“If thou survive my
well-contented day,
When that churl death
my bones with dust shall cover*.”
William Shakespeare, Sonnet 32.
1.
Tre anni
C’è qualcosa di profondamente
sbagliato nel vederlo sdraiato sul mio letto. Si, accantonando il fatto che
dovrebbe essere compostamente disteso sei piedi sotto terra**, morto come ero
convinto di averlo visto l’ultima volta, vederlo fra le mie coperte suggerisce
che ci sia qualcosa di profondamente scorretto in tutta questa assurda
situazione.
Perché lui non è mai stato sdraiato nel mio letto, e perché mai
avrebbe dovuto farlo prima di oggi?
Realizzo ora che tante cose non erano mai capitate fra di noi. Per
esempio non avevo mai sentito il bisogno di distruggerlo con le mie stesse mani
come ho quasi rischiato di fare poche ore fa, dopo aver disperatamente sperato
che non si fosse distrutto da solo e che sarebbe ritornato in tutto il suo
cipiglio da superuomo per restare con me fino alla fine del tempo. In questi
tre anni “finchè morte non ci separi” mi è sembrata la frase più idiota mai
coniata da un essere umano e “per sempre” mi è sembrata l’alternativa migliore:
se fosse tornato (e Dio solo sa quanto l’ho sperato) l’avrei tenuto con me, al
sicuro, anche a costo di tagliargli le gambe.
C’è una prima volta per tutto, anche per dichiarare il proprio amore.
Non è mai capitato che gli dicessi quanto è importante la sua presenza perché
io possa di nuovo respirare, mi sembra stupido che non gli abbia mai detto
anche solo un decimo delle cose che mi passavano per la testa mentre lo fissavo
credendomi non visto.
Mentre guardo il suo naso spaccato (colpa mia) e il sangue che macchia
il copriletto (avrei dovuto medicarlo) mi lascio pervadere da una scarica di
affetto disperato.
Sherlock, dove sei stato?
Non ho dimenticato niente di lui, ora me ne rendo conto: dalla forma
dei suoi occhi chiarissimi all’intreccio dei sui ricci tutto è come lo
ricordavo, come se il tempo avesse rubato gli anni solo a me, che sembro
vecchio di un secolo.
Il senso di colpa è un compagno silenzioso che da alcune ore ha
sostituito la solitudine che mi è rimasta affianco per tre anni: non avrei
dovuto dargli un pugno, non quando ho notato che stava in piedi a malapena,
piccolo mucchio di ossa e occhi infossati. Non penso di averlo mai visto così
brutto, sfilacciato e maltrattato fino alla malattia (qualsiasi cosa abbia
fatto in questi tre anni non è stata un divertimento), eppure non mi ero mai
reso conto di quanto fosse sempre stato bello ai miei occhi fin quando non l’ho
visto tornare a casa questa sera dopo tanto tempo.
Prenderlo a pugni è stata l’alternativa migliore ad un attacco di
panico che potessi trovare e ne avrei trovata una migliore se avessi diligentemente
arginato la rabbia repressa. Tre anni (1095 giorni, 26280 ore e 1576800
secondi) sono troppi anche per il coraggio di un soldato, non si sarebbe dovuto
aspettare di meglio e questo lui l’aveva probabilmente già calcolato.
Prenderlo in braccio è stato naturale, quando è svenuto sul tappeto,
portarlo in camera è stato semplice come sfilargli le scarpe con eterna
devozione. Mi è sembrato di accomodare il corpo di un santo, il suo corpo di
martire, il suo cadavere sul fondo di una bara.
Non riesco a smettere di provare dolore, neppure ora che so che è
vivo, sono consapevole che non smetterò mai di guardarlo senza questa
sofferenza come non smetterò mai più di amarlo (fino alla fine del tempo mi
sembra una misura ragionevole, si).
Le palpebre fremono, i suoi occhi si aprono nella penombra alla luce
fioca del paralume, ed è come rivedere la luce dopo secoli di buio: devo
socchiudere gli occhi e aspettare di abituarmi al colore delle sue iridi
trasparenti. Non so se sia innamoramento o principio di infarto ma mi fa male
il petto, il cuore è impazzito sotto lo sterno ma, Dio, chi altro potrebbe
avere occhi così?
Non si muove di un millimetro, resta a guardarmi con gli occhi sempre
più umidi e, nell’immobilità più totale del suo viso, quelle due lacrime lungo
il naso sembrano quasi un grido. Allora gli prendo la mano che ha lasciato
cadere oltre il bordo del letto e le sue dita sono così fredde e ossute che mi
chiedo se non stia andando in ipotermia, poi bacio ogni nocca con la lentezza
necessaria ad annusare il vago sentore di tabacco sul dorso della sua mano e a
soffiare fiato caldo sulla pelle gelida. Non dovrebbe fumare, non avrebbe
ricominciato se ci fossi stato io.
Eccola, l’onda di adorazione che sale dallo stomaco e mi fa pizzicare
gli occhi: ogni lacrima versata per lui è sempre stata un atto d’amore, queste
non fanno eccezione.
“Ciao.” mi dice, la voce roca che vibra fin nel mio petto come una
carezza.
“Ciao Sherlock.” rispondo. Gli piango sulla mano, il suo pollice che
accarezza le mie dita intrecciate alle sue, la voce che si riempie del suo
nome, l’esplosione di affetto cieco e di febbrile devozione che mi serra la
gola.
“Mi dispiace così tanto.” la prima scusa della sua vita, per quanto ne
so. Può tenersi le sue spiegazioni, gli avrei perdonato qualsiasi crimine. Non
penso sia consapevole di quanto io stia smaniando di abbracciarlo, stringe la
mia mano con la disperazione di chi aspetti la grazia senza sapere che l’ha già
ottenuta.
“Dispiace a me, per il pugno.” gli dico, accarezzando delicatamente l’attaccatura
del suo naso spaccato e salendo a pettinare un sopracciglio sopra i suoi occhi
socchiusi.
“Come stai?” chiedo, le dita sulla sua guancia pallida a irradiare
calore sulla pelle gelida.
“Bene, sei tu a stare male.” allunga il braccio verso i miei capelli,
li raggiunge con una carezza di dita ghiacciate. Mi arrampico sul letto senza
che lui smetta di toccarmi la nuca, dove sono affondate le sue mani, per
sdraiarmi accanto a lui.
“Ora starò meglio.” rispondo, i suoi occhi più vicini. Potrei
guardarli per sempre, consacrare la vita ad adorare le sue ciglia, senza
desiderare di avere altro scopo nella vita.
“Si, lo so.” sorride e il labbro trema appena, gli occhi umidi di
nuovo.
In fondo è tutto a posto: lui è dove dovrebbe stare, è accanto a me ed
è finalmente a casa. E’ una benedizione, penso che tornerò in chiesa.
Non mi accorgo delle lacrime finché Sherlock non mi circonda con le
braccia e, affondando il naso nella piega del suo collo, dove il suo odore è
una traccia indelebile nonostante il sapone, le sigarette e il profumo delle
lenzuola pulite, non sento il viso umido e freddo contro la sua pelle tiepida.
Singhiozzo con le labbra socchiuse e la sua bocca sulla tempia per quella che
mi pare un’imbarazzante eternità.
“Non piangere.” ripete, il dondolio impercettibile del suo corpo che
cerca di cullarmi e consolarmi, il mio nome ripetuto come ad un bambino.
Realizzo che Sherlock è avvezzo a consolare, chissà con chi si sarà visto
costretto a farlo, lui che odia ogni manifestazione di sentimento incontrollato
dovrebbe disprezzare anche solo l’eventualità di queste situazioni. Perciò devo
impormi di respirare lentamente e asciugarmi la faccia prima che decida di
disprezzare anche me.
“Respira John. E smetti di pensare, i tuoi pensieri sono rumorosi.” mi
asciuga le guance con la manica della camicia e sorride.
“Come hai potuto andartene?”
pigolo, la pallida imitazione della mia voce lo fa ridacchiare piano.
“Santo cielo John, qualcuno deve averti sostituito con Catherine
Earnshaw.” Ride dolcemente, carezzandomi il collo, il petto scosso dalla
vibrazione della sua voce è al sicuro sotto al mio palmo aperto. Mi sento così
immensamente felice che non voglio sapere niente della sua finta morte almeno
per ora, quindi lasciar cadere l’argomento sembra opportuno.
“Hai letto cime tempestose? Tu odi i romanzi.” Le mie dita si spostano
all’attaccatura dei suoi ricci scompigliano le ciocche con metodica precisione,
la felicità sta divorandomi il petto lentamente e fa ancora un po’ male.
“Mi annoiavo nella brughiera, tu non c’eri e mi mancavi, in quella
maledetta libreria c’erano solo romanzi e a te piacciono i romanzi…” lo lascio
parlare da solo per un po’. Ha una bocca bellissima nonostante la pallida
cicatrice di un taglio che non c’era l’ultima volta che l’ho visto; il suo
viso, con le lacrime asciutte e i suoi stanchissimi occhi rossi, sembra
rilassato fino alla sonnolenza.
“Ti annoiavi, saresti potuto tornare.” gli dico tranquillamente, sono
troppo stanco per ricominciare a picchiarlo o a urlargli contro.
“Tu non sai portare rancore, vero?” eccolo, lo sguardo che mi è
mancato: l’affetto liquido e tiepido dei suoi occhi sempre così fermi e
glaciali. Chiude gli occhi piano, quasi con riluttanza, e la testa scivola più
comoda sul cuscino, la fronte contro la mia. Faccio un bagno nel profumo del
suo shampoo quando i suoi capelli umidi di pioggia (fuori pioveva fino a dieci
minuti fa) mi scivolano sulle tempie, li scosto e glieli pettino all’indietro
con gentilezza.
“Suppongo di no.” gli rispondo, osservandolo arrendersi al sonno con
tutto il suo disappunto.
“Come avrei fatto se non fossi tornato? Ci hai mai pensato?” chiedo,
quando il suo respiro si fa lento e tranquillo e sono sicuro che non può più
sentirmi.
Respira dalla bocca, ovviamente, ora che il suo setto nasale è stato
deviato dal mio pugno. Avrei dovuto far si che ci mettesse almeno del ghiaccio,
domani gli farà un male d’inferno ma abbiamo degli antidolorifici
nell’armadietto del bagno quindi starà bene.
Gli accarezzo il fianco, la maglietta leggera non nasconde tutte le
sue ossa sporgenti ne le rende meno spigolose perciò sento subito la rientranza
di due costole incrinate, una delle due doveva essere stata rotta prima di
risaldarsi malamente. Oh, Sherlock.
Domani gli farò ingoiare del vicodin***, gli benderò il petto e
medicherò l’escoriazione sullo zigomo.
Sono trentasei mesi che non faccio progetti per i giorni avvenire, pianificare
di prendermi cura di lui mi sembra un ottimo modo per ricominciare.
* “Se vivi oltre il mio giorno atteso, quando/morte villana coprirà di polvere/le mie ossa […]” lo so che sapete l’inglese ma Shakespeare ha la sua difficoltà anche per gli inglesi :)
** six feet under, cioè la profondità della fossa in cui viene calata la bara negli states, chi lo sa se anche nel regno unito è la stessa. dire 1 metro e 20 sotto terra mi faceva un po’ ribrezzo e la frase mi piaceva troppo per non mettercela :)
*** è una formula di idrocodone+paracetamolo, cioè un antidolorifico oppiaceo. si, è quello che prende dr house <3
NDA: la mia versione di john è psicopatica, lo so. ma questa sarebbe stata più o meno la cosa che avrei fatto io, cioè pestarlo e poi frignare delle scuse, perciò mi sembrava piuttosto plausibile (è plausibile per gli psicopatici, direte. ebbene avete ragione). comunque questo è tutto. grazie mollissime per aver letto anche queste cose inutili (anche le note sono prolisse, incredibile!). baci baci, alla prossima.