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Autore: HikaRygaoKA    19/05/2012    6 recensioni
Quarto posto del digicontest indetto da Roe Rory Hattori
C’era sempre stata una stortura in lei. Come se qualcosa, mentre ancora lei veniva masticata, fatta a pezzi e ri-costruita nell’utero, e prima ancora che fosse rigurgitata nel mondo fuori, fosse venuto a mancare. Come le persone che nascono con il labbro leporino o con quattro dita dei piedi o monche. Ecco, a lei mancava il senso dell’equilibrio. Non nel senso che non riuscisse a camminare dritta. Il suo problema era non riuscire a capire quando era la strada a essere dritta. Nella sua intera vita, pensava Takeru, Hikari si era sempre mossa obliquamente al mondo. Ignorando i limiti e spaccando gli argini. Lei non camminava sulla terra, pensò, la attraversava. Non delicatamente come ci si sarebbe aspettato da lei, ma lacerando e trascinando via i residui della sua dolce, violenta e inconsapevole distruzione.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: TK/Kari
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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C’era sempre stata una stortura in lei. Come se qualcosa, mentre ancora lei veniva masticata, fatta a pezzi e ri-costruita nell’utero, e prima ancora che fosse rigurgitata nel mondo fuori, fosse venuto a mancare. Come le persone che nascono con il labbro leporino o con quattro dita dei piedi o monche. Ecco, a lei mancava il senso dell’equilibrio. Non nel senso che non riuscisse a camminare dritta. Il suo problema era non riuscire a capire quando era la strada a essere dritta. Nella sua intera vita, pensava Takeru, Hikari si era sempre mossa obliquamente al mondo. Ignorando i limiti e spaccando gli argini. Lei non camminava sulla terra, pensò, la attraversava. Non delicatamente come ci si sarebbe aspettato da lei, ma lacerando e trascinando via i residui della sua dolce, violenta e inconsapevole distruzione.

 

“E’ un po’ triste non trovi?” Hikari gli aveva parlato con un tono sbrigativo, mentre lo fissava come se si aspettasse il suo totale e assoluto assenso a ogni suo dubbio o quesito, come se fosse ovvio che lui non potesse metterla in discussione. Takeru inarcò un sopracciglio e si alzò sui gomiti, la neve silenziosa sotto di lui e i suoi biondissimi capelli, così maledettamente non giapponesi, a coprirgli le iridi ferine. Cercò di dare voce ai pensieri ma il freddo era tale che le sue corde vocali gli si negarono e dovette accontentarsi di boccheggiare pateticamente. Provò a guardarsi intorno per tentare di scorgere questo supposto e infinito mare di tristezza ma, nell’abbacinante paesaggio natalizio di Odaiba, con le luci multicolore che affogavano gli edifici e la folla di sfarzosi addobbi natalizi, aveva difficoltà a trovare qualcosa che dovesse suggerire l’idea di tristezza. Non c’era nemmeno un bambino in lacrime fuori dai negozi straripanti regali e, se anche ci fosse stato qualche piccione morto sull’asfalto, la folla di coppie esibizioniste impediva di vedere un solo centimetro di cemento. Ecco, forse quello era triste: il fatto che loro due, una “coppia”, fossero seduti con il sedere a congelare nella neve, nel tentativo di verificare la remota possibilità dell’esistenza della telepatia.

Hikari sbuffò, stizzita. Scostò una ciocca castana dal viso e, dopo aver affondato il pugno guantato nelle neve, glielo mostrò, parlandogli come se dovesse spiegare le addizioni a un cane: “La neve è triste. E’ sempre bianca. Non ti piacerebbe vederla … blu?”. Takeru annuì, meditabondo, osservando distrattamente le punte delle scarpe nere.  “Alla fine, però, credo di preferirla così com’è” Hikari gli schiacciò la neve cristallizzata sulla guancia, violentando l’epidermide calda e scappando via, ridendo. Questo pose fine alla questione.

 

C’era una cosa di lei che lo aveva sempre affascinato: il modo in cui i suoi occhi sembravano passarti attraverso, come se il tuo corpo non fosse più consistente dell’aria, e allo stesso tempo con un’intensità tale da vedere oltre la tua stessa forma. Era complicato, pensò. Puntò un dito sulla tempia e cercò di fare chiarezza. Poi sorrise, mesto. Tentare di afferrare Hikari, tenerla ferma per le spalle, concretizzarla, era come tentare di stringere la nebbia in un pugno.

 

Mancava troppo poco a Natale e, con un discreto terrore, si rese conto di non sapere assolutamente cosa regalarle. La conosceva da … beh, da quando aveva iniziato ad avere importanza conoscere le cose, eppure se provava a immaginare cosa potesse consegnarle in mano, quale oggetto potesse tornarle utile, cosa potesse piacerle (O MIO DIO) la mente si svuotava completamente. Ecco, forse era questo il punto: Hikari non aveva bisogno di nulla, non desiderava nulla.

 

Daisuke gli diede una pacca tanto forte sulle spalle che si piegò a metà. Prima che potesse insultarlo in uno dei cento modi che gli erano appena venuti in mente, lo vide sfrecciare via dalla strada mentre, con il ghigno che splendeva sul suo viso mulatto, gli augurava un buon Natale. La risata sommessa di Hikari non lo sorprese.

“Grazie per la partecipazione” Mugolò.

Gli arrivò un calcio ben assestato alla caviglia e per il dolore iniziò a saltellare su un piede.

“Che diavolo …!”

“Partecipo al dolore” Gli sorrise ammiccante.

Takeru non riuscì a reprimere un sorriso e la prese per mano, con un certa disinvoltura(cosa che lo inorgoglì abbastanza).

“Uhm … così c’è qualcosa che … dico così, giusto per esempio … tanto per dire … c’è qualcosa che … beh … uhm … desideri? Al momento intendo. Per Natale. Che non costi troppo.”  Gli veniva quasi da ridere quando i suoi compagni lo elogiavano per i suoi modi pacati e per il suo autocontrollo, intatto anche nella più ostica delle situazioni. Sarebbe bastato mostrare loro una sessione di conversazione full immersion con Hikari, e avrebbero cambiato immediatamente idea, ne era abbastanza sicuro.

Hikari gli sorrise come se conoscesse un segreto troppo divertente  per non essere condiviso ma con tutta l’aria di una che lo avrebbe rivelato solo se lui stesso si fosse dimostrato più interessante.

“Uhm … forse sapere cosa ti ho regalato io potrebbe aiutarti.” I capelli castani, mossi dal vento, le coprivano gli occhi ma Takeru ebbe tutta l’impressione che stessero ridendo.
La guardò sospettoso: “Uhm … una parrucca scura?”

Lo guardò quasi impietosita e poi, con molta attenzione, sciolse la stretta di mano. Takeru trovò la separazione fastidiosa più che dolorosa: come se fosse sbagliato per le loro mani, che erano così perfette quando s’intrecciavano, separarsi. Era come essere fatti a pezzi. Dallo zaino lilla tirò fuori un pacchetto minuscolo, di forma rettangolare, un po’ anonimo e dal colore indecifrabile. Glielo porse guardandolo con estrema serietà, trattandolo come qualcosa di fragilissimo e prezioso, poi non gli riprese più la mano, come se gli stesse dicendo che quel pacco doveva essere tenuto stretto al petto, doveva essere protetto e meritasse la sua massima attenzione: molto più delle loro mani così perfette. Takeru iniziò a preoccuparsi sul serio.

 

C’era una cosa che non poteva negare a se stesso. Nell’inarrestabile avanzata di Hikari nel mondo, in cui lei si muoveva come una raffica di vento intensa ma troppo veloce, lui era riuscito ad accompagnarsi alla corrente. Non ne era stato inglobato come gli altri, abbandonatisi al suo tepore dolce e un po’ fastidioso, ma avanzava, a dispetto di tutto, alla stessa intensità. La strada gli si apriva naturalmente davanti, come se la terra non aspettasse altro che di essere calpestata da lui. Inconsapevolmente e naturalmente, arginava Hikari. E anche se la falcata, i gesti, e perfino l’andatura, erano straordinariamente opposti, loro due non smettevano mai di camminare l’uno al fianco dell’altro, come se fossero nati per farlo.

 

Poi c’erano i momenti come quelli, quelli in cui si rendeva conto che la sua sicurezza era solida come un castello di carte in mezzo ad un tifone, e che le sue riflessioni non erano più concrete dell’acqua. La conosceva da quando le cose avevano iniziato ad importare abbastanza per conoscerle, avrebbe saputo definire con straordinaria accuratezza ogni incavo della sua mano e ogni sua più piccola imperfezione. Conoscere i suoi desideri, e sapere che non desiderava nulla, lo rendeva sicuro. Poi c’erano i momenti come quello. Quello in cui l’immensamente patetica verità delle sue puerili convinzioni personali gli si abbatteva in faccia e lo lasciava dolorante e umiliato.  Il momento in cui capiva che lui, in realtà, non aveva mai capito niente.

I suoi occhi innaturalmente azzurri scrutarono sotto le ciglia frenetiche l’interno della scatola. I polpastrelli si strinsero incerti attorno a quella cosa verde ed elastica. Non poteva essere. Conosceva Hikari da … va bene, non era importante. Da quanto erano “insieme”?

 

Non è che fosse proprio un problema. Succede, può succedere. Deve succedere. Solo che con Hikari non poteva succedere, perché Hikari non desiderava niente.

...

Avvicinò la piantina minuta al naso e la odorò diffidente.

E’ solo una piantina

Continuava a ripeterselo per ricordarsi la stupidità delle sue reazioni. Solo una piantina.

Una piantina non cambia nulla. Non significa nulla. Anche se è con Hikari.

Perché Hikari non desiderava nulla.

Sul fondo della scatola c’era un piccolo foglietto lilla: non ricordava se fosse accuratamente piegato quando aveva aperto la scatola. Lo aveva letto troppe volte, e rigirato ancora di più fra le dita nervose, da aver cancellato alcuni kanji. Lo lesse di nuovo e la saliva gli formò un groppo in gola. 

E’ solo una piantina

E Hikari non desidera nulla.

Accostò il vischio al naso: aveva un odore meno pungente di quanto credesse. Lo trovò piacevole. Guardò i kanji con fare accusatorio.

Lì, vergate in caratteri eleganti, c’erano pochissime semplici parole, di per sé prive di significato. Immaginò come Hikari stesse ridendo di lui e della sua ridicola idea della sua principesca fragilità.

“ Il vischio è velenoso ”

Diceva il foglietto.

Perché quella non era una piantina. Non serviva a ornare la casa in vasi finemente decorati. Non era commestibile e, da che ne sapesse, non aveva un particolare uso farmacologico.

Il vischio serviva a una cosa sola.

Deglutì e si sentì davvero, davvero stupido e timido e impacciato.

Perché Hikari aveva un desiderio.

Nda: una roba allucinante che ho scritto durante le vacanze natalizie (e la pubblico adesso) sotto l'effetto allucinogeno delle luci colorate dell'albero nel mio soggiorno e l'incubo dei maglioni della nonna. Rendiamocene conto. Still, Roe Rory Hattori è stata comunque capace di leggerla e premiarla. Un grazie infinite a lei e chi si cimenterà nella stessa impresa.  Un grazie ancora più grande a chi vorrà mai commentarla, aiutandomi a migliorare. Ah, abbiate pietà per i microscopici caratteri che ho scoperto da poco che l'HTML è un'altra delle cose che nella vita non capirò mai, come la matematica.

  
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