
il cuore spezzato se lo era ricucito da tempo ed era successo troppo, davvero
troppo dacché aveva dovuto dire addio a tutto quello. – Credo di sì. Sì, mi
piace – disse con maggiore vigore.
Il Dottore non sembrava stare in sé dalla gioia. – E a te? – rivolse la
stessa domanda a John che a differenza sua, però, non badò a nascondere il
cruccio.
- Cos’è successo al Tardis? –
- Nuovo Dottore, Tardis nuovo. –
- Ma…- s’intromise Rose guardando ora l’uno ora l’altro. – Quando tu eri
come lui e ti sei rigenerato non è successo. Perché? –
Il Dottore non perse il sorriso smagliante. Al contrario la sua
osservazione parve divertirlo immensamente. Allargò le braccia. – Non ne ho la
più pallida idea! – svelò candidamente.
Suo malgrado, si ritrovò a ricambiare il sorriso, conquistata da
quell’allegria.
Il cellulare nella tasca iniziò a vibrare. Lo prese e leggendo il nome
sul display, notò anche il poco campo. John le si appressò e lei formulò con le
labbra “È Donna”. Lo vide annuire più tranquillo. Si rivolse al Dottore. - C’è
un posto dove posso rispondere? È urgente. –
- Certo – assicurò il Dottore. – C’è sempre la biblioteca. Solo, attenta
alla piscina d’accordo? –
Rose fece segno di sì, grata e allontanandosi poté già sentirli discutere
a proposito della disposizione delle stanze. Scendendo i gradini sorrise nella
penombra e rispose.
*
Rimasti soli, lui e il Dottore non si erano scambiati molte parole. C’era
una sorta di riserbo, di prudenza, ecco, che li frenava dal chiacchierare tra di
loro. Giocherellò con il bottone del cappotto, tanto per fare qualcosa.
- Ci sta mettendo un sacco – fece notare il Dottore.
John rialzò lo sguardo, un po’ stupito. – Era la baby-sitter del
fratello. È una chiacchierona quella donna – cercò di imprimere alla frase la
giusta nota di critica, ma fallì miseramente. - La terrà impegnata come minimo
un altro quarto d’ora – si sentì in dovere di avvisarlo.
Il Dottore scrollò le spalle in
quello che a lui parve voler significare un “Tanto meglio per noi, allora”. Si
preparò ad un lungo e pietoso discorso, ma venne sorpreso nuovamente.
– Tony, giusto? – domandò voltandosi, la schiena e le mani appoggiate al
bordo del pannello di comando. – Si chiama così se ricordo bene. –
- Sì. –
- E… - il Dottore lasciò cadere la frase nel vuoto, ma lui capì
ugualmente.
- Com’è? – completò. Il Dottore annuì, la testa reclinata su un lato. – È
un bambino sveglio. Ride molto, parla sempre. Assomiglia a lei. –
Entrambi sorrisero per un attimo. Il Dottore si toccò distrattamente il
polsino della camicia. Si era tolto la giacca e per John era stato uno spasso
scoprire le bretelle che aveva solo intravisto prima.
- Sa di me? – chiese evitando di guardarlo direttamente.
- Nella misura in cui ti conosce come l’uomo coraggioso che ha salvato
una mezza dozzina di volte la Terra, l’amico più caro di Rose e il mio fratello
girovago. –
Il Dottore alzò la testa di scatto, sconcertato. – Tuo fratello? -
John fece spallucce. – Come altro avrei dovuto spiegare ad un bambino il
fatto che siamo identici? – aggrottò la fronte. – Naturalmente questo era prima
che tu decidessi di rigenerarti. –
- Deciderlo? – fece eco lui e il tono tranquillo, misurato, gli ricordò
il modo in cui una lastra di ghiaccio comincia a spaccarsi e poi a rompersi in
pezzi sempre più grandi, più veloci. Impossibili da prevedere. Gli ricordò la
propria rabbia.
- È quello che avrei fatto io – si
difese. – Forse – aggiunse, incerto.
- Non è vero e lo sai. Ma è successo e sono dovuto andare avanti. Dopo… Ho
incontrato altre persone, combattuto e fatto quel che potevo. Alcune volte è
bastato, altre non è stato abbastanza. –
Aveva gli occhi serrati e puntati sul muro.
- La ami? –
Il Dottore gli scoccò un’occhiata incredula.
- Intendo River – precisò lui, trovandosi a roteare gli occhi. – La ami?
–
Il Dottore si contorse mentre protestava: - Che razza di domande sono
queste? Non ricordavo di essere così pettegolo. –
John non se ne curò. – Sì – stabilì deciso. – Nel modo strambo in cui ami
anche tutti gli altri, ma un po’ di più. –
- E tu? – domandò il Dottore. - Ti manca mai tutto questo? – il suo
braccio tracciò una parabola circolare spaziando tutt’attorno.
- Certo – rispose lui, scontroso. – Certo che mi manca, ma ho Rose –
aggiunse più pacatamente – ed è abbastanza. Anzi è più di quanto mi sarei mai
aspettato di ricevere. –
- Sembra felice – osservò il Dottore quasi con distrazione, fissando il
punto in cui Rose era scomparsa. Ma lui capì che era un grazie e un complimento
e tante altre cose un po’ meno felici. Si strinse nelle spalle con
disinvoltura. – Faccio del mio meglio, anche se non sono te. –
Avrebbe potuto leggerla come sfida o come un pretesto per litigare, ma
era il Dottore e non raccolse il guanto. – Ma è te che ama – disse in tono
d’ovvietà. L’ora, naturalmente, era
implicito.
- Non è me che cerca, però. Non è a me che pensa quando guarda il cielo o
perde lo sguardo nel vuoto, non è in me che crede – concluse lui con un nodo di
amarezza.
Il Dottore tossì discretamente, per prender tempo. – Sei un po’ troppo
fatalista, non trovi? – domandò, infine, mite. – Avevo un amico col tuo stesso
problema. –
Fu più forte di lui. Un impulso sciocco, debole, umano. – Uno a cui hai cercato di rubare la ragazza? –
Pungente e bassa, una risata di donna filtrò nel silenzio compatto della
sala comandi fino a sfumare. Un colore diluito nell’acqua.
Il Dottore parve seccato da quell’interruzione sgradita. – River, per
cortesia – ammonì rivolto al soffitto. – Trattieniti. –
Uno schiocco, come quello di un bacio. Il Dottore annuì tra sé. –
Dicevamo? – riprese come se non fossero stati interrotti. – Ah, sì! – proseguì
non badando alla sua sorpresa. – Quello che sto cercando di dirti è che non ci
vuole nulla a distruggere un po’ di fede. Una parolina ben piazzata al momento
opportuno, una faccia diversa – disegnò con le dita il contorno del suo viso. –
La fiducia è un castello di carte. Facile da smontare, difficile da costruire.
Tu parti avvantaggiato. Lo hai già. Devi solo aprire gli occhi e deciderti a
scoprirlo. –
John ci rifletté un momento, ma tutto ciò che riuscì a dire fu: - River è
qui? –
Il Dottore sventolò le dita come se volesse scacciare l’intralcio inutile
di quelle parole.
Intanto lui pensava a Rose, a quale sarebbe stata la sua reazione
trovandola lì. Intuendo le fila dei suoi pensieri il Dottore parve a disagio.
Si portò una mano alle labbra con fare complice, lanciando uno sguardo di
verifica in alto e poi invitandolo col dito ad avvicinarsi.
Strascicando i piedi, John obbedì.
- Cosa c’è? – borbottò. Il Dottore gli tappò la bocca con la mano. –
Sshhh – intimò al suo naso.
- Cosa c’è? – ripeté in un sussurro e il Dottore lo lasciò andare
annuendo con approvazione.
- Oggi è il suo compleanno – rivelò. – Il compleanno di chi? – chiese
John, cercando di capire come di preciso e in quale momento della conversazione
fossero passati dall’imbastire frasi di circostanza allo scambiarsi confidenze
a mezza voce, guancia a guancia. – Come di chi! – urlò il Dottore. Poi si
ricordò di dover parlare mormorando se non voleva essere udito. Abbassò la
testa e la voce più di prima, rendendola inudibile perfino a lui. – Ma di
River, ovvio! –
No, pensò lui, non lo era per niente, ma si limitò ad alzare gli occhi al
cielo. - Portala a pattinare sul ghiaccio sul Tamigi nel 1814, l'ultima delle
grandi fiere gelate – suggerì(3). - Oh e ingaggia anche Stevie
Wonder per cantare per voi sotto il London Bridge. Ti deve un favore. –
Il Dottore spalancò la bocca e probabilmente stava per ringraziarlo,
quando Rose tornò. Aveva un’aria incerta e fissava il telefono che aveva tra le
mani, ma non appena li vide gli sorrise e ogni altra sensazione si
scompose.
*
- E così voi due avete fatto amicizia – espresse a voce alta e sorrise gaiamente a
John.
A poca distanza da loro, il Dottore correva di qua e di là farneticando
di Londra e di 1814 e concerti e fiere sul ghiaccio. John si era dato uno
schiaffo in pieno viso, brontolando sull’essere discreti o cosa e occultando una
specie di risata, ma Rose se n’era accorta e gli aveva dato una gomitata, radiosa.
- Non vedo come potrei mai essere amico di me stesso – le fece notare adesso
molto ragionevolmente. - È ora, non è vero? – disse per contro Rose, perdendo poco
a poco il sorriso. I muscoli delle guance premevano ed era come avere i crampi.
– Dobbiamo andare. –
John non le rispose, ma lei gli strinse la mano fino a stritolargliela e
lui fece lo stesso. Nessuno dei due se ne lamentò. Rose si sforzò di deglutire.
Si sentiva la gola secca, i palmi gelidi, ma gli occhi stranamente, quelli
erano asciutti. – Dottore – chiamò con voce dolce e fragile. Temeva che calcandola
un po’ di più le si sarebbe rotta, sparpagliandole la punta della lingua di
altre cose non dette, addii frammentati.
Il Dottore si girò, un sorriso felice stampato nel volto già familiare,
le maniche rimboccate sui gomiti, l’aspetto più stravagante che mai. Bastò
un’occhiata perché capisse, un’occhiata perché gli occhi gli si riempissero di
una luce vulnerabile e il chiarore luminoso che sprizzava si dileguasse.
- Te ne vai? – chiese. In quell’unica domanda c’era tutto il dolore di
qualcuno che è stato costretto a porla decine e decine di volte, ma non si è
ancora assuefatto all’abitudine.
Rose non riuscì a rispondergli. Perché, cosa avrebbe potuto dirgli? Fare?
Era come quella volta sulla Baia, quella in cui non aveva neppure potuto
toccarlo, in cui lui aveva bruciato un sole e solo per permettersi di dirle
addio. Era mille volte peggiore, se possibile. Perché questa sapeva ancora di
più di definitivo, concludeva un’era e metteva fine al passato per entrambi.
Avrebbe voluto ringraziarlo e abbracciarlo e piangere tutte le sue lacrime, ma
non era giusto.
E non era così che voleva
che finisse.
Si diede della vigliacca, ma la presa di John era calda e rassicurante.
Infondeva coraggio. – Cosa farai adesso? – domandò a propria volta.
Il Dottore fletté le labbra verso l’alto, gli occhi verdi scintillanti. –
Il solito – banalizzò con un ampio gesto della mano, la stessa che in un duello
del loro primo Natale assieme un Sycorax gli aveva tagliato, la stessa mano
mozzata da cui era nato John poi. – Correrò e andrò un po’ qua e un po’ là. E
poi ci sono cose da fare, guerre da fermare, posti da visitare o ri-visitare,
gente da incontrare. Potrei averne per altri mille anni e oltre! –
- Potremo… rivederci qualche volta? –
Che stupida, stupida, stupida e sentimentale domanda da fare quella.
Ma il Dottore non la pensava così. Il sorriso gli tremò agli angoli e le
labbra si stirarono in una smorfia che divenne seria e accorta. - È la terza
volta che me lo chiedi. La prima avevi nove anni. Mi avevi appena rubato un
bacio, proprio qui – si toccò la guancia. – È stata l’ultima volta… -
- È stata l’ultima volta che sei venuto a trovarmi – completò per lui
scacciando il cappio di emozioni come se fosse una trappola. Ora ricordava. Ora
lo ricordava. – Ti ho aspettato.
Perché non sei venuto? –
- Oh, ma io l’ho fatto. A modo mio e in ritardo, ma sono tornato, no? –
le ammiccò e lei dovette mordersi l’interno delle guance per evitare di
mettersi a singhiozzare lì, come una bambina.
Si sentì impallidire. - È un addio – disse e strinse i denti.
- Certo che no! – esclamò lui. Sembrava scandalizzato alla sola idea. Avrebbe
voluto credergli, ma stava mentendo e lo sapevano entrambi.
Rose gli dedicò un altro sorriso, sebbene timido e tremolante. – Sei un
pessimo bugiardo – si sforzò di canzonarlo.
- Solo con te. –
Il Dottore scostò gli occhi dai suoi e fu come ricevere un colpo sordo.
Li spostò su John. – Abbine cura – raccomandò. John annuì gravemente, anche se
sapevano entrambi quanto quella consegna fosse superflua. – E tu di te –
ribatté.
Si scambiarono un altro sguardo, simile a quello che si erano rivolti
sulla spiaggia, incomprensibile per lei. Poi John la spinse via, con
delicatezza, una mano aperta dietro la schiena. Rose fece per aggiungere
qualcosa, ma le labbra sembravano essere cucite tra loro. All’ultimo, si voltò
indietro. Ed eccolo là il Dottore, un’immagine così dolorosa che si ficcò le
unghie nei palmi per non farsi uscire un solo rumore, un gemito strozzato
bloccato da qualche parte in fondo, dentro di lei, tra mari di ricordi e brani
di risate vecchie anni, l’eco di felicità e altro
a diffondersi tra le pareti tondeggianti del Tardis.
- Lo sai, vero? – si ritrovò a domandare. Il Dottore la fissò senza una
parola, muto. Cosa, pareva dire il suo sguardo. Rose sollevò il mento con
orgoglio. – Sarai sempre il mio Dottore. –
Si sorrisero ed era in quel sorriso, senza lacrime, obliquo, sciocco e
sgangherato come una zattera in un oceano in tempesta, era in quel sorriso il
loro addio.
Lo vide annuire.
Mi mancherai, pensò. Ma non lo disse. Quello sarebbe stato inutile aggiungerlo.
La Baia era fredda, di un colore slavato dopo l’arancione intenso del
Tardis.
Uscirono chiudendosi la porta invisibile alle spalle e nel farlo, nel
sentire il rumore dei cardini che si richiudevano dietro di loro per sempre, le
sfuggì un singhiozzo. Si portò una mano alla bocca per frenarlo. Il braccio di
John le circondò le spalle, a sostegno, e lei premette il viso umido contro la sua
spalla.
- Mi mancherà – confessò in un bisbiglio sommesso contro il tessuto
gessato della giacca. Lui le sfiorò la fronte con le labbra. Poteva sentire la lanugine
della barba non fatta graffiarle la pelle. – Lo so – disse John semplicemente.
Lei ubbidì, passandosi con discrezione l’orlo della felpa sul naso. E poi
successe. Il rumore dei motori del Tardis riempì la spiaggia e ogni altro - il
grido ribelle dei gabbiani in volo, la risacca e le onde sulla riva, il vento
che faceva frusciare i cespugli bassi sparsi a macchia lungo la Baia -, tutto parve scomparire. Niente reggeva il confronto.
Infine apparve: il Tardis.
Più blu che mai, di un blu carico, caldo e familiare, nostalgico.
Il colore dei sogni dopo
che si sono avverati e si è lì lì per vederli sgretolarsi tra le dita.
Ciò che resta e non ci
abbandona. Mai.
- Perché? – chiese non riuscendo a trattenere un verso di sorpresa. Era
confusa. Non riusciva a capire. Il Tardis rimase visibile per pochi secondi,
abbastanza da comprimerle il cuore contro la cassa toracica. John sembrava a
corto di parole una volta tanto, quasi quanto lei. Non perché non sapesse cosa
dirle, ma piuttosto perché indeciso sul come esprimerlo. Sembrava turbato e gli
occhi, ancora fissi nel punto in cui il Tardis si era mostrato e poi era svanito
in un battito di ciglia, erano inequivocabilmente lucidi.
- Ha tolto lo scudo, ma non avrebbe dovuto. Lui non… - si bloccò e si
voltò a guardarla. - Lui dovrebbe essere morto per l’intero universo. –
- Ma anche incontrandolo... anche incontrandolo nessuno riuscirebbe a capire se è
una versione passata o futura, no? –
John scosse la testa. – Ci sono dei modi per verificarlo, per stabilire
l’età, il flusso temporale di provenienza. Credimi, esistono. –
- Allora... - Rose boccheggiò. Non seppe proseguire. – Perché l’ha fatto?
– gli prese un braccio scuotendolo con energia. - Perché esporsi in questo
modo? –
John scrollò le spalle, aveva un’espressione addolorata. – Era un
messaggio – spiegò con un tono dolente che gli aveva sentito usare raramente.
- Per chi? –
- Per noi – disse lui, nel modo in cui avrebbe detto “Per te”. Rose smise
di scrollarlo e dovette chiudere gli occhi e sbatterli parecchie volte.
- È il suo modo per dire che ci sarà sempre. – John chinò il mento. – Che
vecchio stupido e sentimentale. – Ma il biasimo nella sua voce non era
abbastanza sentito per risultare credibile.
Rimasero lì, fermi e zitti nel freddo che avanzava, a guardare il
quadrato infossato nella sabbia che la cabina della polizia aveva lasciato, per
un tempo che le parve infinito, indefinibile.
- Andiamo – pronunciò infine molto dopo, cercando di trascinarlo.
- Dove? –
Lo sguardo di John percorse la Baia, sino alle masse scure e alte delle scogliere
sull’orizzonte che parevano giganti d’ombra
nel giorno al suo crepuscolo.
– Tanto per cominciare in albergo. Non so tu, ma voglio farmi un bagno. E
poi… - si protese dandogli un bacio leggero sulla guancia sotto i suoi occhi
stupefatti e che nella luce rosso cenere del tramonto brillavano in un riflesso
d’eco. – A casa. –
- Quel messaggio – cominciò John mentre raggiungevano il sentiero
tracciato, spalla contro spalla. – Chi pensi che ce lo abbia mandato alla fine? Ho una mia teoria, ma mi
piacerebbe ascoltare anche la tua. –
- Io credo che sia stata River Song – confessò Rose. – River? – ripeté
lui, evidentemente meravigliato, ma annuì. – Sì, lo credo anch’io. Tutto
acquista un senso in fondo. Solo che non ne capisco il motivo. –
Rose però lo capiva benissimo. Prese fiato e per un attimo considerò
l’idea di parlare, ma qualcosa la trattenne convincendola in ultimo a non farlo.
Il cellulare squillò fastidiosamente. Lesse il nome di sua madre sul display e
sbuffò sentitamente. John mormorò un accorato “Ti prego no”.
Rifiutò la chiamata sotto lo sguardo animato di John. – Sai
che domattina sarà peggio, vero? – l'avvertì con un sorriso sghembo.
Sarebbe stato così di sicuro, ma non gliene importava molto. Non voleva
pensarci, non ora. Non con il cielo che si scuriva a ponente e si riempieva di minuscole
puntine d’argento, piccole capocchie lucenti. Rose rise e prese a correre, trascinandosi
dietro John costretto a fare lo stesso per via delle mani unite, ma con una
differenza.
Era lei a tirarlo ora, non il contrario.
Ciò che rimane su quella
Baia è l’indugio di un sorriso che è un po’ tremulo e fa male perché la
costringe a piegare le labbra screpolate. È una traccia sulla sabbia ed orme
che si allontano, sempre più distanti dal segno quadrato, sempre più vicine tra loro.
Quando si guarda indietro, Rose Tyler non vede nulla nel buio della sera, nel
silenzio ovattato e sottile. Sembra così fragile ora che è ricomparso il
silenzio. Basterebbe poco per spezzarlo. Ma se aguzza bene le orecchie, chiude
gli occhi, addolcisce la mente e accarezza il cuore, le pare ancora di sentirlo
nel vento che cala, nelle ombre che danzano insieme alle onde in un valzer sgraziato
venendo investite dalla risacca.
È un fermento che agita e
dispiega, che culla.
È il rumore della casa di
un Signore del Tempo, l’ultimo.
È il rumore dei suoi
ricordi. Dell’amore e del passato e dei tempi che furono. È ciò che è rimasto.
Questa storia nasce pezzo per pezzo da battute sparse un po’ a caso nella
mia testa. Incontri immaginati e mai realizzati si sono qui riuniti in un filo
logico e (spero!) coerente, tasselli che si sono incastrati con docilità sui fogli di
word come pezzi di un comune puzzle. È una what if,
impostata appunto sull’ipotesi di un incontro che credo tutti i fan abbiano
sognato, chi prima chi dopo, chi più felicemente chi più dolorosamente.
Non ci sono spiegazioni logiche o scientifiche qui sul come il Tardis
sia giunto o da dove ed è perché non ho voluto
dar spazio a questo. C’era tanto altro da dire e mostrare, credo,
per
concentrarsi su dettagli del genere. Ma se serve io avevo ugualmente
trovato una
soluzione abbastanza apprezzabile. Cioè che le crepe nel tempo
avessero aperto
un varco interdimensionale permettendo al Tardis,
all’insaputa del Dottore, di portarlo là doveva aveva bisogno di andare. L’avevo
detto che era brillante, giusto xD? Come no :D
Per quanto riguarda i personaggi… nota dolente ._.
Mi sono resa conto di aver lasciato troppo in ombra (?) – non so neppure
io come definirlo, ma di non aver dedicato la giusta attenzione alle reazioni
di John forse. O meglio, di averle mostrate senza spiegarle. Ma scrivere, mi
sono detta poi a mo’ di consolazione/rassicurazione, non è appunto mostrare una situazione? Il punto di
vista, tranne un breve, brevissimo spezzone nell’intermezzo, rimane quello di Rose dopotutto,
appartiene a lei e il turbamento, l’emozione, la vulnerabilità che con lei
diventa poi coraggio e la porta a riservare le lacrime a dopo perché vuole
mostrare che è cresciuta, che è grande, che la ragazzina innamorata e che sogna,
che ancora conserva dentro di lei certo, sia cresciuta. Rose vuole
mostrarsi forte, per il Dottore e anche
per dimostrare qualcosa a se stessa. Ma quello della separazione
è un dolore
che non si supera e finalmente è capace di accettarlo, di
addossarselo sciogliendo l'incantesimo, perfino sorridendo alla
Baia del loro addio e voltandosi un’ultima volta indietro. Oppure
no, è come Orfeo e il suo cuore rimane bloccato negli Inferi
insieme allo spetro di Euridice, scegliete voi la versione che
preferite :)
E a mia discolpa per quanto concerne John posso solo dire una cosa. L’impatto
visivo del Decimo era a mio avviso collegato strettamente alle sue espressioni,
alle mimiche facciali, al modo di muoversi e parlare. Chi non ricorda o rivede
con una stretta al cuore l’ingobbirsi impercettibile delle spalle, i pugni
stretti ficcati nelle tasche e la fronte aggrottata, gli occhi fissi e persi
nel vuoto? ç___ç
Undici è un altro paio di maniche. Lui è chiassoso,
scomposto, vivace, lo
scoppio di fuochi d’artificio (col cielo che poi sembra ancora
più scuro dopo
che sono scomparsi, un po’ più vuoto). La sua
teatralità sta tutta nei gesti,
in quel non riuscire a stare fermo o zitto o ambedue le cose. Insomma
scrivere di lui che è tutto brio e spuma mi viene facile. Ten
è la complessità fatta a persona. E, ahimé, credo
di averlo reso sin troppo geloso e ombroso in questa storia.
Posso solo sperare nella vostra bontà d’animo e clemenza, pregando tra me
di non aver combinato un completo pasticcio mentre la scrivevo. Un abbraccio
caloroso ;)
(2)Come in "The Impossible Astronaut". C'è da chiedersi dunque chi stesse guidando ;)
(3)Un
riferimento lampante all'episodio "A Good Man goes to War", dove
rientrando in prigione River riporta testuali parole raccontando il
tutto a Rory xD