C’era
sempre stata una stortura
in lei. Come se qualcosa, mentre ancora lei veniva masticata, fatta a
pezzi e ri-costruita
nell’utero, e prima ancora che fosse rigurgitata nel mondo
fuori, fosse venuto
a mancare. Come le persone che nascono con il labbro leporino o con
quattro
dita dei piedi o monche. Ecco, a lei mancava il senso
dell’equilibrio. Non nel
senso che non riuscisse a camminare dritta. Il suo problema era non
riuscire a
capire quando era la strada a essere dritta. Nella sua intera vita,
pensava
Takeru, Hikari si era sempre mossa obliquamente al mondo. Ignorando i
limiti e
spaccando gli argini. Lei non camminava sulla terra, pensò,
la attraversava. Non
delicatamente come ci si sarebbe aspettato da lei, ma lacerando e
trascinando
via i residui della sua dolce, violenta e inconsapevole distruzione.
“E’
un
po’ triste non trovi?” Hikari gli aveva parlato con
un tono sbrigativo, mentre
lo fissava come se si aspettasse il suo totale e assoluto assenso a
ogni suo
dubbio o quesito, come se fosse ovvio che lui non potesse metterla in
discussione. Takeru inarcò un sopracciglio e si
alzò sui gomiti, la neve
silenziosa sotto di lui e i suoi biondissimi capelli, così
maledettamente non
giapponesi, a coprirgli le iridi ferine. Cercò di dare voce
ai pensieri ma il
freddo era tale che le sue corde vocali gli si negarono e dovette
accontentarsi
di boccheggiare pateticamente. Provò a guardarsi intorno per
tentare di
scorgere questo supposto e infinito mare di tristezza ma,
nell’abbacinante
paesaggio natalizio di Odaiba, con le luci multicolore che affogavano
gli
edifici e la folla di sfarzosi addobbi natalizi, aveva
difficoltà a trovare
qualcosa che dovesse suggerire l’idea di tristezza. Non
c’era nemmeno un
bambino in lacrime fuori dai negozi straripanti regali e, se anche ci
fosse
stato qualche piccione morto sull’asfalto, la folla di coppie
esibizioniste
impediva di vedere un solo centimetro di cemento. Ecco, forse quello
era
triste: il fatto che loro due, una “coppia”,
fossero seduti con il sedere a
congelare nella neve, nel tentativo di verificare la remota
possibilità
dell’esistenza della telepatia.
Hikari
sbuffò, stizzita. Scostò una ciocca castana dal
viso e, dopo aver affondato il
pugno guantato nelle neve, glielo mostrò, parlandogli come
se dovesse spiegare
le addizioni a un cane: “La neve è triste.
E’ sempre bianca. Non ti piacerebbe
vederla … blu?”. Takeru annuì,
meditabondo, osservando distrattamente le punte delle
scarpe nere. “Alla
fine, però, credo di
preferirla così com’è” Hikari
gli schiacciò la neve cristallizzata sulla
guancia, violentando l’epidermide calda e scappando via,
ridendo. Questo pose
fine alla questione.
C’era
una cosa di lei che lo
aveva sempre affascinato: il modo in cui i suoi occhi sembravano
passarti
attraverso, come se il tuo corpo non fosse più consistente
dell’aria, e allo
stesso tempo con un’intensità tale da vedere oltre
la tua stessa forma. Era
complicato, pensò. Puntò un dito sulla tempia e
cercò di fare chiarezza. Poi
sorrise, mesto. Tentare di afferrare Hikari, tenerla ferma per le
spalle,
concretizzarla, era come tentare di stringere la nebbia in un pugno.
Mancava
troppo
poco a Natale e, con un discreto terrore, si rese conto di non sapere
assolutamente cosa regalarle. La conosceva da … beh, da
quando aveva iniziato
ad avere importanza conoscere le cose, eppure se provava a immaginare
cosa
potesse consegnarle in mano, quale oggetto potesse tornarle utile, cosa
potesse
piacerle (O MIO DIO) la mente si svuotava completamente. Ecco, forse
era questo
il punto: Hikari non aveva bisogno di nulla, non desiderava nulla.
Daisuke
gli diede una pacca tanto forte sulle spalle che si piegò a
metà. Prima che
potesse insultarlo in uno dei cento modi che gli erano appena venuti in
mente,
lo vide sfrecciare via dalla strada mentre, con il ghigno che splendeva
sul suo
viso mulatto, gli augurava un buon Natale. La risata sommessa di Hikari
non lo
sorprese.
“Grazie
per la partecipazione” Mugolò.
Gli
arrivò un calcio ben assestato alla caviglia e per il dolore
iniziò a
saltellare su un piede.
“Che
diavolo …!”
“Partecipo
al dolore” Gli sorrise ammiccante.
Takeru
non riuscì a reprimere un sorriso e la prese per mano, con
un certa disinvoltura(cosa
che lo inorgoglì abbastanza).
“Uhm
…
così c’è qualcosa che … dico
così, giusto per esempio … tanto per dire
… c’è
qualcosa che … beh … uhm … desideri?
Al momento intendo. Per Natale. Che non
costi troppo.” Gli
veniva quasi da
ridere quando i suoi compagni lo elogiavano per i suoi modi pacati e
per il suo
autocontrollo, intatto anche nella più ostica delle
situazioni. Sarebbe bastato
mostrare loro una sessione di conversazione full immersion con Hikari,
e avrebbero
cambiato immediatamente idea, ne era abbastanza sicuro.
Hikari
gli sorrise come se conoscesse un segreto troppo divertente per non essere condiviso
ma con tutta l’aria
di una che lo avrebbe rivelato solo se lui stesso si fosse dimostrato
più
interessante.
“Uhm
…
forse sapere cosa ti ho regalato io potrebbe aiutarti.” I
capelli castani,
mossi dal vento, le coprivano gli occhi ma Takeru ebbe tutta
l’impressione che
stessero ridendo.
La guardò sospettoso: “Uhm … una
parrucca scura?”
Lo
guardò quasi impietosita e poi, con molta attenzione,
sciolse la stretta di
mano. Takeru trovò la separazione fastidiosa più
che dolorosa: come se fosse
sbagliato per le loro mani, che erano così perfette quando
s’intrecciavano, separarsi.
Era come essere fatti a pezzi. Dallo zaino lilla tirò fuori
un pacchetto
minuscolo, di forma rettangolare, un po’ anonimo e dal colore
indecifrabile.
Glielo porse guardandolo con estrema serietà, trattandolo
come qualcosa di
fragilissimo e prezioso, poi non gli riprese più la mano,
come se gli stesse
dicendo che quel pacco doveva essere tenuto stretto al petto, doveva
essere
protetto e meritasse la sua massima attenzione: molto più
delle loro mani così perfette.
Takeru iniziò a preoccuparsi sul serio.
C’era
una cosa che non poteva
negare a se stesso. Nell’inarrestabile avanzata di Hikari nel
mondo, in cui lei
si muoveva come una raffica di vento intensa ma troppo veloce, lui era
riuscito
ad accompagnarsi alla corrente. Non ne era stato inglobato come gli
altri, abbandonatisi
al suo tepore dolce e un po’ fastidioso, ma avanzava, a
dispetto di tutto, alla
stessa intensità. La strada gli si apriva naturalmente
davanti, come se la
terra non aspettasse altro che di essere calpestata da lui.
Inconsapevolmente e
naturalmente, arginava Hikari. E anche se la falcata, i gesti, e
perfino
l’andatura, erano straordinariamente opposti, loro due non
smettevano mai di
camminare l’uno al fianco dell’altro, come se
fossero nati per farlo.
Poi
c’erano i momenti come quelli, quelli in cui si rendeva conto
che la sua sicurezza
era solida come un castello di carte in mezzo ad un tifone, e che le
sue
riflessioni non erano più concrete dell’acqua. La
conosceva da quando le cose
avevano iniziato ad importare abbastanza per conoscerle, avrebbe saputo
definire con straordinaria accuratezza ogni incavo della sua mano e
ogni sua
più piccola imperfezione. Conoscere i suoi desideri, e
sapere che non
desiderava nulla, lo rendeva sicuro. Poi c’erano i momenti
come quello. Quello
in cui l’immensamente patetica verità delle sue
puerili convinzioni personali
gli si abbatteva in faccia e lo lasciava dolorante e umiliato. Il momento in cui capiva
che lui, in realtà,
non aveva mai capito niente.
I suoi
occhi innaturalmente azzurri scrutarono sotto le ciglia frenetiche
l’interno
della scatola. I polpastrelli si strinsero incerti attorno a quella
cosa verde
ed elastica. Non poteva essere. Conosceva Hikari da … va
bene, non era
importante. Da quanto erano “insieme”?
…
Non
è
che fosse proprio un problema. Succede, può succedere. Deve
succedere. Solo che
con Hikari non poteva succedere, perché Hikari non
desiderava niente.
...
Avvicinò
la piantina minuta al naso e la odorò diffidente.
E’
solo una piantina
Continuava
a ripeterselo per ricordarsi la stupidità delle sue
reazioni. Solo una
piantina.
Una
piantina non cambia nulla. Non significa nulla. Anche se è
con Hikari.
Perché
Hikari non desiderava nulla.
Sul
fondo della scatola c’era un piccolo foglietto lilla: non
ricordava se fosse
accuratamente piegato quando aveva aperto la scatola. Lo aveva letto
troppe
volte, e rigirato ancora di più fra le dita nervose, da aver
cancellato alcuni
kanji. Lo lesse di nuovo e la saliva gli formò un groppo in
gola.
E’
solo una piantina
E Hikari
non desidera nulla.
Accostò
il vischio al naso: aveva un odore meno pungente di quanto credesse. Lo
trovò
piacevole. Guardò i kanji con fare accusatorio.
Lì,
vergate in caratteri eleganti, c’erano pochissime semplici
parole, di per sé
prive di significato. Immaginò come Hikari stesse ridendo di
lui e della sua
ridicola idea della sua principesca fragilità.
“
Il vischio è
velenoso ”
Diceva
il foglietto.
Perché
quella non era una piantina. Non serviva a ornare la casa in vasi
finemente
decorati. Non era commestibile e, da che ne sapesse, non aveva un
particolare
uso farmacologico.
Il
vischio serviva a una cosa sola.
Deglutì
e si sentì davvero, davvero stupido e timido e impacciato.
Perché Hikari aveva un desiderio.
Nda: una roba allucinante che ho
scritto durante le vacanze natalizie (e la pubblico
adesso) sotto l'effetto allucinogeno delle luci colorate
dell'albero nel mio soggiorno e l'incubo dei maglioni della nonna.
Rendiamocene conto. Still, Roe Rory Hattori è stata comunque
capace di leggerla e premiarla. Un grazie infinite a lei e chi si
cimenterà nella stessa impresa. Un grazie ancora
più grande a chi vorrà mai commentarla,
aiutandomi a migliorare. Ah, abbiate pietà per i
microscopici caratteri che ho scoperto da poco che l'HTML è
un'altra delle cose che nella vita non capirò mai, come la
matematica.