Serie TV > JAG
Segui la storia  |       
Autore: Alexandra_ph    16/05/2012    1 recensioni
Scritta nel dicembre 2006, la vicenda si colloca dopo la puntata FWFS...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Harmon 'Harm' Rabb, Sarah 'Mac' MacKenzie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

24 DICEMBRE

Appartamento del Capitano Rabb – Londra

Si alzò di scatto, confuso e turbato.

Dove si trovava?

Si guardò attorno e riconobbe il suo appartamento di Londra, anonimo e freddo. Niente a che vedere con la sua casa a Washington. O con l’appartamento caldo e accogliente di Mac.

Che strano sogno!

Guardò l’ora e si rese conto d’aver dormito poco più di un’ora, dall’ultima volta che aveva guardato l’orologio. Erano solo le cinque e trenta del mattino della vigilia di Natale.

Credeva d’essersi addormentato sul divano, però. Invece si trovava nel letto.

Aveva un vago ricordo di quello che aveva fatto la sera precedente: rammentava di essersi alzato perché non riusciva a dormire e di essersi messo davanti alla TV…

La televisione? Possibile che avesse davvero acceso la televisione? Non lo faceva mai.

Poi si era messo a leggere un libro… Dov’era finito?

Si alzò, guardò ai piedi del letto, ma non trovò nulla. Allora si diresse nel salottino e guardò accanto al divano. Magari nel sonno, durante uno dei vari “viaggi” intrapresi col suo piccolo amico fantasma, si era trasferito nel letto, senza rendersene nemmeno conto.

Che strano volto aveva quel bambino: magro, quasi diafano, ma con due occhi blu dallo sguardo acuto e profondo.

Accanto al divano non trovò nulla. Allora guardò sugli scaffali, poteva anche averlo rimesso al suo posto. Avrebbe potuto fare qualunque cosa senza accorgersene, durante quello strano sogno.

Infatti eccolo! Si trovava proprio sullo scaffale, dove ricordava d’averlo trovato. Quasi a sincerarsene, lo sfilò e lo prese in mano.

Improvvisamente si sentì mancare: come poteva aver letto un libro senza pagine?

Il volume, infatti, era finto. Si trattava del classico pezzo di cartone ricoperto da una finta copertina, a dare l’illusione che ci fosse un libro.

Controllò anche gli altri: erano tutti libri finti.

Cosa accidenti era successo ieri sera?

Eppure era certo d’aver letto un racconto… QUEL racconto. O forse era il sogno che lo stava confondendo?

Sì, probabilmente si trattava di un sogno: credeva d’aver sognato solo il suo piccolo amico fantasma e invece doveva aver sognato tutto quanto, compreso il libro che credeva d’aver letto.

Doveva essere stato quel nome, Scrooge, scritto sul quel biglietto che “Babbo Natale” gli aveva consegnato, ad innescare il suo subconscio. Il biglietto, quel nome e il ricordo del cartone animato che aveva visto anni prima con AJ.

La mente umana memorizza cose che, all’improvviso, nei momenti più impensati, restituisce sottoforma di ricordi o sogni.

Tutta colpa di quel dannatissimo biglietto.

Lo aveva messo nel cassetto del comodino… perché accidenti lo aveva conservato?

Tornò in camera; deciso a recuperarlo e sbarazzarsene, aprì il cassetto, ma del foglietto non c’era traccia.

Al suo posto trovò un piccolo paio di ali bianche.

 

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

Era davvero una giornata molto fredda e il cielo sereno contribuiva a mantenere la temperatura rigida.

Quella mattina era arrivata presto in ospedale; voleva trascorrere più tempo possibile con Mattie. Del resto era il solo motivo per il quale aveva lasciato S.Diego e aveva deciso di restare a Washington fino al primo dell’anno. Fortunatamente Varice, che aveva preso in affitto il suo appartamento, si trovava, come l’anno precedente, in tournee in Iraq, a cantare per le truppe e al suo ritorno sarebbe stata per qualche giorno da Sturgis, finché lei non fosse ripartita.

Quando era arrivata aveva trovato Mattie molto meglio: la chiacchierata del giorno prima doveva averla rasserenata almeno un po’. Credeva, tuttavia, che buona parte del merito fosse del piccolo Timmy, il bambino che le aveva raggiunte proprio poco dopo che avevano terminato di parlare.

Timmy era vivace e allegro; ma non era quello ciò che lo rendeva tanto speciale per Mattie. Era una distrazione piacevole e travolgente, che le impediva di pensare a se stessa e alla sua situazione. Il bambino faceva domande, raccontava di immaginarie avventure e a poco a poco aveva sciolto il cuore indurito di Mattie.

Lei era del parere che alla ragazza servisse proprio quello: smettere di rimuginare sulla sua invalidità e smettere di attendere Harm, che non sarebbe venuto.

Aveva parlato con il medico e con la fisioterapista ed entrambi le avevano assicurato che oramai non vi era più alcun impedimento fisico ad ostacolare una completa guarigione.

Dipendeva tutto da Mattie.

E loro credevano che i motivi per i quali la ragazza ancora non camminava fossero, più che altro, psicologici. Forse aveva paura di non farcela e preferiva evitare una grossa delusione.

Nonostante il freddo, aveva deciso di passeggiare un po’ nel giardino dell’ospedale, per concedere a Mattie la privacy che le serviva, affinché le infermiere potessero lavarla e cambiarla. Proseguendo lentamente nella sua passeggiata, si ritrovò a riflettere su quanto la paura, spesso, fosse un nemico più difficile da sconfiggere di un intero esercito.

Ricordava i mesi che aveva trascorso in terapia, proprio per affrontare le sue ansie e i suoi timori, che l’avevano nuovamente travolta dopo ciò che era accaduto con Sadik, ma soltanto perché non era mai stata del tutto in grado di superarli.

La dottoressa McCool le aveva insegnato a convivere con le ansie più radicate in lei e a sconfiggere poco alla volta quelle meno profonde. Tuttavia non era ancora riuscita a superare del tutto certe sue paure, e chissà se ne sarebbe stata mai capace.

Come si poteva pretendere che ci riuscisse una ragazzina?

O come poteva sperare che ci riuscisse Harm?

Harm…

Non mancava solo a Mattie… mancava moltissimo anche a lei. Le mancava ogni giorno e ogni notte, da quell’unica che aveva trascorso tra le sue braccia. Il ricordo struggente di quei momenti e il pensiero continuo di ciò che sarebbe potuto essere l’accompagnava da mesi, impedendole qualunque decisione per il proprio futuro.

Al suo rientro a S.Diego gli avrebbe scritto per lasciarlo libero, definitivamente.

Non poteva continuare ad andare avanti nella speranza che lui tornasse da lei.

“Non pianga… vedrà che tutto s’aggiusterà”.

Si stava asciugando una lacrima, l’ennesima, che non era riuscita più a trattenere, quando una voce maschile la colse di sorpresa. Si voltò e vide un anziano signore, probabilmente un giardiniere, anche se non immaginava cosa potesse fare un giardiniere con un freddo simile… probabilmente aveva sistemato degli attrezzi. Aveva una folta barba bianca e indossava un lungo cappotto scuro.

“Domani è Natale” proseguì il vecchietto, “non deve piangere. Non sente lo Spirito del Natale?”

Fece un debole sorriso, asciugandosi gli occhi.

“Mi spiace, ma quest’anno proprio non riesco a sentire lo spirito del Natale…”.

“Eppure non sembra. Lei ha capito alla perfezione lo Spirito del Natale…”.

“Cosa vuol dire con questo?”

L’uomo le sorrise, ma non rispose alla sua domanda. Si limitò ad aggiungere:

“Deve solo ritrovarlo e lo può trovare solo dentro se stessa”.

“Ma…”

“Ha anteposto il bene di altre persone al suo… come può dire di non riuscire a sentire lo Spirito del Natale?”

“Mi parla come se mi conoscesse… Come fa a sapere tutte queste cose?”

L’anziano signore sorrise ancora, restando tuttavia in silenzio. La salutò con una mano mentre si allontanava. Lei lo guardò camminare lentamente, finché non si fermò e, voltandosi di nuovo verso di lei, disse:

“Deve imparare ad aver più fiducia… e non perda mai la speranza, Mac”.

L’aveva chiamata per nome. Come faceva a sapere come si chiamava?

Fece per andargli dietro e domandarglielo, ma nell’attimo in cui aveva deciso di farlo, l’uomo era sparito.

 
Ufficio del Capitano Rabb – Londra

“Tenente, ha fatto tutto quello che le avevo domandato?”

“Sissignore” rispose il tenente Leach.

“E ha controllato tutto quanto?”

“Certamente, Signore”.

“Gli appuntamenti?”

“Tutto sistemato, Signore. Stia tranquillo”.

“Quelle carte che le avevo chiesto di…”

“Recapitate, Signore” lo interruppe il tenente, senza neppure lasciarlo finire.

Harmon Rabb si guardò attorno e poi sorrise al suo assistente, che stava diventando ogni giorno più efficiente.

“E sono anche andato a ritirare i pacchi, come aveva ordinato, Signore”.

“Grazie, Tenente”.

Prese la ventiquattrore che il giovane gli stava porgendo, assieme ad una grande borsa in cui vi erano due scatole natalizie.

“L’auto?”

“E’ pronta, Signore.”.

“Perfetto. Può andare, Tenente. E Buon Natale.”.

“Grazie, Signore. Buon Natale anche a lei, Signore”.

E così dicendo uscì dall’ufficio; prima che si chiudesse la porta alle spalle, sentì la voce del Capitano Rabb aggiungere:

“Si prenda pure il resto della giornata libero, Tenente”.

 

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

Quel giorno Timmy non si era ancora fatto vivo. Era ormai tardo pomeriggio e Mac se n’era andata da poco, dopo aver trascorso con lei quasi tutta la giornata. Sarebbe ritornata l’indomani, in tempo per vedere la recita natalizia dei bambini dell’ospedale.

A lei non interessavano quelle cose e poi odiava l’idea di farsi vedere sulla carrozzella; ma Mac aveva insistito tanto. Forse avrebbe potuto anche accontentarla. Del resto era l’unica persona ad essersi ricordata di lei.

Ricacciò indietro l’ennesima lacrima che stava per versare per Harm.

Mac aveva detto che era a causa sua che lui non tornava da Londra, neppure per Natale; ma lei non ne era del tutto convinta.

Comunque, se anche fosse davvero stato quello il motivo… Che stupidità quell’uomo!

Come si poteva aver paura d’amare una donna come Mac?

Era bellissima, buona e molto dolce; ma soprattutto era pazzamente innamorata di lui.

Harm sarà stato anche un eroe di guerra; era simpatico, buono e gentile… inoltre sapeva volare e aveva gli occhi e il sorriso più belli del mondo. Ma restava comunque un imbecille se aveva paura ad amare Mac.  

“Guarda le mie ali nuove… Non le trovi bellissime?”

“Timmy, finalmente! Credevo che non venissi più a trovarmi, oggi.”.

“Quante volte devo dirti che sono l’aiutante di Babbo Natale? Oggi è la vigilia, e ho tanto lavoro da fare. Dovrò ben guadagnarmi queste mie ali nuove…” disse il bambino, guardandola con espressione condiscendente, quasi fosse un po’ tonta e non capisse.

“Certo, certo. Scusami. Lo avevo scordato” rispose Mattie, con un sorriso.

Timmy era davvero convinto di essere l’aiutante di Babbo Natale… perché disilluderlo? In fondo era Natale.

“Andrai a vedere la recita, domani?” chiese Timmy.

“Non so. Mac vuole che vada con lei, ma a me non piace tanto fami vedere in giro con la carrozzella”.

“Perché non ci vai con le tue gambe?”

“Timmy… quante volte devo ripeterti che non posso più camminare?” gli disse lei, scimmiottando la sua espressione condiscendente di poco prima.

“Ne sei proprio sicura? Secondo me hai solo paura a farlo di nuovo”.

“Paura? Ma se io VOGLIO camminare!”.

“Vuoi, ma hai paura di non riuscire più a farlo. E allora preferisci non provarci neppure. E poi ti lamenti di Harm…”

“Ma i medici…”

“I dottori dicono che non hai più nulla che ti impedisce di farlo. Se solo tu lo vuoi davvero… Guarda me: io, le mie due ali, le volevo davvero.”.

“Timmy… le tue ali sono un’altra cosa” rispose Mattie, rassegnata a ritornare sul discorso che il bambino preferiva.

“Beh, ora ce le ho…  e mi devo esercitare ad essere un bravo Angelo, anche se non ho lunghi boccoli biondi…” e così dicendo si avvicinò alla finestra e lentamente l’aprì.

“Sei un bellissimo angelo” disse Mattie, osservando il bambino che, al posto del pigiama con gli orsetti, indossava una veste bianca lunga fino ai piedi. Si era già vestito per la recita!

Poi si rese conto che il bambino aveva aperto la finestra e stava avvicinando una delle due sedie che si trovavano nella stanza.

“Timmy… cosa stai facendo?” gli chiese preoccupata.

“Salgo qui”.

“Chiudi la finestra. Fa freddo. E poi è molto pericoloso salire lì sopra, soprattutto con la finestra aperta. Che cosa vuoi fare?”

“Devo esercitarmi a volare… sennò come faccio ad essere un bravo Angelo?”

Quella storia stava diventando davvero ridicola. E molto pericolosa.

Mattie cercò il pulsante per chiamare le infermiere: di solito lo teneva sempre accanto a sé, ma in quel momento non riuscì a trovarlo. Guardandosi rapidamente attorno vide che era stato appoggiato sulla poltrona accanto al letto, probabilmente dimenticato dalle inservienti quel mattino quando l’avevano sistemata.

Non sarebbe riuscita a prenderlo in tempo.

Tornò a guardare Timmy e lo vide in piedi sul davanzale della finestra, che a sua volta era spalancata.

“TIMMY”, urlò Mattie, per fermarlo. Il bambino era pericolosamente in bilico. Un solo movimento sbagliato e sarebbe precipitato.

“Mattie… guardami come volo bene…” disse, allegro e sorridente, mentre si accingeva, quasi, a spiccare il volo.

“Nooo… “ gridò la ragazza, precipitandosi fuori dal letto.

Afferrandolo per le gambe, con un rapido scatto se lo tirò addosso. Cadde sul letto col bambino tra le braccia; fortunatamente il letto non era troppo distante dalla finestra e la sedia non aveva intralciato i movimenti.

Col cuore in gola e scossa fino alla punta delle dita dei piedi, lentamente si spostò di lato poiché Timmy, nonostante fosse minuto, le pesava addosso e non riusciva a respirare. Ma forse era tutta colpa dello spavento.

Senza neppure rendersene conto si rimise in piedi e, come in stato di trance, chiuse la finestra e posizionò nuovamente la sedia al suo posto.

Timmy, seduto sul letto, la stava osservando con un sorriso compiaciuto. Per un attimo a Mattie venne voglia di schiaffeggiarlo: cos’aveva da sorridere così, dopo lo spavento che le aveva fatto prendere? Sperava che almeno quelle dannate ali si fossero rovinate, così forse gli sarebbe passata la voglia di giocare all’angelo.

Invece sembrava che le ali non avessero subito danni.

“Cos’hai da ridere?” chiese brusca.

Era arrabbiata, molto arrabbiata.

“Che cosa ti è saltato in mente? Non lo sai che potevi cadere e morire?” aggiunse, quasi gridando.

“Hai camminato…” sussurrò in risposta il bambino, con gli occhi che gli brillavano. “Sapevo che ce l’avresti fatta!”.

Fu solo in quel momento che Mattie realizzò di trovarsi in piedi e di aver effettivamente camminato.

Sentì le gambe cederle per l’emozione e si aggrappò a Timmy, ancora seduto sul letto. Lo strinse forte tra le braccia e pianse.

 

Appartamento del Colonnello Mackenzie – Washington

Erano quasi le 10 p.m. quando sentì suonare alla porta.

Si alzò dal divano e andò a guardare chi fosse, prima di aprire. Quando capì di chi si trattava, in preda all’agitazione si appoggiò alla porta con tutto il corpo, per riprendere fiato e il controllo di sé.

Che cosa ci faceva a Washington? E come sapeva che lei era lì?

Un secondo, rapido, squillo la costrinse ad affrontarlo.

Aprì la porta e restò sulla soglia ad osservarlo, immobile.

“Ciao, Mac” la salutò lui, come se si aspettasse di trovarla proprio lì.

Era davvero lui…

Dio, quanto le era mancato!

Col cuor in gola per l’emozione, non riuscì a dire nulla e nemmeno a muoversi. Dopo qualche attimo in cui anche lui era rimasto a guardarla, le sorrise e domandò dolcemente:

“Posso entrare?”.

Mentre si spostava per farlo passare, aspirò il suo profumo e, immediatamente, un’ondata di desiderio la travolse.

Non era cambiato nulla.

Lui entrò e posò una grande borsa e la sacca che aveva a tracolla a terra e poi si voltò nuovamente a guardarla; nel frattempo lei aveva richiuso la porta e vi si era appoggiata di nuovo contro, come a cercare un sostegno in più, oltre alle proprie gambe.

Era stordita, non sapeva più cosa fare: da un lato desiderava disperatamente gettarsi tra le sue braccia e baciarlo; al tempo stesso non voleva farlo per evitare di soffrire troppo quando se ne sarebbe andato di nuovo.

Fu lui a risolvere il suo dilemma. Dopo averla osservata intensamente ancora per qualche istante, mosse alcuni passi verso di lei, fino a prenderle la mano; si fermò così, a pochi centimetri dal suo corpo, con la sua mano tra le proprie.

Poi, mentre l’attirava a sé per stringerla, finalmente mormorò le uniche due parole che lei desiderava sentirsi dire da mesi.

“Vieni qui…”

Quando l’ebbe tra le braccia, abbassò il capo e la baciò.

Le sue labbra erano fredde, ma avevano quell’inconfondibile sapore che era solo suo e che la faceva sempre sciogliere; tuttavia rimase immobile, combattuta tra il desiderio di corrispondere al suo bacio e lasciarsi andare e la paura di soffrire nuovamente.

Lui percepì immediatamente i sentimenti contrastanti contro i quali stava lottando e che gliela rendevano così distante, troppo distante emotivamente. Allora si prese del tempo e con la lingua le sfiorò le labbra, accarezzandogliele lentamente.

Una carezza sensuale, intima, dolcissima… che le fece schiudere la bocca e la fece reagire d’istinto, posandogli le mani ai lati del volto, per attirarlo di più a sé.

Fu allora che, mormorando parole incoerenti, lui la strinse più forte, fino a far aderire completamente i loro corpi.

Sollevandole la maglia, le sue mani, fredde come lo erano all’inizio le sue labbra, cercarono immediatamente la levigatezza della sua pelle e scivolarono impazienti a sfiorarle il seno.

Le sfuggì un sospiro… Harm la voleva ancora.

E lei desiderava lui con la stessa intensità di sempre.

Tuttavia tentò di fermarlo, per capire le sue intenzioni. Non si era tolto nemmeno il cappotto, e già le sue mani avevano iniziato a spogliarla, insinuandosi dolcemente sotto i suoi indumenti.

“Harm… aspetta… perché sei qui?” insistette, quando comprese che lui non aveva recepito, o non aveva voluto recepire, l’invito a fermarsi.

“Fammi continuare… ti prego, Mac…” mormorò lui, sollevandole la gonna e accarezzandole sensualmente le gambe.

La voleva, disperatamente.

“Ho bisogno di te, Mac… Parleremo dopo. Ora voglio solo fare l’amore … tenerti tra le mie braccia…” disse, accompagnando ogni frase con un bacio, sul suo collo, sul viso, sulle labbra.

Lei si lasciò intenerire dall’urgenza, mista ad un accenno di disperato bisogno, che colse nella sua voce, mentre il suo corpo cedeva di fronte alle sensazioni meravigliose che le sue mani e le sue labbra le facevano provare.

Ma era davvero necessario trovarsi una scusa?

In fondo era ciò che lei stessa desiderava.

“Dopo… D’accordo.”

Non appena capitolò, Harm la sollevò tra le braccia e la portò a letto, senza neppure togliersi prima il cappotto.

Il “dopo” furono parecchie ore più tardi.

La teneva ancora stretta a sé, in silenzio. Erano voltati su un fianco e lui l’abbracciava da dietro, avvolgendola completamente.

Ad un tratto le mormorò all’orecchio:

“Perdonami”.

Il cuore le si strinse di nuovo: ora l’avrebbe lasciata un’altra volta.

“Perdonami per essermene andato. Non voglio più stare senza di te… Ti amo, Mac.”.

A quelle parole riprese a respirare, anche se per l’emozione non riuscì ancora a parlare.

“Sposiamoci, Mac. Sul serio, questa volta. Decideremo dopo cosa fare delle nostre carriere…”.

“Verrò a Londra con te” disse lei, decisa, riuscendo finalmente a riprendere l’uso della parola.

“No, Mac. Non voglio che sia tu a sentirti costretta a lasciare il Corpo dei Marine…”.

Si voltò verso di lui e gli posò un dito sulle labbra, per zittirlo.

“Questa è la mia decisione. Avevo intenzione di comunicartela già allora, se il Destino avesse stabilito che saresti dovuto essere tu a seguire me; ma avevo capito che la tua fuga non c’entrava col lavoro, si trattava della tua paura per i legami, per questo non ti dissi nulla. Verrò a Londra con te e porteremo Mattie con noi, se lo vorrà”.

Il suo discorso era deciso e non ammetteva repliche.

Harm comprese fino a che punto lei lo amava e quanto era stato stupido in tutti quei mesi ad ostinarsi a vivere senza di lei.

Le sorrise teneramente.

“D’accordo, Colonnello. Andremo a Londra.”.

Lei ricambiò il sorriso, accoccolandosi meglio tra le sue braccia. Aveva bisogno di sentirselo addosso.

“Cosa ti ha fatto cambiare idea, Harm?”.

“Un sogno. E la paura di perderti per sempre, senza averti mai avuta.”.

Sentì le lacrime inumidirle nuovamente gli occhi; ma questa volta, finalmente, erano lacrime di gioia.


 


  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > JAG / Vai alla pagina dell'autore: Alexandra_ph