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Autore: Mir al Mare    21/05/2012    2 recensioni
Lo sentivo ancora, l’odore del cocco. . Amavo sprofondare nei suoi capelli dorati. Amavo lei ed il suo shampoo al cocco. [...] Fu un giorno che ebbi la risposta: per lei. Dovevo trovarla! Lei era lì, da qualche parte. Dovevo solo andar la a cercare. Sono sicuro che non mi aveva dimenticato.
Storia di un'amore spezzato sulle ali del nascere...Profumo di CoCCo.
Genere: Malinconico, Poesia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La morte smette di fare paura,
quello che comincia a far paura è la speranza
perchè non è reale. (Grey's Anatomy)

 

Ciao a tutti,
Spero che questa storia vi piaccia, sarà molto breve:
-1° CAPITOLO è descritto dal punto di vista di "Lui"
-2° CAPITOLO è descritto dal punto di vista di "Lei"
Mi auguro che la storia vi piaccia e che vi colpisca...
Vi invito anche a recensire, belle o brutte che siano!!
Se vi piace il mio modo di scrivere potreste leggere anche l'altra mia storia: "Il Libro del Destino"
Grazie e BUONA LETTURA


Lo sentivo ancora, l’odore del cocco. Lei se lo trascinava a presso come un’amica. Un’amica profumata. Non ricordo un singolo giorno con lei senza quel dolce aroma. Amavo sprofondare nei suoi capelli dorati. Amavo lei ed il suo shampoo al cocco. Tutto di lei mi faceva impazzire. Ricordo quel giorno benissimo: io, lei, il verde…
«Dove corri…?».

Lei correva. I capelli al vento. E la scia di cocco che si infiltrava nei miei polmoni. Quanto era bella… bella da farmi tremare le ginocchia ad ogni suo sguardo. Un angelo, ecco cos’era: un angelo. E lei correva, in preda alla gioia.
«Sbrigati, o ci ruberanno il posto!».
Quel braccio del lago, quello era il nostro posto speciale. Il nostro nido d’amore. Era lì che c’eravamo conosciuti, era proprio su quella riva che una bella ragazza aveva incrociato il mio sguardo e mi aveva stregato. Non era cambiata! Era sempre la solita Meg. Bella, allegra, divertente, romantica…la mia Meg. Quel giorno il nostro posticino appartato in riva al lago era occupato. Troppo tardi! Il mio angioletto si rabbuiò un istante. E rimase immobile a fissare il lago. Le onde luccicavano sotto l’abbaglio di un Sole primaverile. Le anatre sguazzavano indisturbate dai passanti e da tutto quello che le circondava, il lago era loro; e questo valeva anche per noi: quel posticino era nostro, lo era sempre stato.
La raggiunsi e le cinsi la vita con un braccio, l’altro che teneva in mano il cesto del picnik.
«Non ti preoccupare» la rassicurai «ho un’idea».
Le presi la mano e la portai ai piedi di un grosso albero nei paraggi:
«Sali!»
Lei mi guardò stranita, ma le tornò subito il buon’umore una volta seduta là in cima. Era alto, tanto alto. Si poteva ammirare tutto il lago da lassù. E lei lo ammirava, in tutto il suo splendore. La boccuccia socchiusa, gli occhioni azzurri sbarrati, il viso rilassato e in pace… Eravamo padroni del mondo. Nessuno ci vedeva, nessuno ci udiva. Io, lei, l’albero. Il picnik più speciale, con la mia persona speciale. La persona con cui volevo passare tutto il resto della mia vita, la persona con cui avrei avuto tanti figli, la persona con cui sarei invecchiato: la mia persona. Io e lei, per sempre.
Ed era quello che volevo fare. Quel giorno era perfetto. Io e lei per sempre, come nelle favole.
Aspettai il tramonto. Lo aspettai impaziente. Le farfalle nello stomaco, le mani sudate, la speranza di un “sì”. E glie lo chiesi, su quell’albero.
«Vuoi sposarmi?».

Mi svegliai. Con me non c’era quell’odore familiare, non c’era l’aroma di cocco nell’aria. Dov’era? Io, dov’ero? Fissavo il soffitto, un soffitto bianco. Un soffitto triste. Il bianco era triste, tutto in quel soffitto metteva malinconia. Che senso aveva un soffitto bianco?! Meg amava i colori, Meg amava la primavera, Meg non avrebbe mai scelto un soffitto bianco. Dov’ero? Dove mi trovavo? Mi sentivo tutto indolenzito, come se avessi i muscoli di pietra. Neanche correndo la maratona potevo sentire i muscoli così stanchi e affaticati. Eppure mi ero appena svegliato, ma ero stanco, tanto stanco. Troppo stanco per pensare. Sarei tornato a dormire volentieri, ma una voce mi bloccò, una voce femminile:
«Oh, si è svegliato» trillò schietta.
Chi era? Meg era aggraziata, dolce, e aveva una voce angelica, tranquilla. Non era Meg. Non riuscivo a vederla, non riuscivo a spostare lo sguardo dal soffitto. Quel brutto soffitto. Ma Meg non aveva quella voce, Meg non aveva quell’odore: lei non era Meg. Cercai di muovermi, di reagire. Ma i miei muscoli non volevano saperne. Dov’ero? Con chi ero? Dov’era la mia Meg?
«Non si agiti per l’amor di Dio» gorgheggiò quella voce acuta «Sono la dottoressa Sue, lei è in ospedale».
In ospedale?! Come? Quando? Perché?
Io in ospedale?! Io in ospedale?! Io in ospedale?!
«Dov’è Meg?».
Fu l’unica cosa che riuscii a dire. La mia bocca era secca, impastata. Avevo sete. Ma non era dell’acqua che volevo. Volevo la mia Meg. Dov’era Meg?
«Signore, lei era in coma».
Credo che mi fischiassero le orecchie in quel momento. Non sentii niente. Solo un infinito e fastidioso Fiiiiiii… La mia mente si svuotò, i miei occhi spalancati fissavano il soffitto. Non provavo niente, non sentivo niente ero diventato una statua. Qualche flash luccicante spuntava ogni tanto nella mia visuale, poi buio. La mia mente era offuscata, i miei ricordi: scomparsi. Solo Meg, solo lei occupava i miei desideri. Solo lei desideravo, le sue labbra, i suoi capelli, la sua pelle, il suo odore. Tutto ciò che faceva di lei la mia Meg, io lo volevo. Ma il resto…vuoto. Perché mi trovavo in ospedale, cos’era successo? Vuoto. Non ricordavo niente. Solo lei. Il suo viso era proiettato sul soffitto bianco dell’ospedale. Lo vedevo. Lei mi sorrideva, i capelli dorati sparsi al vento. Rimasi ad ammirarla tutto il tempo. I dottori passarono uno a uno. Mi visitarono. Si consultarono, ma per me non esistevano. Io avevo occhi solo per lei, che mi guardava dal soffitto.
Ma quando la notte calò, e si spensero tutte le luci, lei se ne andò, mi abbandonò. Meg. Il suo viso era scomparso, vedevo solo nero. Nero era peggio di bianco. Ma solo immerso nel buio riuscii a piangere. E una goccia dietro l’altra mi rigò il viso. Perché Meg? Perché? Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a smettere di piangere, non volevo smettere. Guardai il buio piangendo finché non spuntarono le prime luci dell’alba. Qualche raggio si infiltrò nella stanza, ma niente. Lei non tornò. Meg era sparita.
“Ahia”. Una fitta. La dottoressa Sue stava ai piedi del letto. Potevo vederla. Potevo muovere la testa! Lei sorrideva, in mano uno spillo.
«Bene, non ha perso la sensibilità» strillò allegra, e si volatilizzò. Possibile che un pover uomo non potesse starsene in pace a letto senza che qualcuno gli infilzasse la gamba con uno spillo?! Cosa mi importava se percepivo il dolore; il dolore lo avevo dentro, senza la mia Meg.
“Mi vuoi sposare?” è l’unica cosa che ricordo. Io, lei, l’albero. E fu proprio quello:
«È precipitato da un albero» mi avevano detto «È fortunato a non esser rimasto paralizzato».
Ma fortunato dove?! Dov’era Meg, dov’era il mio angelo? Avevo pianificato quel giorno da una vita, il nostro matrimonio. Ma lei non aveva detto “sì”. Ma nemmeno “no”. E ora dov’era? Era venuta a trovarmi una volta? Perché non veniva a trovarmi?
«Tre anni» mi avevano risposto. Avevo dormito tre anni. Nutrito da un tubicino, solo come un cane, ero riuscito a resistere tre anni. E per cosa?
Fu un giorno che ebbi la risposta: per lei. Dovevo trovarla! Lei era lì, da qualche parte. Dovevo solo andar la a cercare. Sono sicuro che non mi aveva dimenticato. No! Non poteva dimenticarmi, noi eravamo anime gemelle, anzi: lo siamo! Lei era là e mi stava aspettando pronta per un “sì”.
Quel giorno mi alzai dal letto. Per la prima volta. Io ce l’avrei fatta, l’avrei trovata!! Non avevo dubbi, lei mi stava aspettando! Mi servì un anno di fisioterapia per rimettermi in sesto: come nuovo!
Io l’avrei trovata…

  
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