24
DICEMBRE
Appartamento del Capitano Rabb – Londra
Si
alzò di scatto, confuso e turbato.
Dove
si trovava?
Si
guardò attorno e riconobbe il suo appartamento di Londra, anonimo e
freddo.
Niente a che vedere con la sua casa a Washington. O con l’appartamento
caldo e
accogliente di Mac.
Che
strano sogno!
Guardò
l’ora e si rese conto d’aver dormito poco più di un’ora, dall’ultima
volta che
aveva guardato l’orologio. Erano solo le cinque e trenta del mattino
della vigilia
di Natale.
Credeva
d’essersi addormentato sul divano, però. Invece si trovava nel letto.
Aveva
un vago ricordo di quello che aveva fatto la sera precedente:
rammentava di
essersi alzato perché non riusciva a dormire e di essersi messo davanti
alla
TV…
La
televisione? Possibile che avesse davvero acceso la televisione? Non lo
faceva
mai.
Poi si
era messo a leggere un libro… Dov’era finito?
Si
alzò, guardò ai piedi del letto, ma non trovò nulla. Allora si diresse
nel
salottino e guardò accanto al divano. Magari nel sonno, durante uno dei
vari
“viaggi” intrapresi col suo piccolo amico fantasma, si era trasferito
nel
letto, senza rendersene nemmeno conto.
Che
strano volto aveva quel bambino: magro, quasi diafano, ma con due occhi
blu
dallo sguardo acuto e profondo.
Accanto
al divano non trovò nulla. Allora guardò sugli scaffali, poteva anche
averlo
rimesso al suo posto. Avrebbe potuto fare qualunque cosa senza
accorgersene,
durante quello strano sogno.
Infatti
eccolo! Si trovava proprio sullo scaffale, dove ricordava d’averlo
trovato.
Quasi a sincerarsene, lo sfilò e lo prese in mano.
Improvvisamente
si sentì mancare: come poteva aver letto un libro senza pagine?
Il
volume, infatti, era finto. Si trattava del classico pezzo di cartone
ricoperto
da una finta copertina, a dare l’illusione che ci fosse un libro.
Controllò
anche gli altri: erano tutti libri finti.
Cosa
accidenti era successo ieri sera?
Eppure
era certo d’aver letto un racconto… QUEL racconto. O forse era il sogno
che lo
stava confondendo?
Sì,
probabilmente
si trattava di un sogno: credeva d’aver sognato solo il suo piccolo
amico
fantasma e invece doveva aver sognato tutto quanto, compreso il libro
che credeva
d’aver letto.
Doveva
essere stato quel nome, Scrooge, scritto sul quel biglietto che “Babbo
Natale”
gli aveva consegnato, ad innescare il suo subconscio. Il biglietto,
quel nome e
il ricordo del cartone animato che aveva visto anni prima con AJ.
La
mente umana memorizza cose che, all’improvviso, nei momenti più
impensati,
restituisce sottoforma di ricordi o sogni.
Tutta
colpa di quel dannatissimo biglietto.
Lo
aveva messo nel cassetto del comodino… perché accidenti lo aveva
conservato?
Tornò
in camera; deciso a recuperarlo e sbarazzarsene, aprì il cassetto, ma
del
foglietto non c’era traccia.
Al suo
posto trovò un piccolo paio di ali bianche.
Era
davvero una giornata molto fredda e il cielo sereno contribuiva a
mantenere la
temperatura rigida.
Quella
mattina era arrivata presto in ospedale; voleva trascorrere più tempo
possibile
con Mattie. Del resto era il solo motivo per il quale aveva lasciato
S.Diego e
aveva deciso di restare a Washington fino al primo dell’anno.
Fortunatamente
Varice, che aveva preso in affitto il suo appartamento, si trovava,
come l’anno
precedente, in tournee in Iraq, a cantare per le truppe e al suo
ritorno
sarebbe stata per qualche giorno da Sturgis, finché lei non fosse
ripartita.
Quando
era arrivata aveva trovato Mattie molto meglio: la chiacchierata del
giorno
prima doveva averla rasserenata almeno un po’. Credeva, tuttavia, che
buona
parte del merito fosse del piccolo Timmy, il bambino che le aveva
raggiunte
proprio poco dopo che avevano terminato di parlare.
Timmy
era vivace e allegro; ma non era quello ciò che lo rendeva tanto
speciale per
Mattie. Era una distrazione piacevole e travolgente, che le impediva di
pensare
a se stessa e alla sua situazione. Il bambino faceva domande,
raccontava di
immaginarie avventure e a poco a poco aveva sciolto il cuore indurito
di Mattie.
Lei
era del parere che alla ragazza servisse proprio quello: smettere di
rimuginare
sulla sua invalidità e smettere di attendere Harm, che non sarebbe
venuto.
Aveva
parlato con il medico e con la fisioterapista ed entrambi le avevano
assicurato
che oramai non vi era più alcun impedimento fisico ad ostacolare una
completa guarigione.
Dipendeva
tutto da Mattie.
E loro
credevano che i motivi per i quali la ragazza ancora non camminava
fossero, più
che altro, psicologici. Forse aveva paura di non farcela e preferiva
evitare
una grossa delusione.
Nonostante
il freddo, aveva deciso di passeggiare un po’ nel giardino
dell’ospedale, per
concedere a Mattie la privacy che le serviva, affinché le infermiere
potessero
lavarla e cambiarla. Proseguendo lentamente nella sua passeggiata, si
ritrovò a
riflettere su quanto la paura, spesso, fosse un nemico più difficile da
sconfiggere di un intero esercito.
Ricordava
i mesi che aveva trascorso in terapia, proprio per affrontare le sue
ansie e i
suoi timori, che l’avevano nuovamente travolta dopo ciò che era
accaduto con
Sadik, ma soltanto perché non era mai stata del tutto in grado di
superarli.
La
dottoressa McCool le aveva insegnato a convivere con le ansie più
radicate in
lei e a sconfiggere poco alla volta quelle meno profonde. Tuttavia non
era
ancora riuscita a superare del tutto certe sue paure, e chissà se ne
sarebbe
stata mai capace.
Come
si poteva pretendere che ci riuscisse una ragazzina?
O come
poteva sperare che ci riuscisse Harm?
Harm…
Non
mancava solo a Mattie… mancava moltissimo anche a lei. Le mancava ogni
giorno e
ogni notte, da quell’unica che aveva trascorso tra le sue braccia. Il
ricordo
struggente di quei momenti e il pensiero continuo di ciò che sarebbe
potuto
essere l’accompagnava da mesi, impedendole qualunque decisione per il
proprio
futuro.
Al suo
rientro a S.Diego gli avrebbe scritto per lasciarlo libero,
definitivamente.
Non
poteva continuare ad andare avanti nella speranza che lui tornasse da
lei.
“Non
pianga… vedrà che tutto s’aggiusterà”.
Si stava
asciugando una lacrima, l’ennesima, che non era riuscita più a
trattenere,
quando una voce maschile la colse di sorpresa. Si voltò e vide un
anziano
signore, probabilmente un giardiniere, anche se non immaginava cosa
potesse
fare un giardiniere con un freddo simile… probabilmente aveva sistemato
degli
attrezzi. Aveva una folta barba bianca e indossava un lungo cappotto
scuro.
“Domani
è Natale” proseguì il vecchietto, “non deve piangere. Non sente lo
Spirito del
Natale?”
Fece
un debole sorriso, asciugandosi gli occhi.
“Mi
spiace, ma quest’anno proprio non riesco a sentire lo spirito del
Natale…”.
“Eppure
non sembra. Lei ha capito alla perfezione lo Spirito del Natale…”.
“Cosa
vuol dire con questo?”
L’uomo
le sorrise, ma non rispose alla sua domanda. Si limitò ad aggiungere:
“Deve
solo ritrovarlo e lo può trovare solo dentro se stessa”.
“Ma…”
“Ha
anteposto il bene di altre persone al suo… come può dire di non
riuscire a
sentire lo Spirito del Natale?”
“Mi
parla come se mi conoscesse… Come fa a sapere tutte queste cose?”
L’anziano
signore sorrise ancora, restando tuttavia in silenzio. La salutò con
una mano
mentre si allontanava. Lei lo guardò camminare lentamente, finché non
si fermò
e, voltandosi di nuovo verso di lei, disse:
“Deve
imparare ad aver più fiducia… e non perda mai la speranza, Mac”.
L’aveva
chiamata per nome. Come faceva a sapere come si chiamava?
Fece
per andargli dietro e domandarglielo, ma nell’attimo in cui aveva
deciso di
farlo, l’uomo era sparito.
Ufficio del Capitano Rabb – Londra
“Tenente,
ha fatto tutto quello che le avevo domandato?”
“Sissignore”
rispose il tenente Leach.
“E ha
controllato tutto quanto?”
“Certamente,
Signore”.
“Gli
appuntamenti?”
“Tutto
sistemato, Signore. Stia tranquillo”.
“Quelle
carte che le avevo chiesto di…”
“Recapitate,
Signore” lo interruppe il tenente, senza neppure lasciarlo finire.
Harmon
Rabb si guardò attorno e poi sorrise al suo assistente, che stava
diventando
ogni giorno più efficiente.
“E
sono anche andato a ritirare i pacchi, come aveva ordinato, Signore”.
“Grazie,
Tenente”.
Prese
la ventiquattrore che il giovane gli stava porgendo, assieme ad una
grande
borsa in cui vi erano due scatole natalizie.
“L’auto?”
“E’
pronta, Signore.”.
“Perfetto.
Può andare, Tenente. E Buon Natale.”.
“Grazie,
Signore. Buon Natale anche a lei, Signore”.
E così
dicendo uscì dall’ufficio; prima che si chiudesse la porta alle spalle,
sentì
la voce del Capitano Rabb aggiungere:
“Si
prenda pure il resto della giornata libero, Tenente”.
Quel
giorno Timmy non si era ancora fatto vivo. Era ormai tardo pomeriggio e
Mac se
n’era andata da poco, dopo aver trascorso con lei quasi tutta la
giornata.
Sarebbe ritornata l’indomani, in tempo per vedere la recita natalizia
dei
bambini dell’ospedale.
A lei
non interessavano quelle cose e poi odiava l’idea di farsi vedere sulla
carrozzella; ma Mac aveva insistito tanto. Forse avrebbe potuto anche
accontentarla. Del resto era l’unica persona ad essersi ricordata di
lei.
Ricacciò
indietro l’ennesima lacrima che stava per versare per Harm.
Mac
aveva detto che era a causa sua che lui non tornava da Londra, neppure
per
Natale; ma lei non ne era del tutto convinta.
Comunque,
se anche fosse davvero stato quello il motivo… Che stupidità quell’uomo!
Come
si poteva aver paura d’amare una donna come Mac?
Era
bellissima, buona e molto dolce; ma soprattutto era pazzamente
innamorata di
lui.
Harm
sarà stato anche un eroe di guerra; era simpatico, buono e gentile…
inoltre
sapeva volare e aveva gli occhi e il sorriso più belli del mondo. Ma
restava
comunque un imbecille se aveva paura ad amare Mac.
“Guarda
le mie ali nuove… Non le trovi bellissime?”
“Timmy,
finalmente! Credevo che non venissi più a trovarmi, oggi.”.
“Quante
volte devo dirti che sono l’aiutante di Babbo Natale? Oggi è la
vigilia, e ho
tanto lavoro da fare. Dovrò ben guadagnarmi queste mie ali nuove…”
disse il
bambino, guardandola con espressione condiscendente, quasi fosse un po’
tonta e
non capisse.
“Certo,
certo. Scusami. Lo avevo scordato” rispose Mattie, con un sorriso.
Timmy
era davvero convinto di essere l’aiutante di Babbo Natale… perché
disilluderlo?
In fondo era Natale.
“Andrai
a vedere la recita, domani?” chiese Timmy.
“Non
so. Mac vuole che vada con lei, ma a me non piace tanto fami vedere in
giro con
la carrozzella”.
“Perché
non ci vai con le tue gambe?”
“Timmy…
quante volte devo ripeterti che non posso più camminare?” gli disse
lei,
scimmiottando la sua espressione condiscendente di poco prima.
“Ne
sei proprio sicura? Secondo me hai solo paura a farlo di nuovo”.
“Paura?
Ma se io VOGLIO camminare!”.
“Vuoi,
ma hai paura di non riuscire più a farlo. E allora preferisci non
provarci
neppure. E poi ti lamenti di Harm…”
“Ma i
medici…”
“I
dottori dicono che non hai più nulla che ti impedisce di farlo. Se solo
tu lo
vuoi davvero… Guarda me: io, le mie due ali, le volevo davvero.”.
“Timmy…
le tue ali sono un’altra cosa” rispose Mattie, rassegnata a ritornare
sul
discorso che il bambino preferiva.
“Beh,
ora ce le ho… e mi
devo esercitare ad essere
un bravo Angelo, anche se non ho lunghi boccoli biondi…” e così dicendo
si
avvicinò alla finestra e lentamente l’aprì.
“Sei
un bellissimo angelo” disse Mattie, osservando il bambino che, al posto
del
pigiama con gli orsetti, indossava una veste bianca lunga fino ai
piedi. Si era
già vestito per la recita!
Poi si
rese conto che il bambino aveva aperto la finestra e stava avvicinando
una
delle due sedie che si trovavano nella stanza.
“Timmy…
cosa stai facendo?” gli chiese preoccupata.
“Salgo
qui”.
“Chiudi
la finestra. Fa freddo. E poi è molto pericoloso salire lì sopra,
soprattutto
con la finestra aperta. Che cosa vuoi fare?”
“Devo
esercitarmi a volare… sennò come faccio ad essere un bravo Angelo?”
Quella
storia stava diventando davvero ridicola. E molto pericolosa.
Mattie
cercò il pulsante per chiamare le infermiere: di solito lo teneva
sempre
accanto a sé, ma in quel momento non riuscì a trovarlo. Guardandosi
rapidamente
attorno vide che era stato appoggiato sulla poltrona accanto al letto,
probabilmente dimenticato dalle inservienti quel mattino quando
l’avevano
sistemata.
Non
sarebbe riuscita a prenderlo in tempo.
Tornò
a guardare Timmy e lo vide in piedi sul davanzale della finestra, che a
sua
volta era spalancata.
“TIMMY”,
urlò Mattie, per fermarlo. Il bambino era pericolosamente in bilico. Un
solo
movimento sbagliato e sarebbe precipitato.
“Mattie…
guardami come volo bene…” disse, allegro e sorridente, mentre si
accingeva,
quasi, a spiccare il volo.
“Nooo…
“ gridò la ragazza, precipitandosi fuori dal letto.
Afferrandolo
per le gambe, con un rapido scatto se lo tirò addosso. Cadde sul letto
col
bambino tra le braccia; fortunatamente il letto non era troppo distante
dalla
finestra e la sedia non aveva intralciato i movimenti.
Col
cuore in gola e scossa fino alla punta delle dita dei piedi, lentamente
si
spostò di lato poiché Timmy, nonostante fosse minuto, le pesava addosso
e non
riusciva a respirare. Ma forse era tutta colpa dello spavento.
Senza
neppure rendersene conto si rimise in piedi e, come in stato di trance,
chiuse
la finestra e posizionò nuovamente la sedia al suo posto.
Timmy,
seduto sul letto, la stava osservando con un sorriso compiaciuto. Per
un attimo
a Mattie venne voglia di schiaffeggiarlo: cos’aveva da sorridere così,
dopo lo
spavento che le aveva fatto prendere? Sperava che almeno quelle dannate
ali si
fossero rovinate, così forse gli sarebbe passata la voglia di giocare
all’angelo.
Invece
sembrava che le ali non avessero subito danni.
“Cos’hai
da ridere?” chiese brusca.
Era
arrabbiata, molto arrabbiata.
“Che
cosa ti è saltato in mente? Non lo sai che potevi cadere e morire?”
aggiunse,
quasi gridando.
“Hai
camminato…” sussurrò in risposta il bambino, con gli occhi che gli
brillavano.
“Sapevo che ce l’avresti fatta!”.
Fu
solo in quel momento che Mattie realizzò di trovarsi in piedi e di aver
effettivamente camminato.
Sentì
le gambe cederle per l’emozione e si aggrappò a Timmy, ancora seduto
sul letto.
Lo strinse forte tra le braccia e pianse.
Erano
quasi le 10 p.m. quando sentì suonare alla porta.
Si
alzò dal divano e andò a guardare chi fosse, prima di aprire. Quando
capì di
chi si trattava, in preda all’agitazione si appoggiò alla porta con
tutto il
corpo, per riprendere fiato e il controllo di sé.
Che
cosa ci faceva a Washington? E come sapeva che lei era lì?
Un
secondo, rapido, squillo la costrinse ad affrontarlo.
Aprì
la porta e restò sulla soglia ad osservarlo, immobile.
“Ciao,
Mac” la salutò lui, come se si aspettasse di trovarla proprio lì.
Era
davvero lui…
Dio,
quanto le era mancato!
Col
cuor in gola per l’emozione, non riuscì a dire nulla e nemmeno a
muoversi. Dopo
qualche attimo in cui anche lui era rimasto a guardarla, le sorrise e
domandò
dolcemente:
“Posso
entrare?”.
Mentre
si spostava per farlo passare, aspirò il suo profumo e, immediatamente,
un’ondata di desiderio la travolse.
Non
era cambiato nulla.
Lui
entrò e posò una grande borsa e la sacca che aveva a tracolla a terra e
poi si
voltò nuovamente a guardarla; nel frattempo lei aveva richiuso la porta
e vi si
era appoggiata di nuovo contro, come a cercare un sostegno in più,
oltre alle
proprie gambe.
Era
stordita, non sapeva più cosa fare: da un lato desiderava
disperatamente
gettarsi tra le sue braccia e baciarlo; al tempo stesso non voleva
farlo per
evitare di soffrire troppo quando se ne sarebbe andato di nuovo.
Fu lui
a risolvere il suo dilemma. Dopo averla osservata intensamente ancora
per
qualche istante, mosse alcuni passi verso di lei, fino a prenderle la
mano; si
fermò così, a pochi centimetri dal suo corpo, con la sua mano tra le
proprie.
Poi, mentre
l’attirava a sé per stringerla, finalmente mormorò le uniche due parole
che lei
desiderava sentirsi dire da mesi.
“Vieni
qui…”
Quando
l’ebbe tra le braccia, abbassò il capo e la baciò.
Le sue
labbra erano fredde, ma avevano quell’inconfondibile sapore che era
solo suo e
che la faceva sempre sciogliere; tuttavia rimase immobile, combattuta
tra il
desiderio di corrispondere al suo bacio e lasciarsi andare e la paura
di
soffrire nuovamente.
Lui
percepì immediatamente i sentimenti contrastanti contro i quali stava
lottando
e che gliela rendevano così distante, troppo distante emotivamente.
Allora si
prese del tempo e con la lingua le sfiorò le labbra, accarezzandogliele
lentamente.
Una
carezza sensuale, intima, dolcissima… che le fece schiudere la bocca e
la fece
reagire d’istinto, posandogli le mani ai lati del volto, per attirarlo
di più a
sé.
Fu
allora che, mormorando parole incoerenti, lui la strinse più forte,
fino a far
aderire completamente i loro corpi.
Sollevandole
la maglia, le sue mani, fredde come lo erano all’inizio le sue labbra,
cercarono
immediatamente la levigatezza della sua pelle e scivolarono impazienti
a
sfiorarle il seno.
Le
sfuggì un sospiro… Harm la voleva ancora.
E lei
desiderava lui con la stessa intensità di sempre.
Tuttavia
tentò di fermarlo, per capire le sue intenzioni. Non si era tolto
nemmeno il
cappotto, e già le sue mani avevano iniziato a spogliarla, insinuandosi
dolcemente sotto i suoi indumenti.
“Harm…
aspetta… perché sei qui?” insistette, quando comprese che lui non aveva
recepito, o non aveva voluto recepire, l’invito a fermarsi.
“Fammi
continuare… ti prego, Mac…” mormorò lui, sollevandole la gonna e
accarezzandole
sensualmente le gambe.
La
voleva, disperatamente.
“Ho
bisogno di te, Mac… Parleremo dopo. Ora voglio solo fare l’amore …
tenerti tra
le mie braccia…” disse, accompagnando ogni frase con un bacio, sul suo
collo,
sul viso, sulle labbra.
Lei si
lasciò intenerire dall’urgenza, mista ad un accenno di disperato
bisogno, che
colse nella sua voce, mentre il suo corpo cedeva di fronte alle
sensazioni
meravigliose che le sue mani e le sue labbra le facevano provare.
Ma era
davvero necessario trovarsi una scusa?
In
fondo era ciò che lei stessa desiderava.
“Dopo…
D’accordo.”
Non
appena capitolò, Harm la sollevò tra le braccia e la portò a letto,
senza
neppure togliersi prima il cappotto.
Il
“dopo” furono parecchie ore più tardi.
La
teneva ancora stretta a sé, in silenzio. Erano voltati su un fianco e
lui
l’abbracciava da dietro, avvolgendola completamente.
Ad un
tratto le mormorò all’orecchio:
“Perdonami”.
Il
cuore le si strinse di nuovo: ora l’avrebbe lasciata un’altra volta.
“Perdonami
per essermene andato. Non voglio più stare senza di te… Ti amo, Mac.”.
A
quelle parole riprese a respirare, anche se per l’emozione non riuscì
ancora a
parlare.
“Sposiamoci,
Mac. Sul serio, questa volta. Decideremo dopo cosa fare delle nostre
carriere…”.
“Verrò
a Londra con te” disse lei, decisa, riuscendo finalmente a riprendere
l’uso
della parola.
“No,
Mac. Non voglio che sia tu a sentirti costretta a lasciare il Corpo dei
Marine…”.
Si
voltò verso di lui e gli posò un dito sulle labbra, per zittirlo.
“Questa
è la mia decisione. Avevo intenzione di comunicartela già allora, se il
Destino
avesse stabilito che saresti dovuto essere tu a seguire me; ma avevo
capito che
la tua fuga non c’entrava col lavoro, si trattava della tua paura per i
legami,
per questo non ti dissi nulla. Verrò a Londra con te e porteremo Mattie
con
noi, se lo vorrà”.
Il suo
discorso era deciso e non ammetteva repliche.
Harm
comprese fino a che punto lei lo amava e quanto era stato stupido in
tutti quei
mesi ad ostinarsi a vivere senza di lei.
Le
sorrise teneramente.
“D’accordo,
Colonnello. Andremo a Londra.”.
Lei
ricambiò il sorriso, accoccolandosi meglio tra le sue braccia. Aveva
bisogno di
sentirselo addosso.
“Cosa
ti ha fatto cambiare idea, Harm?”.
“Un
sogno. E la paura di perderti per sempre, senza averti mai avuta.”.
Sentì
le lacrime inumidirle nuovamente gli occhi; ma questa volta,
finalmente, erano
lacrime di gioia.