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Autore: Medea00    16/05/2012    38 recensioni
"Headshot. Dritto in mezzo al petto. Un colpo di fulmine, a confronto, aveva l’intensità di una minuscola scossa elettrica."
Cheerio!Kurt/Nerd!Blaine. C'è bisogno di aggiungere altro?
Liberamente ispirata da un sacco di gifset che in questo periodo popolano Tumblr.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Cap 28
I have nothing




 

 
 
Si dice che l’esperienza è il nome che si dà ai propri errori; si dice anche che la vita sia come un libro, e le pagine sono tutti i giorni che l’hanno riempita.
Ma in tal caso, chi l’avrebbe scritto? Dio? Non esiste Dio, e non sarebbe talmente paziente da scrivere sei miliardi di libri. E poi, un libro si può rileggere. Una pagina si può strappare. E chi scrive quel libro, può controllare eventuali errori, cancellarli prima dell’uscita in scena.
No, la vita non è un libro: se così fosse, Kurt avrebbe già strappato in mille pezzi quella pagina che gli aveva fatto perdere Blaine, e con lui, parte del suo cuore.
 
 
Il giorno dopo quel terribile incontro con Samuelson, Azimio, e lui, Kurt aveva quasi paura. Paura di incontrarlo lì, in mezzo ai corridoi; paura di scoprire che lui non lo avrebbe salutato, o peggio: che gli avrebbe detto di non parlargli più, così da porre fine ad ogni sua speranza. Perchè, in fondo, Kurt ci sperava: troppe volte si era trovato a sognare una riunione con Blaine, in cui lo abbracciava e lo perdonava. Troppe volte si era immaginato il discorso da fare, impostandolo in un modo che potesse essere ascoltato.
Si era quasi convinto che glielo avrebbe detto lì, a scuola: dove era sicuro di trovare Blaine, e dove tutto era cominciato.
Eppure, nel momento in cui entrò in classe e, quasi per istinto, guardò il banco dove di solito era seduto Blaine, non si stupì nel vedere un posto completamente vuoto e privo di qualsiasi traccia di lui.
 



Blaine era assente da cinque giorni. Cinque giorni nei quali Kurt non lo chiamava, non gli scriveva, ma con una sorta di impulso irrefrenabile lo aspettava ogni mattina all’armadietto della scuola e, conseguentemente, si sentiva sempre un po’ più stupido, mentre si dirigeva verso l’aula della sua prossima lezione.
Cinque giorni. Un tempo troppo breve, rispetto ai due mesi vissuti, ma un tempo troppo lungo, per stare lontano da lui; rabbrividì, perchè non sapeva come avrebbe fatto a rivederlo. Sapeva soltanto ciò che ricordava: i suoi occhi chiari, confusi, che lo fissavano attoniti e poi, se ne andavano via, accompagnati dal passo solenne che scandì i primi secondi di quell’agonia. Ma no, non era un’agonia: per tutti quei cinque, lunghissimi giorni, Kurt non aveva pianto. Non aveva nemmeno riso, però.
Mercedes continuava a stargli accanto come un’ombra, accompagnandolo agli allenamenti e riuscendo perfino a farlo uscire di casa, per un po’ di sano shopping; ma sembravano tutti gesti inutili e privi di senso, che lui eseguiva più per abitudine, o per convincere se stesso. Convincere che sarebbe riuscito a riavere Blaine; convincere che quello fosse tutto un sogno, e che lui era ancora lì. Oppure, una piccola, minuscola parte del suo cuore, voleva soltanto convincere se stesso a non pensarci. Ma era impossibile: gli bastava vedere un videogioco, o un computer, o qualche numero matematico scarabocchiato sui muri dei bagni. Gli bastava osservare Finn e Rachel darsi il bacio del buongiorno, combattendo l’impulso di andare da lei e chiederle dove diavolo fosse Blaine, dal momento che lei doveva pur sapere qualcosa. E si domandava sempre che cosa gli avesse detto Blaine, ma poi sorrideva, in modo amaro, perchè era ovvio: doveva averle raccontato la verità, pura e semplice. Di come lui lo aveva tradito, deluso, ferito, in un modo che non poteva nemmeno più immaginare.
E quando ogni mattina quel pensiero gli piombava davanti, lui si sistemava meglio la tracolla sopra la divisa dei Cheerios, senza nemmeno accorgersi di averla stretta così tanto da lasciare dei segni. Respirando piano, si dirigeva verso il campo da football, o la prossima aula; dopotutto, quella era tornata ad essere la sua solita routine: allenamenti, chiacchierare con qualche ragazza senza cervello, passare più tempo possibile con Mercedes e ignorare del tutto le lezioni di matematica.
Niente Lan Party; niente ragazzi fuori di testa che organizzavano rapimenti a sorpresa; niente giochi o termini per cui occorreva un traduttore. Semplicemente, una vita che si potrebbe definire comune.
E i bulli avevano smesso di tormentarlo, come se non servisse più ormai; ed era quello che voleva, no?
Si soffermava a fissare la divisa che aveva addosso, come se fosse tornata ad essere un’armatura: era strana. Era pesante. Ogni tanto gli mancava il respiro, in quei momenti in cui il suo cuore si chiedeva come diavolo avesse fatto a vivere in quel modo, vuoto, superficiale, per quasi quattro anni.
 
 
“Kurt? Guarda che siamo arrivati.”
Alzò la testa di scatto, come destatosi dalla voce gentile e dolce di Finn. Non si era nemmeno reso conto che la macchina era parcheggiata di tutto punto e la campanella della scuola, poco distante da loro, suonava l’obbligo di entrare.
Al mattino del sesto giorno, Kurt era ancora così: un po’ vuoto, un po’ freddo. Nessuno sapeva cosa gli passasse esattamente per la testa e nessuno aveva il coraggio di chiederlo; Finn e Mercedes ne avevano parlato a lungo, riuscendo a capire soltanto ciò che era inevitabile agli occhi: lui e Blaine non si parlavano più. E non vedevano Blaine da quasi una settimana.
Quando Finn vide il suo fratellastro annuire impercettibilmente, per poi scendere dalla macchina, lo richiamò afferrandolo delicatamente per la manica della felpa dei Cheerios, rivolgendogli un’occhiata comprensiva.
“Amico... ma che è successo?”
E fu in quel piccolo, semplice momento, che Kurt stette quasi per scoppiare. Perchè suo fratello era forte, gentile e aveva Rachel; perchè lui non sarebbe mai ricorso ad un piano così meschino e falso per proteggerla, avrebbe sicuramente trovato la cosa migliore da fare. Perchè in quel momento più che mai desiderò piangere, e gridare, e rivedere Blaine abbracciandolo fino a togliergli il respiro; ma non poteva.
Blaine non era lì. Blaine se n’era andato.
“Niente.”
Il tono con cui lo disse apparve rilassato e felice, sebbene nessun angolo del suo viso si stesse sforzando per modellare un sorriso. Ormai aveva rimesso la maschera, e non aveva motivi per toglierla; quindi, tanto valeva usarla.
Salutò velocemente Finn, dirigendosi a grandi passi verso l’interno della scuola, e quest’ultimo uscì dalla macchina qualche secondo dopo, con il volto stanco e una mano intrecciata trai capelli. Quando Rachel gli si avvicinò, bastarono un paio di sguardi per capire che nessuno dei due fosse riuscito a capirci qualcosa.
“Hai parlato con Blaine?”
Lei fece segno di no, e parlò con tono debole e rammaricato.
“Lui... ha detto di voler stare un po’ da solo.”
Si abbracciarono stretti, perchè in quel momento avevano bisogno più che mai di sentire il calore dell’altro. Perchè Kurt e Blaine sembravano così freddi, adesso, da far venire ad entrambi dei brividi.
 
 
La lezione di matematica era, probabilmente, l’ultima cosa che Kurt voleva seguire in vita sua. Non avrebbe sopportato di nuovo quella professoressa va-da-sè che approfittava di ogni scusa per richiamarlo all’attenzione o punzecchiarlo. E poi, la matematica gli ricordava Blaine.
Stava già per voltarsi indietro, correre in infermieria e fingersi malato, che Mercedes gli arrivò accanto e lo salutò gentilmente, dandogli un pizzicotto sul fianco.
“Come va capitano? Sei pronto per le nazionali?”
Ah, giusto. Le nazionali. Il giorno dopo sarebbero partiti per la competizione più importante della sua vita da liceale e lui in quel momento desiderava soltanto infilarsi sotto le coperte e dormire fino alla fine del mondo.
“Sì, certo, è fantastico.” Riuscì a dire, con poca convinzione. Mercedes rafforzò ancora di più l’entusiasmo cominciando a dire quanto fosse in ansia, emozionata, e che lui avrebbe stupito tutti con la sua voce e la canzone. Anche se Kurt dubitava di poter fare di meglio del medley di Celine Dion, si limitò a ringraziarla, attraverso un piccolo sorriso.
“Vinceremo anche questa volta.” Commentò l’amica prendendo posto nel banco accanto a lui, troppo concentrata per fantasticare sul trofeo per prestare attenzione alla professoressa che si stava scandendo sonoramente la voce per ottenere silenzio.
“Insomma volete stare zitti!?” Strillò dopo un paio di minuti, con tutti che, in risposta, presero a parlare ancora di più. Kurt sospirò, posando una mano sotto al mento: sarebbe stata una lunga lezione.
“Oh poco male – commentò la professoressa di fronte a quel chiasso, con un ghigno malefico – vorrà dire che vi tapperò io la bocca.”
Estrasse una pila di fogli dalla valigetta, e in quel momento in tutta l’aula calò il silenzio. Mercedes strattonò appena la felpa dei Cheerios di Kurt, chiedendogli impaurita se quelli fossero veramente i compiti in classe della scorsa volta.
“Che palle – sbuffò Santana, ad un banco di distanza dai due – perchè deve rovinarci la festa proprio il giorno prima delle nazionali?”
“Quel compito era impossibile, avrò preso una F, è sicuramente una F” continuava a mormorare l’amica in preda al panico, cominciando già a scrivere la lettera sul banco come per abituarsi alla vista.
Quando la professoressa si posizionò davanti a Kurt, lo fissò per qualche secondo, prima di concentrarsi sul compito che teneva in mano.
“Hummel.” Fece lei; non era proprio un saluto. Kurt non lo riconobbe come un saluto, quindi si limitò a guardarla. E restarono così, per qualche secondo; il resto della classe stava quasi annegando in tutta quella tensione, ma Kurt, in realtà, era solo confuso: si chiese cosa stesse aspettando la professoressa, dopotutto, non era la prima volta che prendeva una F, e di certo non poteva provare compassione per lui.
Dopo un tempo incalcolabile gli consegnò il foglio, sfoggiando un piccolo ghigno. Kurt lo prese tra le mani con cautela,  lo osservò attentamente, contò tutte le correzioni per poi soffermarsi su quella lettera cerchiata in rosso, ben visibile a fondo pagina.
Era una A.
Prima ancora che potesse accorgersene, Kurt aveva già ceduto.
Nessuno capì il motivo per cui fosse scoppiato a piangere; così come nessuno capì Mercedes che, in quel momento, lo aveva abbracciato stretto, sussurrandogli che sarebbe andato tutto bene, fino a quando i singhiozzi si affievolirono e il corpo smise finalmente di tremare.
 
 
 


Il Lan Party non era più lo stesso, ormai. Jeff Wes e Nick se ne stavano seduti al loro tavolo roteando controvoglia qualche dado un po’ consumato, e Greg stava al bancone, in silenzio, interrotto soltanto da qualche rumore elettronico dei computer.
Non vedevano Blaine da giorni, e non rispondeva più alle telefonate. All’inizio aveva semplicemente detto di stare poco bene; poi, aveva iniziato a dire di non aver voglia di giocare; infine, aveva accennato a Wes di aver litigato con Kurt, e che quindi non si sarebbe fatto vivo per un po’. I tre ragazzi si guardarono malinconici, si riunivano soltanto per sperare di vedere Blaine sbucare da quella porta e cominciare a escogitare una nuova armatura per qualche suo personaggio. In realtà, dal momento che Blaine non compariva mai, loro avevano smesso di giocare, limitandosi a scambiarsi qualche parola di tanto in tanto.
Perfino le otaku leggevano i loro manga sfogliando le pagine con più cautela possibile per creare il minimo disturbo. Era tutto un po’ freddo senza Blaine; o meglio, era tutto un po’ freddo senza il Blaine innamorato di Kurt, sempre allegro e gentile.
Quando sentirono il rumore della porta che si apriva si aspettavano di vedere chiunque, tranne quella divisa bianco e rossa che saltò subito all’occhio.
"Blaine...è qui?"
Kurt Hummel sembrava più sciupato del solito, con i capelli un po’ scompigliati e delle grandi borse sotto agli occhi; aveva sempre un’aria stanca, per via degli allenamenti o dello studio, ma adesso sembrava quasi un altro, come un automa senz’anima. L’unica cosa che permise ai ragazzi di andargli incontro e salutarlo con un abbraccio furono i suoi occhi chiari, ancora vivi, che si guardavano intorno come alla ricerca di qualcuno.
Greg anticipò gli Warblers stringendolo in un abbraccio e sollevandolo appena da terra, provocando una sorta di sussulto nel ragazzo.
“Ciao anche a te” mormorò il ragazzo, mentre l’uomo lo guardava quasi commosso dicendo: “mi sei mancato ragazzino.”
Gli Warblers li raggiunsero subito dopo, chiedendogli come stesse, cosa avesse fatto in quella settimana, perchè non fosse venuto nemmeno una volta; il resto del Lan Party li osservava di soppiatto, con la coda dell’occhio.
E Kurt voleva così tanto parlare con loro, voleva sfogarsi con qualcuno, qualcuno che lo capisse; ma di fronte a tutte quelle domande, fu costretto a inarcare le sopracciglia, domandando perplesso: “Blaine non vi ha detto nulla?”
"No. Ci ha solo detto che...beh, che avete avuto dei problemi. E' da una settimana che non si vede."
Fece una smorfia, sofferente. Era così allora. In ogni caso, era arrivato troppo tardi.
"Io...io sto per partire. Vado a Chicago per le nazionali dei Cheerios."
"Oh, in bocca al lupo allora."
Di nuovo, ci fu un lungo silenzio. Kurt continuò a guardarsi intorno, era a disagio: come se quel posto, ora che non c'era più Blaine, non gli appartenesse più.
"Io...io speravo di potergli parlare, ma...immagino che sia occupato.”
Cercò di cacciare indietro le lacrime, dolorose quanto le fitte che stava ricevendo il suo cuore.
“Potreste salutarlo, per me?"
Annuirono. Faceva un po' male guardarlo in quello stato. Sembrava perso, distrutto. Wes fece un passo verso di lui, porgendogli la mano con gentilezza: “Kurt, vuoi...?”
“No – lo interruppe, con tono brusco, ma moderato un attimo dopo – voglio dire, no, grazie. Io... devo proprio andare.”
Qualsiasi cosa avesse fatto, non riuscivano a biasimarlo; era ovvio che ci tenesse a Blaine. Così com’era ovvio che Blaine fosse pazzo di lui.
E allora, perchè non potevano lasciarsi tutto alle spalle, ed aggrapparsi a quello?
Questa fu la domanda che i ragazzi del Lan Party si fecero, quando videro Kurt salutarli con un piccolo sorriso e scomparire dentro l’abitacolo scuro della sua macchina.
 




Il parcheggio del McKinley era deserto, eccezion fatta per un gruppo di ragazze che stavano saltellando eccitate e la coach Sylvester che dava ordine di salire sull’autobus, con il suo immancabile megafono spaccatimpani. Mercedes sollecitò Kurt per un braccio, gli fece cenno di entrare: quest’ultimo la guardò, chiedendole di aspettare qualche altro secondo, come se ci fosse qualcosa.
Perchè tutto ciò a cui si stava aggrappando da una settimana doveva pur avere un riscontro; se non sarebbe successo in quel momento, allora, si sarebbe lasciato andare. Perchè, nonostante tutto il dolore, e l’odio verso se stesso, e le lacrime versate, Kurt sperava: sperava ancora che Blaine venisse lì, augurandogli buona fortuna per le nazionali. Sperava in una di quelle scene da film, in cui l’autobus stava per partire, il ragazzo gli correva incontro, il protagonista si gettava tra le sue braccia e finalmente si baciavano, mormorandosi tutte le scuse che non erano state dette, promettendosi che sarebbero stati insieme, per sempre.
E l’autobus stava veramente partendo, ma Blaine non era lì. Quello non era un film, e non sempre avvengono i lieto fine; e Kurt si ritrovò a pensare che fosse diventato l’antagonista della sua stessa storia, e si sa, i cattivi non vincono mai.
Ed era giusto così: una piccola parte di sè, continuava a pensare che se lo meritasse. Continuava ad augurare a Blaine ogni bene, a supplicare chissà cosa di perdonarlo, non oggi, ma un giorno; magari, si sarebbero rivisti alla cerimonia del diploma, entrambi contenti e un po’ spensierati. Magari si sarebbero stretti la mano, come per dire, “grazie per i due mesi più belli della mia vita”.
Così Kurt si rannicchiò su se stesso in quel sedile dell’autobus, e Mercedes, semplicemente, gli stette accanto per tutto il tempo; il resto del gruppo, intanto, cantava. E quello era ciò che faceva più male di tutti: perchè era straziante vedere come tutto il mondo andasse avanti, rideva, scherzava, quando il suo era appena crollato sotto ai suoi piedi.
 


 
Squilli; nient’altro che squilli.
Era da quasi una settimana che la sua vita era fatta di squilli: squilli al telefono, squilli del campanello, squilli del suo computer quando lo avvertiva di qualcosa. Ma a Blaine stava bene così; non aveva voglia di fare niente, non aveva voglia di vedere nessuno, in quel momento. Certo, un “momento” che stava durando da più di una settimana, ma il vantaggio di avere genitori divorziati è che sanno essere molto comprensivi, quando vogliono. Così, si limitò a dire a sua madre di stare male, e lei era troppo presa dal suo lavoro di sedici ore giornaliere per occuparsene. Dopotutto, era la verità: Blaine non era mai stato così male in vita sua. E a peggiorare la situazione, come se non fosse già pessima di suo, c’erano anche tutti quegli squilli.
Ormai aveva smesso di rispondere a quelli degli Warblers; per qualche giorno aveva anche smesso di rispondere a Rachel, perchè lei continuava a fare domande e a volerne parlare. Entrambe cose che si rifiutava di fare, sia perchè non voleva davvero spiegare, sia perchè, in fondo, non c’era proprio niente da dire. Kurt era Kurt, e questo lo aveva sempre saputo. O meglio, avrebbe dovuto saperlo. Forse si era illuso di averlo cambiato, in qualche modo, di aver riportato alla superficie quel lato di lui dolce e meraviglioso.
No. Strinse più forte il mouse del computer, resistendo all’impulso di frantumarlo contro la parete: lui doveva smettere di fare quei pensieri. Doveva smettere di pensare a Kurt, in generale.
Quando il campanello squillò, per l’ennesima volta quella settimana, si alzò malvolentieri per aprire, sperando che fosse la pizza a domicilio, divenuta ormai costante delle sue giornate solitarie. Invece, con nemmeno troppa sorpresa, vide Rachel puntargli un dito contro il petto iniziando a parlare furiosamente: “Blaine Anderson, si può sapere dove diavolo eri finito!?”
Lui la guardò impassibile, stringendosi appena nelle spalle. Oh beh, sapeva che sarebbe successo, prima o poi.
“Prego, entra pure. Mi scuso per il casino.”
In realtà, la casa era un vero disastro: a parte i vestiti sparsi un po’ ovunque e i cartoni di pizza avanzati, le persiane erano serrate e l’odore di chiuso penetrò le narici della povera donna facendola sussultare. Blaine non si faceva la barba da chissà quanto tempo e aveva un aspetto più trasandato del solito, dal momento che indossava una tuta vecchia di chissà quanti anni e i suoi capelli assomigliavano ad un’esplosione nucleare.
“Che diavolo ti è successo? Sembri un profugo di guerra.”
Le sue labbra si incurvarono appena verso l’alto, quasi come se volesse sorridere.
“Mi fa piacere rivederti. Che mi racconti? E’ successo qualcosa con Finn?”
E più continuava così, con quella scenetta da ragazzo rassegnato e privo di linfa vitale, più la migliore amica voleva dargli un pugno in faccia, giusto per strillargli contro di riprendersi la sua vita; resistendo a tutti quegli impulsi, lo trascinò in camera e lo mise a sedere con la forza, fermandosi davanti a lui un secondo dopo, a braccia conserte. Ma Blaine sembrava non avere nessuna intenzione di ascoltare qualsiasi discorso stesse per iniziare, così si alzò di nuovo e si riposizionò davanti al computer, riprendendo a giocare il suo Demon Hunter di Diablo III.
“Blaine.”
La voce autoritaria e seccata dell’amica non fu sufficiente a farlo voltare, ma mormorò qualcosa con tono di domanda, cercando di risultare gentile.
“Cosa diavolo stai facendo?”
“Sto giocando” rispose lui, come se fosse ovvio.
“Smettila di fare così.”
“Così come?”
“Come se stessi bene.”
Non rispose; non si sarebbe ridotto a mentire, non lui.
“Metti pausa –intimò l’amica, con tono gelido- Immediatamente.”
“Non posso, è un gioco online, sono in pieno teammate con altri ragazzi di una gilda che non so come si chiama e-“
Un secondo dopo, tutta la schermata del videogioco davanti a lui si spense. E lui restò a fissare lo schermo attonito, per dieci lunghi secondi, prima di voltarsi verso Rachel e vederla soddisfatta mentre teneva la spina della corrente in una mano.
Non ce la fece più.
Si alzò di scatto, afferrandola per le spalle con un po’ troppa forza; la ragazza strizzò gli occhi, quasi preoccupata. Ma li riaprì debolmente nel momento in cui sentì il corpo di Blaine farsi più vicino fino ad abbracciarla con forza, come se avesse voluto farlo da una vita. E lei, semplicemente, gli accarezzò delicatamente la schiena, sentendo i suoi respiri farsi sempre più spezzati.
Alla fine, Blaine parlò. Le raccontò di Azimio e Samuelson, del dialogo che aveva sentito, dell’espressione fredda di Kurt quando aveva mentito ai due ragazzi; le spiegò quanto si fosse sentito tradito da quelle parole, ma soprattutto, quanto si fosse sentito stupido nel credere di essere riuscito a togliere quella maschera che odiava tanto.
“Non lo so cosa diavolo sto facendo”, riuscì ad ammettere lui, sebbene la gola secca e le lacrime gli fecero tremare la voce.
“Non lo so Rachel, non so più niente. Non so più chi è Kurt, e non so nemmeno perchè ha agito così.”
Sentì l’amica lasciargli un piccolo bacio sulla guancia, per poi tornare a stringerlo contro di sè.
“Ha vinto – sussurrò lei, molti secondi dopo- Kurt ha vinto le nazionali.”
Oh. Blaine spalancò un po’ gli occhi, e nonostante tutto, una minuscola parte di sè si sentì incredibilmente felice.
“Bene. E’... va bene.”
“No che non va bene.” Aggiunse lei. Si staccò quel poco per guardarlo dritto negli occhi, sembrava distrutta nel dire quelle parole: “Blaine, Kurt ha cantato I have nothing di Whitney Houston, ed è scoppiato a piangere.”
Il cuore di Blaine ebbe un fremito.
“Che...che vuoi dire?”
“Ha cantato, e ha cantato benissimo. E senza nemmeno aspettare che finisse la base se n’è andato via, scoppiando a piangere negli spogliatoi. Non è nemmeno tornato per prendere la coppa, quando lo hanno richiamato per applaudirlo.”
Blaine restò in silenzio, come se avesse bisogno di metabolizzare quanto sentito. Che cosa significava tutto quello? Che voleva dire?
“Io credo che... fosse dedicata a te, quella canzone.”
Non poteva essere; o forse sì?
Kurt lo aveva ferito così tanto, quel giorno, che Blaine non riusciva più a capirlo. In realtà, fino ad allora, era scappato: si era rinchiuso in camera sua, nel suo posto sicuro, perchè non aveva il coraggio di affrontare la realtà. L’eventualità che Kurt non volesse più vederlo; il terrore di averlo perso, in favore di quel capo cheerleader che aveva conosciuto mesi prima.
Però, adesso, Kurt aveva pianto. E poteva immaginare così bene i suoi occhi cerulei arrossarsi, le sue labbra incrinarsi in una smorfia; desiderò di poterle baciare, con tutto se stesso.
Emise una smorfia, affondando il viso nell’incavo del collo di Rachel; aveva sperato che, con isolamento e riflessioni, sarebbe riuscito a comprendere qualcosa di tutta quella situazione. Invece, più il tempo passava, e più non capiva.
“Non ci capisco più niente.” Ammise infine, respirando la pelle profumata di Rachel; sapeva di femminile, dolce e tranquillità. Sentì i muscoli del suo corpo rilassarsi sotto la voce della sua migliore amica.
“Blaine, non fare così. Non si tratta sempre di bianco o nero. Non è detto che-“
“Parli proprio tu, che tra tutti, sei stata la prima ad avvertirmi su- su questa situazione.” Balbettò, un po’ contrariato. Non riusciva ancora a pronunciare il nome di Kurt; lo avrebbe fatto sentire più vicino, così tanto da fargli male.
“Appunto per questo Blaine – aggiunse Rachel, con voce morbida e decisa - ti chiedo di non trarre conclusioni affrettate come ho fatto io. Devi parlare con Kurt... qualsiasi cosa lo abbia spinto a dire quelle cose, ci dev’essere un motivo.”
Blaine sperò che avesse ragione; ma se invece avesse scoperto che non c’era nessun motivo? Se invece avesse scoperto un lato di Kurt che non consoceva, e che lo avrebbe allontanato definitivamente da lui: sarebbe riuscito a sopportarlo?
C’erano così tante domande senza risposta, e così tante paure; ma Blaine, in quel momento, si sentì un po’ meno solo. Rachel gli diede un ultimo abbraccio –avvertendolo, prima- e poi incominciò a straparlare sul disastro del suo aspetto, per non parlare di quello della casa. E lui, quella volta, sorrise.
Forse si sarebbe riaggiustato, in qualche modo.
 
 
 
Dopo aver passato un’intera giornata a pulire, Blaine si sentiva un po’ meglio: l’ordine della casa gli regalò quasi una sorta di ordine mentale, e facendo un rapido schema di cose da fare decise di farsi una doccia, radersi la barba, indossare qualcosa di decente e cucinare del cibo serio, racimolando un po’ di scorte trovate nella dispensa. Rachel era dovuta andar via perchè chiamata da dei genitori furiosi che non sapevano dove si trovasse, così, promettendogli che si sarebbero rivisti presto, il ragazzo si ritrovò di nuovo da solo, con una casa un po’ troppo grande per lui.
Lavò i piatti, fece partire la lavatrice e si distese sul divano del salotto, cercando qualche programma televisivo che non fosse troppo insopportabile: non poteva tollerare commedie romantiche, reality show, film vintage e qualsiasi cosa gli facesse ricordare la sua situazione incasinata. Così, quasi per istinto, prese il dvd di Star Wars: lì almeno la storia d’amore non era molto accentuata, e provava un po’ di pena per Ian Solo che per tre film pensò che Luke e Leila fossero amanti. Almeno, pensò tra sè e sè, c’è qualcuno che sta peggio.
Dopo un’ora di proiezione –nemmeno metà film, vista la durata di tre ore abbondanti-, il campanello squillò un’altra volta, e per un momento Blaine sperò che Rachel avesse ottenuto un permesso speciale per passare la notte lì: avrebbero parlato, si sarebbero finiti di vedere il film e lui avrebbe messo una coperta sulle sue ginocchia, dal momento che la ragazza si addormentava puntualmente dopo venticinque minuti. Aveva smesso perfino di offendersi, sebbene non ritenesse possibile che Star Wars potesse provocare sonnolenza.
Ma quando fu ad un metro di distanza dalla porta capì immediatamente che non poteva trattarsi di Rachel, perchè Rachel non strillava – o meglio, non sempre -, non era un uomo e, soprattutto, non conosceva nessuna parola di nerdese.
“Ciao ragazzi”, disse allora, mentre apriva la porta e Jeff, Nick e Wes lo fissarono allibiti.
“Ciao ragazzi?” Fece eco il biondo, come se gli avesse appena detto che Darth Mawl fosse noob.
“CIAO RAGAZZI? Ti sembra questo il modo di salutare i tuoi fratelli, dopo otto giorni che non ci vediamo!?”
“E’ passato così tanto tempo?”
Wes si passò una mano sulla fronte.
“No. Ok. Dobbiamo parlare.”
Senza nemmeno aspettare un invito entrarono in casa sua, chiudendosi la porta alle spalle e soffermandosi un attimo a osservare la morte nera che apparve sullo schermo del televisore.
“Star Wars?”
“Sì”, mormorò Blaine, con un piccolo sorriso.
“Sul serio? Blaine, tu ti guardi Star Wars solo quando sei depresso.”
“Ma non è vero!”
Jeff si leccò il pollice prima di cominciare a contare, con aria pensierosa e tono meccanico.
“Quando ti è morta la memory card della playstation, quando è morto Thor per la prima volta nei fumetti, quando hai scoperto che Orlando Bloom non è gay...”
“Uh, duro colpo quello”, ricordò Nick un po’ allarmato. Blaine sospirò, spense il televisore per terminare quella farsa e li guardò scettico, posando una mano su un fianco.
“Vi ha detto Rachel di venire qui?”
“Rachel ci ha solo detto che adesso saresti stato presentabile, così siamo venuti.”
“Se tu non vieni dal Lan Party, il Lan Party viene da te.”
“Come la montagna di Mosè.”
“Scemo, mica era Mosè.”
“Ma Mosè non era quello dell’arca?”
“E che cosa dovremmo fare?” Li interruppe Blaine, fingendosi ancora un po’ scocciato ma, sotto sotto, il suo umore stava già migliorando notevolmente.
“Blaine Warbler”, sentenziò Wes, posando a terra il borsone e cominciando ad estrarre una miriade di giochi per playstation 3. “Visto che hai il master più figo del mondo, ti ho portato tutti i giochi che ho, e puoi sceglierne uno come regalo.”
“CHE COSA!?” Fecero eco gli altri due, zittiti immediatamente da un’occhiataccia. Blaine sembrava lusingato, come un bambino di fronte a Babbo Natale: “Sul serio mi vuoi regalare un gioco?”
“Sì. Ma non fammi pentire.”
“Bene, allora scelgo Prototype!”
“Eh no, Prototype no dai.”
“WES”, scandirono Jeff e Nick, e il master deglutì, come se si stesse sforzando di non piangere. Porse la custodia al suo amico e Blaine fece quasi per prenderla, perchè non aveva mai giocato a quel gioco e moriva dalla voglia di farlo. Poi, però, come destatosi, scosse la testa, sfoggiando un sorriso gentile.
“Ti ringrazio Wes, ma non serve.”
“Come non serve.” L’amico sembrava allibito. Insomma, aveva appena rischiato di perdere il suo gioco preferito in segno di amicizia... e veniva scartato così? Era offeso. Ecco perchè non doveva essere gentile, insomma, ci rimetteva sempre.
Blaine chiese a Nick di aiutarlo a spostare il tavolino del salotto, e dopo averlo fatto invitò tutti a sedersi in cerchio, mentre lui correva in camera a prendere uno di quei giochi che, per un motivo o per un altro, non facevano da un sacco di tempo.
“No.” Mormorò Nick, ricevendo un tuffo al cuore alla vista di quella piccola scatola anonima, e un po’ usurata.
Anche Jeff era incredulo, continuava a mormorare: “Non ci posso credere.”
Wes, con una calma destabilizzante, riportò tutti sul mondo dei vivi, e commentò un po’ acido: “Monopoli Blaine? Sul serio?”
Insomma, Blaine aveva appena rinunciato alla sua immensa generosità per monopoli? Era un affronto.
“Il primo gioco da tavolo che abbiamo fatto insieme.” Mormorò Nick.
“L’inizio della nostra amicizia...” Jeff stava quasi per piangere.
E Wes, un po’ preso dall’atmosfera malinconica, non riuscì a trattenersi dal dire un po’ più felice: “Il nostro primo litigio.”
“Cavolo Wes, tu non volevi vendermi viale Traiano, insomma, eri full rosso e io solo full verde! Sei un tirchio anche da imprenditore.”
“IO un tirchio? Ma se ho appena venduto la mia anima a Blaine! E lui l’ha rifiutata, quindi, ecco, andiamo avanti e giochiamo.”
Blaine sorrise, di fronte alla pazzia dei suoi amici, perchè si stupivano per ogni cosa. E, in quel momento, riconobbe casa sua come propria. Si sentì fortunato, e anche riconoscente verso di loro, per come si stavano comportando: non erano silenziosi, non sembravano a disagio. Erano i soliti pazzoidi di sempre e, soprattutto, sembravano non aver nessuna intenzione di chiedergli cosa fosse successo con Kurt; forse, Rachel lo aveva già raccontato per lui. Non gli interessava: i suoi migliori amici erano lì, e lui per un paio di ore poteva tornare ad essere se stesso.
 
 
“Non ci posso credere – mormorò Jeff - Wes, come diavolo hai fatto? Non ci posso credere.”
Wes aveva praticamente tutti i territori possibili: acque potabili, società elettrica, Viale dei Giardini e Parco della Vittoria. Con un ghigno che si poteva solo definire come malefico porse la mano a Jeff, facendogli cenno di consegnare.
“Sgancia la grana biondino.”
“Ti odio” brontolò lui, perdendo anche gli ultimi soldi rimasti. “Davvero, ti odio.”
Blaine sorrise, cominciando a rimettere al proprio posto tutte le banconote finte: “Beh, direi che abbiamo un vincitore.”
“Sì, Wes I’m the Best.”
“Cerchi rogne Nick?”
“Facciamo un altro gioco, vi prego. Qualcosa in cui Wes non può vincere.”
“Potremmo giocare a Uno?”
Wes si alzò in piedi, stiracchiandosi la schiena ed essendo ancora compiaciuto dalla sua eccellente vittoria.
“Macchè uno, ci vuole una bellissima partita a Risiko.”
“NO!” Urlarono gli altri tre, e il ragazzo in risposta si esaltò ancora di più.
“Che c’è? Paura di perdere? Andiamo, sarà divertente.”
“Non è divertente Wes, hai una fortuna sfacciata – mormorò Nick – solo perchè sei asiatico.”
Blaine scoppiò a ridere, ignorando il soggetto della questione che si stava dirigendo in camera sua alla ricerca di qualcosa – probabilmente, del gioco e dei dadi-.
“Che c’è Blaine? Guarda che è risaputo, gli asiatici sono fortunati da morire.”
“Continua a cercare scuse, Nick” urlò Wes dall’altra parte della stanza mentre con un ghigno soddisfatto si apprestava a prendere il sacchetto di Blaine contenente tutti i dadi; ormai conosceva a memoria ogni angolo di casa di Blaine, perchè in passato si erano ritrovati spesso a giocare lì. Per questo si stupì un poco quando vide un foglietto nascosto sotto al sacchetto dei dadi, scritto a mano, e appoggiato su una bustina anonima e poco appariscente.
Lo osservò perplesso, accarezzò il biglietto con la punta dell’indice facendolo scorrere lungo tutta la scritta.
Tornando in salotto dagli altri ragazzi, nessuno fece caso alla sua espressione confusa, così come al tono serio della sua voce mentre chiamò il nome di Blaine.
Il ragazzo si voltò, con ancora il sorriso impresso sul volto proveniente da chissà quale battuta ridicola: vide Wes stringere un foglietto tra le mani, per un attimo, non riconoscendolo affatto e non riuscendo a ricollegarlo con la domanda che gli fu fatta.
“Blaine, ma da quando in qua hai un ammiratore segreto?”
E Blaine, semplicemente, lo fissò. Wes si avvicinò a lui con passo un po’ più deciso indicandogli la scritta in cinese e recitando con pronuncia perfetta: “E’ scritto pure male... voglio dire, sicuramente non è opera di un esperto, non è così?”
Blaine, però, continuava a non capire.
“Ma che stai dicendo?”
“Blaine, non è colpa mia se mia madre è asiatica e io so leggere il cinese. Woo ai ni. Ma chi te l’ha scrittto questo?”
“Kurt”, rispose lui, senza nemmeno pensare. E nel momento in cui pronunciò il suo nome, fu come se il suo corpo riprese a vivere, ispirando quell’aria pulita e nuova che lo fece sussultare per un breve momento; vide il volto dell’amico illuminarsi di colpo, rivelando un sorriso che nessuno gli aveva mai visto fare.
“Eh? Che succede?” Chiese Jeff, seguito a ruota da Nick che guardò i due ragazzi mordicchiando una casetta del Monopoli. Ma Blaine si alzò in piedi, gli prese il foglietto tra le mani. Non si accorse che gli stavano tremando, forse, perchè il suo cuore aveva pian piano cominciato a capire.
“Che stai dicendo Wes? Che cosa vuol dire questo foglietto?”
Wes prese un bel respiro; era consapevole di star facendo venire un infarto al suo migliore amico. Così, alla fine, con voce canzonatoria, e anche un po’ felice, lo rivelò.
“Significa ti amo.”
Oh.
Ti amo.
Ti amo.

 
“Blaine, sei con noi?”
Wes gli sventolò una mano davanti alla faccia, non riuscendo a trattenere una piccola risata. Blaine, da una manciata di secondi, era pietrificato: aveva perfino smesso di respirare, gli occhi spalancati, la bocca semiaperta mentre il suo cuore rischiava seriamente di schizzargli via dal petto.
Ti amo.
Non riusciva a credere a quelle due piccole paroline, così semplici, eppure, così fatali.
Ti amo.
“Blaine? Ma stai bene?”
Jeff e Nick stavano saltellando da un quarto d’ora, stringendosi come due amici che avevano appena visto la propria squadra del cuore vincere la coppa del mondo.
“Devo andare.”
Quella frase immobilizzò i due ragazzi, perchè, incredibilmente, era riuscito a parlare. Per un attimo temevano che avesse perso la voce.
“Ma che stai dicendo? E’ quasi mezzanotte. Dove devi andare?”
“Da Kurt.”
Perchè Kurt lo amava. Lo amava, da chissà quanto tempo.  E per un attimo, non riuscì nemmeno a crederci, ma era così ovvio. Adesso che la verità gli era stata posta davanti, era così ovvio...
“Ci vediamo tra un’oretta.”
Questo disse, dopo aver afferrato giubbotto e chiavi della macchina ed essersi richiuso la porta alle spalle; non gli era nemmeno importato di aver lasciato gli amici a casa sua, da soli, con nient’altro che un monopoli ancora mezzo aperto e il bigliettino di Kurt scivolato a terra.
Wes guardò i suoi due migliori amici, emettendo un piccolo sospiro: “Beh. Direi che il nostro Warbler ne avrà per almeno due o tre ore.”
I due ragazzi annuirono, con dei sorrisi che arrivavano fino alle orecchie. Si sedettero sul divano, Nick afferrò il telecomando e Jeff andò in cucina a preparare dei pop-corn, come se si fossero già accordati mentalmente su cosa avrebbero dovuto fare. In realtà, tutti e tre morivano dalla voglia di seguire il loro migliore amico e godersi il ricongiungimento con Kurt; ma non potendo farlo, non c’era niente di meglio di una bella maratona di Star Wars.
 
 


 
Il trofeo dei Cheerios si trovava in camera sua, su una mensola appositamente spolverata. Era solo una targhetta, perchè la coach teneva tutte le coppe per sè, ma a Kurt non importava nemmeno di ottenere qualche riconoscimento dal momento che, lo sapeva, la vittoria non era stata solo merito suo. E anche se fosse stata, non gli interessava. Non gli importava più, non gli importava nemmeno di tutti quegli opuscoli racimolati fino ad allora posti sulla sua scrivania, per cercare un college dopo il diploma; avrebbe voluto restare lì, tra le coperte di camera sua, incapace di dormire ma sentendosi un po’ più al sicuro.
Il letto era caldo, lo cullava; era tutto ciò che poteva permettersi, quindi, doveva imparare ad abituarsi.
Quando il telefono vibrò insistentemente, come se non aspettasse altro che essere letto, si immaginò che fosse l’ennesimo sms di Mercedes o di qualche compagna di squadra che gli faceva le congratulazioni per la splendida vittoria. Oppure, era l’ultimo tentativo da parte loro di invitarlo a quel party a casa di chissà chi, per bere, festeggiare e essere felici. Non aveva nessuna voglia di essere felice.
Ma quello era un messaggio troppo strano per essere di Mercedes, e troppo innocuo per essere di Santana.
Scendi.
E Kurt non capiva.
Perchè il suo cellulare doveva essere rotto. O lui stava sognando. Oppure, il mondo lo stava prendendo in giro.
Sentì il telefono vibrare un’altra volta, stretto tra le sue mani.
Ti prego, scendi.
Non aspettò un secondo di più.
Non pensò di essere in pigiama, con un aspetto assolutamente vergognoso. Non pensò nemmeno al fatto che fosse mezzanotte passata e suo padre il mattino dopo lo avrebbe rimproverato per il chiasso fatto scendendo le scale, ricordandogli che lui aveva da alzarsi presto la mattina.
No. Tutto ciò a cui riusciva a pensare, adesso, era il sogno di rivedere finalmente ciò che la sua testa si sforzava di negare.
Ma quando comparve la figura di Blaine salire velocemente le tre scalette di casa sua, il suo cuore non fece altro che piangere, ed esultare. Perchè, in fondo, aveva ancora un po’ di timore: che ci faceva Blaine lì? E perchè era venuto da lui a quell’ora della notte?
Forse voleva parlargli. Forse voleva dirgli di farla finita.
Non appena riuscì ad aprire la porta di casa, nonostante il tremito e il respiro affannato, fu subito raggiunto da un paio di mani che si posizionarono sul suo viso, trascinandolo verso di sè e congiungendo finalmente le loro labbra in un bacio.
E quando riuscirono a staccarsi, Kurt sbattè un paio di volte le palpebre, senza fiato.
“Blaine...ma che...?”
Non fece in tempo a finire la frase, che il ragazzo lo baciò di nuovo, in modo intenso, appassionato.
Gli era mancato così tanto; le labbra di Kurt avevano ancora quel sapore inconfondibile, come di fresco, di libertà e perfezione.
“Blaine, Blaine aspetta.”
Kurt si  odiò per averlo detto. Perchè tutto ciò che voleva fare era baciarlo, abbracciarlo e non separarsi mai più da lui, per il resto della sua vita. Tuttavia, vedendo il ragazzo di fronte a sè sorridere raggiante e tremare per l’emozione, non riuscì asssolutamente a capire cosa gli fosse preso. Si era perso qualcosa? Perchè, insomma, non si vedevano da più di una settimana.
Così, tra un’esitazione e l’altra, con tono flebile, e la voce che si spezzava in gola, riuscì a chiederlo: “Che...che stai facendo?”
“Ti sto baciando”, rispose lui, semplice, e il suo sorriso si ampliò un po’ di più. Kurt si sentì le guance andare in fiamme mentre bisbigliava: “Questo...questo lo vedo. Ma perchè? Insomma, io sono stato un idiota, tu mi odiavi, e-”
Di nuovo, fu fermato da un altro bacio. Poteva quasi abituarsi, a quello. Ma durò pochissimi secondi, perchè Blaine si allontanò subito, posando delicatamente la fronte sulla sua; nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo, i loro respiri caldi si stavano fondendo in uno solo. E Kurt, lui, non riusciva ancora a capire se potesse sorridere oppure no, ma moriva dalla voglia di farlo. Anche perchè il suo sorriso era così bello, così rassicurante.
E prima di vedere lo sguardo attonito di Kurt sciogliersi, prima di riprendere a baciarlo, per altre, bellissime ore, Blaine prese con delicatezza le sue mani, facendosi un po’ più vicino.
“Perchè ti amo anche io.”








***

Angolo di Fra

Ehhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Ultimo capitolo. Ringrazio Lily per avermi sostenuta nel calvario e avermelo betato. E insomma...Già. Ma ehi, c'è l'epilogo! Ma non so quanto sarà lungo, insomma, è una cosina giusto così, per mettere dei punti a questa storia.
Ma lo sapete che mi sta prendendo un po'...come dire, la malinconia?
Quindi il discorso malinconico lo faccio ora, così all'epilogo lascio parlare voi :)


Come ben sapete, questa storia era nata con nessuna intenzione: voleva essere una cosa più comica che altro, quasi senza trama, fatta principalmente per me e per lo sfizio di farlo. Lo si può vedere da come ho impostato il tutto, da come ho approfondito poco gli altri personaggi: avrei potuto approfondire tutti quei personaggi che invece così facendo sono rimasti secondari. Avrei potuto scrivere un'altra decina di capitoli come minimo, sulla famiglia di Blaine, su Rachel e Kurt... lo so benissimo. Nonostante questo, questa storia mi sembra completa così. L'idea iniziale era di farvi conoscere questo mondo nerd, e sarò sincera, adesso sorriderò sempre sapendo che ad ogni vetrina di videogiochi, ad ogni dilemma matematico, qualcuno di voi penserà automaticamente alla mia storia e, perchè no, magari scapperà anche un sorriso.
Per questo sono sinceramente strabiliata dall'affetto che avete dimostrato per la fanfiction, per i miei Kurt e Blaine, e anche un po' per me, riempiendomi sempre di bellissime recensioni e messaggi su facebook e twitter. Io non mi sarei mai aspettata tutto questo. Forse perchè non ho mai creduto che Headshot sia una di quelle "grandi storie" per le quali attendi l'aggiornamento davanti al computer ricaricando la pagina ogni secondo. Nel senso, mi viene proprio da pensare "oh mio Dio qualcuno è impaziente per QUESTO capitolo!? Povero lui" ahahah!
A parte scherzi, mi sono sempre chiesta quale fosse il fattore che avesse scatenato tutto questo: quale fosse l'elemento che vi ha fatto dire "cavoli, questa storia mi piace un sacco", o insomma, non lo so, qualsiasi cosa vi abbia spinto a leggermi e ad entusiasmarvi così tanto.
Dopo 28 capitoli e cinque lunghi mesi di dialogo con voi, forse, ho capito: è il fatto di dire "ho avuto una giornata assurda, leggiamo il capitolo nuovo di Headshot così mi tiro un po' su", non è vero?
Per questo, se leggete in verticale i titoli di questa storia, potete leggere: "Kurt e Blaine grazie per i sorrisi". Perchè mi fanno sorridere sempre, quando li guardo nel telefilm. Perchè mi hanno fatta sorridere mentre scrivevo questa storia, e perchè voi avete sorriso insieme a me leggendola. Grazie a loro, alla fine, siamo stati meglio un po' tutti.
E per quanto mi riguarda, ringrazio anche voi. Credetemi, senza il vostro sostegno, avrei lasciato la storia incompleta moltissimi capitoli fa. Siete stati così gentili con me, e così pazienti, che non so esattamente come sdebitarmi. Spero che accettiate questa storia come pegno, ecco.
E adesso...beh. Vorrei ringraziarvi uno ad uno, ma penso che ritaglierò un angolino speciale per ognuno di voi, tramite twitter, facebook, recensioni e mp.
Se continuerò a scrivere? Sicuro. Devo un po' riprendermi dalla fine di Headshot, ma... appena possibile pubblico il primo capitolo della mia long Seblaine. Eggià.
E non preoccupatevi per una Klaine: ci sarà. Eccome se ci sarà.


E quindi, siamo giunti alla fine di questa storia. Io non aggiungo nient'altro perchè sono già fin troppo ridicola, dico solo che, se dovessi descrivere questa fanfiction con una parola sola, direi che è un limone. Sì, insomma, perchè è bruttina, ma almeno non fa cagare. Ahah! Che volete? Sono sempre io eh! Non mi smentisco mai nemmeno alla fine :)
Grazie ancora. Ci sentiamo per l'epilogo e sul web!

Fra
   
 
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