“I've
been dreaming for so long,
To
find a meaning
To
understand.
The
secret of life,
Why
am I here
To
try again?”
[…]
“Will
I always,
Will
you always
See
the truth
When
it stares you in the face?
Will
I ever
Will
I never free myself
By
breaking these chains? “
( Jillian
– Within Temptation )
La monotonia di quel luogo cominciava ad annoiarla
benché, ancora bambina, riuscisse a
trovare divertente persino il piccolo esserino che zampettava allegro
tra le pareti d’oro della stanza sigillata.
Eppure l’aria viziata era diventata pian piano
insopportabile, e se chiudeva gli occhi, dietro le pupille di luce
riusciva a vedere i ricordi sbiaditi di un mondo verde, colmo di fiori,
cieli azzurri e paesaggi incontaminati.
La paura dell’ignoto leniva però la sua
curiosità di bambina, perchè nascere da sola, nel
vuoto e nel buio avrebbe spaventato chiunque, persino gli uomini che
sentiva parlare fuori dalla sua stanza ogni giorno.
Fu proprio nell’udire le voci di quelle creature allontanarsi
che la piccola abbozzò piccoli passi, cadendo gattoni quando
l’instabilità delle sue gambette non la resse
abbastanza.
Emise un piccolo vagito frustrato, osservando malamente i propri arti
inferiori che non si comportavano come avrebbero dovuto, anche se la
naturalezza di quella caduta era attribuibile ad un semplice dato di
fatto.
Nessuno le aveva insegnato a camminare.
Nessuno le aveva spiegato a cosa servissero le braccia e le
gambe .
Nessuno le aveva spiegato cos’era.
Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre per richiamare alla mente i
dipinti abbozzati di eventi passati che non ricordava, non sapeva di
avere nella propria testa, e quando la visione di un uomo che correva
venne inquadrata dal suo cervello, la bambina tornò in piedi
con un certo sforzo, ondeggiando un po’ ma riuscendo a stare
ritta in piedi.
Gli occhi misero a fuoco nel buio il riquadro più chiaro che
componeva la stanza,e quando vi corse in contro, la bambina non vi
sbattè come avrebbe invece dovuto.
Perché l’impalpabilità del suo essere
la rendeva fuggevole come un soffio d’aria fresca, e quando
il lungo corridoio deserto accolse i suoi piedini nudi e gelati,
nessuno sembrò far caso a lei.
Lo strano odore sgradevole della prigione era scomparso, sostituito da
una frescura che solleticava le ciocche che si inanellavano sul petto
della bambina, curiosa e attratta dal colore sgargiante delle pareti
d’oro e argento.
La piccola non sapeva come si chiamassero quei grandi pilastri che
sorreggevano lo strano soffitto, ne conosceva i nomi abbozzati dalla
sua mente, ma non ne comprendeva il significato, il perché, né
capiva perché quel luogo continuasse ad essere
così buio, freddo e sgradevole.
Lei aveva visto prati verdi, fiori e acque cristalline, ma la
solitudine di quella gabbia dorata sembrava diramarsi
all’infinito, quasi non vi fosse mai una fine a quel lugubre
senso di abbandono.
Si era liberata da un luogo stantio e dall’odore di chiuso
per ritrovarsi in una prigione un po’ meno stretta,
soffocante, ma ugualmente oppressiva . Nel girovagare con lo sguardo
poi, gli occhi le caddero sull’unico punto di luce
che si riusciva ad intravedere in fondo a quella lingua
d’ambra che si lanciava davanti a lei, ma quando la lanterna
mostrò l’ombra ondeggiante di una figura enorme e
grottesca, la bambina si sentì assalire da una
strana sensazione.
Un bizzarro senso di smarrimento che la faceva sudare freddo e perdere
colore al viso mano a mano che quella figura avanzava verso di lei.
In uno slancio di quello che la sua mente catalogò
come “paura" si
diresse a passo svelto verso una parete, gettandovisi dentro quando una
voce d’uomo la portò a piagnucolare per lo
spavento.
Attraversò porte, caracollò per una lunga
scalinata a chiocciola che discendeva come un serpente di pietra fin
alle fondamenta delle prigioni, e quando, con un ultimo sforzo, si
gettò all’interno di una stanza buia ma
separata all’esterno da lunghe sbarre baluginanti, il buio la
inghiottì,
di
nuovo .
Lì faceva più freddo che
lassù , dove era abituata a dondolarsi in attesa
che qualcosa accadesse.
E l’unica luce presente era generata da quelle
strane aste che la bambina osservò dall’angolo
della stanza con una certa diffidenza.
Perché non sapeva cos’erano.
Non conosceva la loro derivazione, la loro causa o l’effetto,
come la maggior parte delle cose che la circondavano.
Era ignorante sulla funzionalità dei suoi stessi arti, sul
perché udisse un sonoro tum-tum echeggiarle
nel petto.
E la paura era stata la prima emozione che l’aveva fatta
sentire strana, accerchiata, braccata.
Gattonò sofficemente per qualche metro, storcendo la bocca
rossa nel sentire sotto il palmo della mano un tessuto ruvido, ma non
come, secondo i suoi ricordi, sarebbe dovuto essere il pavimento di una
stanza.
Con le piccole dita tastò il terreno, riuscendo con un certo
stupore a stringere nella manina il pavimento, e quando
sentì la terra tremare sotto i suoi
piedi alzò d’istinto il viso, incrociando
nel buio dell’angolo due punti luminosi, fluorescenti come le
sbarre, ma di un azzurro ghiaccio che faceva “paura”.
La curiosità riuscì per un momento a smorzare la
sensazione di panico, ma quando quei punti luminosi si strinsero in
sottili linee di vento freddo, la bambina lanciò un piccolo
urlo, rintanandosi nell’angolo opposto e coprendosi il viso
con le manine tremanti.
Divenne buio pesto, perché le sbarre si erano spente come
candele, e l’unica fonte di luce continuavano ad essere quei
punti azzurri che la piccola fissava tra le dita gelate.
Erano tornati alla loro forma normale, tondi e un po’
allungati sui lati, e sebbene le aste avessero perso il loro colore
accecante, la piccola si sorprese di notare qualcos’altro
oltre ai puntini luminosi.
Vide due braccia conserte, catturate da uno strano oggetto che sembrava
fargli male ai polsi legati.
Scorse anche un paio di gambe come le sue, anche se un po’
più lunghe, abbandonate sul pavimento morbido che qualcosa
nella sua testa catalogò come“mantello”.
E se guardava un po’ più sù, riusciva
persino a scorgere una testa.
Non sapeva come si chiamassero le altre parti del viso, ma tastando il
proprio capì che lui era come lei, anche se una strana“cosa" gli
copriva la bocca, nascondendo parte del “naso
?" ,
non ricordava bene come si chiamasse in realtà.
Eppure riusciva a vederlo, e presto scoprì, con un certo
stupore, che era lei ad
essere diventata luminosa come le sbarre, ed era sempre lei ad
illuminare la creatura.
Battè le manine tra di loro, per vedere come funzionasse
quello strano alone colorato che la circondava, e quando al contatto
delle sue “dita
“ uno
strano sfrigolio generò piccoli bagliori chiari
pigolò una risata deliziata.
Ci mise un po’ a stancarsi di quel nuovo gioco, ma lo sguardo
di quella creatura fisso su di lei la portò nuovamente a
guardarlo con una punta di curiosità.
Era molto più grande e alto visto come occupava la maggior
parte dell’angolo, mentre lei a stento ne ricopriva
metà, ma non sembrava particolarmente interessato a lei,
perché chiuse i punti luminosi e piegò il mento
sul petto, indifferente.
Qualcosa si agitò nel suo petto, una sensazione di fastidio
che la portò ad alzarsi con le manine chiuse in pugnetti, ma
quando una voce bassa e calda si intrufolò tra di loro, la
bambina smise di irradiare luce e tornò ad
osservare le sbarre nuovamente riaccesesi.
La voce tornò ad echeggiare tra le pareti, ma ancor prima
che la creatura potesse svoltare l’angolo lei era
già scappata via, intimorita e spaventata, oltrepassando
nuovamente le pareti per tornare al sicuro nella sua prigione buia.
Perché lì nessuno parlava, era sola, e
poteva di nuovo sentirsi al sicuro.
Tornò a battere le manine tra di loro, e quando nuovamente
quella luce colorata tornò ad avvolgerla la
bambina sorrise tra sé e sé, lanciando occhiate
curiose alla parete.
Perché aveva imparato cos’era una bocca, un naso e
delle gambe.
Aveva imparato a correre e ad “accendersi”, ma
soprattutto, aveva imparato la sua prima parola.
Quella che la voce bassa e calda aveva lamentato con una punta di
rammarico.
“Loki”.
°°°
L’”ostinazione” e
l’ ”audacia” furono
rispettivamente la seconda e la terza sensazione che lei
imparò.
Ostinata nel tornare, ogni giorno, a far visita alla creatura dai punti
luminosi, audace nell’affrontare i pericoli dei corridoi e
delle creature parlanti che girovagavano per le prigioni.
L’abitudine di accovacciarsi nell’angolo e fissare
l’essere con la strana “cosa” in
viso l’aveva portata ad abbandonare con sempre più
frequenza la sua stanza per saggiare altre
sensazioni che generavano altri tum-tum nel
suo petto.
Trovava divertente il modo in cui quel suono tornava a ripetersi
più velocemente ogni qual volta osservava la creatura, quasi
fosse“emozionata” nel
rivedere quello che qualche notte fa il suo cervello aveva
chiamato“
amico”.
“Amico”.
Quella parola l’aveva tenuta sveglia notti intere, aveva
occupato i suoi pensieri e incuriosito la sua mente sempre
affamata di nuove risposte, di nuovi quesiti.
Aveva imparato due parole nuove, e tutto grazie alla creatura.
Qualche volta si metteva in un cantuccio e alzava due dita per
ripeterle e memorizzarle, affinchè non dimenticasse quanto
imparato.
E ogni qual volta la sua bocca si lasciava sfuggire un “Loki
amico”, la
strana creatura la guardava con una certa fissità prima di
tornare a distogliere lo sguardo verso l’esterno della
prigione.
Quel giorno il suo “amico” sembrava
aver perso anche la voglia di starla a guardare, e continuava a
rimanere con le“palpebre”
chiuse.
Anche a lei era capitato di chiudere gli occhi, ma solo
perché aveva paura di quello che la circondava, per nessun
altro motivo.
E il pensiero che la creatura potesse avere paura come lei la fece
sentire strana, “triste“ .
Si allungò di poco, sfiorando con le piccole dita la fine del “mantello”,
attenta a non “
spaventarlo”, perché
neanche a lei piaceva avere paura, non le piaceva per niente.
Il tum
– tum nel
suo petto era sgradevole in quel caso, e non voleva che il suo amico
patisse lo stesso.
Perciò gli gattonò accanto con cautela,
osservando con sempre più stupore le differenze tra i loro
corpi.
La creatura aveva braccia lunghe lunghe, e aveva anche “qualcosa” di
nero a sfiorargli il viso.
Tornò seduta sui talloni, allungando una mano
verso ciò che lei aveva sulla testa, e quando
prese tra le dita una ciocca rosa chiaro, la sua mente le venne in
soccorso ancora una volta.
“Capelli” .
Sorrise sofficemente nel bisbigliare quella nuova parola, guardando i
suoi “capelli” con
una certa emozione.
Con delicatezza afferrò anche una ciocca dei “capelli
dell’amico Loki”, accostandola
alla sua e notando la differenze di tonalità.
La creatura era tutta scura, buia come la sua prigione, “nera” come
specificò la sua mente, ma lei aveva cominciato ad
apprezzare il nero e il buio, perché le ricordava lui, e
la faceva sentire al sicuro, protetta.
Tirò un po’ i suoi capelli, sbilanciandosi un poco
per essere in grado di afferrare anche quelli della creatura, ma ancor
prima di potergli sfiorare la guancia per raggiungere
l’ultima ciocca, i punti luminosi tornarono a spalancarsi, ad
accecarla con il freddo di quel colore che prima le aveva fatto
paura e che ora la faceva sbiancare per la sorpresa.
“Qualcosa” la
acciuffò prima che la bambina potesse fuggire via, lo strano
oggetto che costringeva le braccia di Loki a stare conserte e che ora
le stritolava la schiena in una morsa dolorosa.
La sensazione di paura che la assalì la
portò a battere i pugnetti sul petto di lui con
forza, nella speranza di non sentire più quella cosa fredda
che le gelava la schiena.
Ma le braccia di Loki erano ferme, forti, e
quando alzò il viso per chiedere scusa, gli occhi
chiari di lui la immobilizzarono, portando via la sua voce e la paura.
Perché non sembrava cattivo come le immagini sbiadite che
urlavano nei suoi incubi.
Non la guardava con rabbia, ma si limitava semplicemente a fissarla,
indifferente, ma con quella luce così “triste” da
causare un nuovo ritmo del suo tum-tum.
Un ritmo che però non faceva male, ma che la fece sorridere
e la portò ad allungare una manina sulla guancia fredda del
suo amico.
La “cosa”
che gli celava la bocca sembrava farlo soffrire, e sfiorò
anche quella, grattando con i polpastrelli la pelle sensibile sotto
l’occhio, il tentativo blando e goffo di una bambina che non
sapeva nulla di ciò che la circondava ma che, nonostante
tutto, aveva ancora voglia di imparare, di confortare.
Era freddo, ma non come il freddo pungente e doloroso della prigione.
Il suo era un freddo incredibilmente dolce, morbido come la spalla
contro la quale si reggeva con una manina per non cadere.
Neanche le sue braccia attorno alla sua schiena le facevano male,
sembravano solo reggerla, affinchè non cadesse,
affinchè non si ferisse .
Lo cinse con le sue, di braccia, accucciandosi sul suo petto con un
pigolio soddisfatto che soffocò contro il tessuto ruvido del
mantello.
E quando, dopo un attimo di incertezza e rigidità, lo
sentì sistemarsi meglio contro la parete, poggiando il mento
appuntito sulla sua testa, un fiotto di “felicità”
le incendiò il viso.
Si addormentò contro di lui, fiduciosa, raggomitolata
dolcemente sul petto che sentiva alzarsi e abbassarsi lentamente sotto
le sue dita, che sentiva “respirare”.
Dopo quella sera non fece più ritorno nella sua prigione.
Non provò neanche ad uscire dalle sbarre, si
limitò a trascorrere le sue giornate ad imparare nuove cose,
a fissare il suoamico Loki e
ad osservare le differenze tra i loro corpi.
Ed imparò altre due parole, la terza e la quarta, le
più dolci, quelle che la faceva sentire felice.
“Calore” e “abbraccio”.
°°°
“Cambiamento” fu
la quinta parola che fu costretta ad imparare, e la prima che
imparò ad “odiare” .
Non perché non le piacesse il significato, ma
perché, semplicemente, la sua mente aveva catalogato la
nuova lunghezza dei suoi arti con quell’unica parola, e
quello non le piaceva.
Aveva odiato fin da subito quel nuovo termine, e
l’ avrebbe voluto dimenticare, nascondere come le sue braccia
e le sue gambe.
Perché era diventata troppo “lunga” per
rientrare nel piccolo spazio ricavato tra le braccia di Loki, troppo "pesante"per
dondolarsi sulle sue gambe, troppo "sottile" per
riuscire a coprirlo come una coperta.
E lei odiava tutto
quello.
Odiava sbattere
contro il soffitto, cadere ogni qual volta le sue nuove gambe, non
avendo ancora imparato che serviva un altro po’ di
forza per farla stare in piedi, cedevano.
Ma soprattutto, odiava essere
diventata grande quasi quanto Loki.
Lui però non sembrava esserne sorpreso, né
spaventato.
La fissava come sempre, con la solita scintilla di finto disinteresse
che col tempo aveva imparato ad “amare” ,
ed era proprio per quella parola che lei non apprezzava i suoi
“cambiamenti” .
Non poter più stargli accanto come prima la irritava, la
rendeva scostante e furiosa, una sensazione che, al pari della
felicità, le imporporava le guance e le incendiava il petto.
Ma faceva anche male, e a lei il dolore non piaceva, come la paura.
Aveva imparato anche quello però.
Distinguere cosa le piaceva e non, e
Loki rientrava nella prima categoria.
Si lasciò cadere con uno sbuffo frustato poco distante
dall’amico, troppo concentrata ad osservare la sua mano
notevolmente cresciuta per far caso al rumore fuori dalla prigione.
Ma quando quella
voce tornò
a chiamare la creatura a lei di fronte, la paura
tornò, feroce, a divorarle il petto.
Stava giusto per nascondersi dietro di lui quando si accorse,
con una punta di nervosismo, che chiunque avrebbe potuta notare i suoi
capelli d’arcobaleno, o le sue gambe tanto lunghe anche se si
fosse accucciata dietro di lui, e il terrore la ghermì.
Gettò un' occhiata carica di terrore all’angolo
del corridoio, sentendo le gambe tremare per la paura quando qualcosa
la tirò giù con forza, e il buio la
avviluppò come una calda coperta.
La sorpresa lasciò spazio al viscido senso di panico che la
fece raggomitolare sotto il mantello con il quale Loki
l’aveva coperta, attenta a non fare troppo rumore.
Perché era schiacciata contro Loki, nascosta dal suo
mantello, ma un singolo movimento avrebbe potuto tradire
entrambi, e la sola possibilità di essere scoperta da quelle
creature parlanti la immobilizzò.
- Quando la smetterai di fissarmi a quel modo fratello? Per quanto
ancora intendi odiarmi? – soffiò amara la voce che
tempo addietro le aveva consentito di imparare la sua prima parola.
Divenne curiosa, improvvisamente, perché era la prima volta
che sentiva qualcuno parlare, e il modo in cui quel suono vibrava
nell’aria, nelle sue orecchie, la sorprese
piacevolmente.
- Tutto il tempo che sarà necessario – fu la secca
risposta di una voce più fredda, appuntita e tagliente.
Il timbro gelido che sentì vibrare nel petto sul quale
poggiava l’orecchio.
A quel punto non potè impedire a se stessa di sgranare gli
occhi e far scattare, in un gesto nervoso, il proprio braccio verso
l’alto.
Le braccia di Loki però furono più veloci di lei.
Con un movimento alquanto doloroso la cinse con le proprie manette,
bloccandole ogni movimento e costringendola a ricercare nuovo spazio
tra le sue braccia, per non destare troppi sospetti.
Ma non era la paura di essere scoperta a ghiacciarle il respiro,
bensì una nuova sensazione che non aveva avuto ancora la
possibilità di sperimentare, una sensazione che
avrebbe preferito non conoscere.
Sentire gli occhi pungere non le piaceva.
Avere il respiro ansante e la gola secca non le piaceva.
La “delusione” non
le piaceva.
Perché Loki sapeva parlare, ma non aveva mai sentito il
bisogno di farlo con lei, lei che voleva imparare a farlo, lei che
voleva conoscere nuove cose, ma soprattutto , volava sapere
più cose su di lui, di
lui.
- Hai avuto molto tempo per pensare alle tue malefatte. Non sei ancora
riuscito a capire che il tuo desiderio di vendetta non
porterà mai a nulla di buono?
Lo sentì contrarsi sotto di sé, “irrigidirsi” le
consigliò la sua mente prima che Loki tornasse a rilassarsi
sotto le sue dita.
- Non è il buono che ricerco, fratello, ma il potere, solo
questo.
- Vedo che il fatto di aver perso il Tesseract e la battaglia non ti
abbiamo scalfito minimamente.
Qualcosa nella sua testa prese ad urlare, forte, sempre più
forte, tanto da costringerla a rilasciare un gemito che Loki fu lesto a
soffocare contro il proprio petto, schiacciandola con le manette.
Un lungo silenzio seguì le sue parole, e quando il rumore di
passi che si allontanavano portò l’uomo
ad allentare la presa, lei fu abbastanza veloce da trascinarsi via e
tornare ritta, con il viso rivolto alla parete.
Non si voltò, non ne ebbe la forza, si limitò
solo a gettarsi contro il muro e sparirvi dentro, confusa da quel
vortice di immagini che alla frase della creatura parlante si era
materializzato nella sua mente.
Quando fu finalmente al riparo, nella sua prigione, diede un piccolo
colpetto alle mani , osservando l’alone di luce per
un breve attimo, per “riscaldarsi”
.
Perché quel freddo non le piaceva, non la faceva sentire al
sicuro, ma le faceva paura, come
la prima volta.
Aspettò qualche altro attimo prima di far ripiombare la
stanza nelle tenebre, osservando con occhi lucidi l’esserino
zampettare per le pareti della prigione.
Ma quella volta non lo trovò divertente, non vi
riuscì.
E chiuse gli occhi, perché aveva paura, e perché
voleva solo tornare a sentire il vuoto, il
nulla,
e non quella voce che avrebbe potuto parlarle, ma che non lo aveva
fatto .
Si addormentò per la prima volta senza sapere come
avesse fatto, incurante dell’ombra al di fuori della
porta e di quello sguardo azzurro, indurito dal
presentimento, che aveva visto quell’unico sprazzo di luce
blu saettare in una stanza che, secondo le regole, sarebbe dovuta
essere inghiottita dal buio.
Sempre .
Continua…
Ringrazio tutti per coloro che hanno letto. L’ispirazione
è venuta all’improvviso per questo capitolo, e
spero sia venuto bene, e che la storia non stia prendendo una piega
sbagliata.
- Anastasiya
Rajikova :
Innanzitutto, amo il tuo nick, davvero. Ti ringrazio per il
commento e per le tue belle parole, ero sicura che nessuno lo
avrebbe fatto,ad essere sinceri. Spero che questo capitolo non abbia
deluso le tue aspettative. Un saluto caloroso!
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes.