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Autore: Angel_R    22/05/2012    4 recensioni
One-shot dedicata ai due parabatai Alec e Jace. Il loro rapporto va oltre la semplice amicizia, loro, anche se non di sangue, sono fratelli a tutti gli effetti. Dove c’è uno, c’è l’altro, e solo la morte può dividerli.
Dal testo:
«Ce l’abbiamo fatta un’altra volta. Abbiamo abbattuto un demone uscendone quasi del tutto indenni.»
«Uno di noi due di sicuro.»

Si alzò in piedi aiutato da Jace e insieme tornarono verso l’Istituto.
Era quello che facevano sempre:aiutarsi a vicenda, e le cose non sarebbero mai cambiate.

Questa fiction ha partecipato al contest Parabatai Contest -closer than brothers- indetto da adamantina
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Il protettore e il combattente
Genere: Slice of life, Introspettivo
Rating: Verde
Avvertimenti: One shot, Missing Moment
Prompt utilizzati: Runa; "Se quella era la fine, sarebbe morto da guerriero." [Gena Showalter, "Demon's Angel"]; L’immagine
Personaggi: Alec Lightwood, Jace Harondale Lightwood







Il protettore e il combattente





Memories







“È più bravo di Isabelle?” chiese di nuovo. “Alec, intendo.”
“Più bravo?” le fece eco Jace. “A uccidere i demoni? No, direi di no. Non ne ha mai ucciso uno.”
“Davvero?”
“Non so perché. Forse perché si preoccupa sempre di proteggere me e Izzy.”







Ci sono momenti, nella vita, durante i quali ti fermi e pensi alla tua intera esistenza. Rifletti su tutto ciò che hai vissuto, provato, sentito. Ogni errore, ogni vittoria.
Ti passa tutto davanti agli occhi, come un film proiettato a grande velocità su uno schermo.
Uno di quei momenti può arrivare mentre stai combattendo contro un demone a due teste delle dimensioni di un edificio a due piani, metro più, metro meno, che al posto delle mani ha grandi artigli ricurvi e affilati come rasoi.
Certo, non era la prima volta che Jace si trovava nei guai fino al collo, ma quel mostro gli stava dando filo da torcere, e non era sicuro di riuscire ad abbatterlo, neanche con qualche colpo ben assestato.
Aveva provato ad attaccarlo in qualsiasi modo, ma quello continuava a resistere, senza darsi per vinto.
In un certo senso il demone gli assomigliava: testardo e convinto delle proprie possibilità fino in fondo. Si sarebbe battuto andando anche incontro alla morte pur di non cedere per primo.
«Beh, vedremo chi di noi due ha la testa più dura, allora» disse Jace con un mezzo sorriso a tirargli le labbra poco prima di partire alla carica verso l’enorme creatura, pronto a sferrare l’ennesimo colpo.
Il demone, da parte sua, non si lasciò cogliere impreparato e schivò l’attacco, colpendo il ragazzo all’altezza dello stomaco e scaraventandolo parecchi metri più in là.
L’urto fece perdere la presa di Jace sulla spada angelica, la quale volò dalla parte opposta alla sua.
Ferito e disarmato, il giovane Cacciatore era senza difesa, ormai. Il nemico gli si era parato davanti, sporgendosi verso di lui, separandolo dalla sua unica arma e impedendogli la possibilità di poter spiccare un salto utile ad afferrare nuovamente la spada.
In pochi secondi si ritrovò con le spalle contro la parete della galleria sotterranea: un posto umido e maleodorante, nel quale i suoni e i rumori della notte newyorkese giungevano attutiti.
Il demone si avvicinava lentamente a Jace, come nel vecchio gioco del gatto e del topo, peccato che, pensò il ragazzo, di solito dalla parte del carnefice ci stava lui, e non viceversa.
Se solo non fosse andato fin lì da solo! Certo, aveva chiesto ad Alec di accompagnarlo, ma lui si era rifiutato categoricamente di seguirlo nell’ennesima ‘rincorsa al suicidio’, come l’aveva definita prima di sbattergli la porta della sua stanza alle spalle. Così Alec era rimasto all’Istituto, e Jace era andato da solo a zonzo per New York cercando qualcuno con cui attaccar briga.
Nessuno capiva il perché lo facesse, lui meno di tutti, ma, dopo aver affrontato una di quelle creature schifose e avere ottenuto la vittoria, si sentiva molto meglio. Certo, i graffi, le ferite, i tagli, le ustioni, facevano male, ma quelle guarivano nel giro di brevissimo tempo con l’aiuto di rune guaritrici e intrugli liquidi. La soddisfazione, invece… beh, quella rimaneva!
Jace cercò di rialzarsi in piedi, e, nel farlo, si rese conto di non riuscire a reggere tutto il peso del proprio corpo sulle gambe, con tutte le probabilità a causa del volo inatteso finito con un atterraggio ben poco elegante sull’asfalto.
«Perfetto! Scommetto che adesso ti senti soddisfatto di te stesso, eh?» chiese retorico al mostro, il quale, senza dargli tregua caricò un colpo dall’alto tagliando l’aria con uno dei suoi enormi artigli.
Si sentiva davvero in trappola, quella volta, ma non si sarebbe di certo dato per vinto così facilmente, non era nel suo stile.
Se quella era la fine, sarebbe morto da guerriero. Era quello che gli aveva insegnato suo padre, e lui ne aveva sempre fatto tesoro.
Jace riuscì a sfuggirgli per l’ennesima volta scartando di lato e rotolando tra le zampe animalesche che il nemico aveva al posto delle gambe. Non aveva calcolato, però, che nonostante la stazza egli aveva due teste, e, quindi, quattro occhi, per non parlare dell’innaturale agilità nei movimenti, quindi, con uno scatto fulmineo, si girò su se stesso e si avventò sul ragazzo, pronto a finirlo una volta per tutte…



«Non ti capisco. Ti sto proponendo una serata divertente, e tu non accetti. Preferisci stare qui da solo con il muso lungo?»
«E se anche fosse?»
Jace roteò gli occhi appoggiandosi allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto. «Fai un po’ come ti pare. Io non ho di certo intenzione di deprimermi insieme a te.»
Si voltò e mosse qualche passo verso il lungo corridoio, ma fu bloccato dalla voce di Alec, il quale, senza scomporsi minimamente, era rimasto sdraiato sul suo letto, un braccio abbandonato sulla fronte. «E dimmi: per quale motivo dovrei seguirti in una delle tue rincorse al suicidio?»
Jace ritornò indietro e assunse nuovamente la posizione che aveva poco prima. «‘Rincorsa al suicidio’. Mi credi così stupido?»
Alec ruotò la testa in modo da riuscire a guardare l’amico negli occhi. «No, non stupido. Incosciente.»
Jace sogghignò. «Qualcuno ha sfogliato il dizionario, ultimamente.»
Il silenzio calò per qualche secondo, dopodiché Jace si riscosse e con uno sbuffo si allontanò.
Non si voltò quando Alec si alzò e si fermò sulla soglia della propria stanza. Sentì, però, il tonfo della porta mentre si chiudeva.

Ciò che Jace non poteva sapere, era che Alec, suo amico, compagno e fratello, stava male proprio a causa sua.
Sbuffò e si stese nuovamente sul letto. Possibile che si sentisse in quel modo ogni volta che lo vedeva? Soprattutto in quell’ultimo periodo, da quando Jace aveva salvato quella ragazzina, Clary, la stessa ragazzina che, in quel momento, stava dormendo proprio sotto il suo stesso tetto.
Era davvero avvilente che lei fosse lì. Un mondano non dovrebbe vivere in un Istituto, non può, e poi c’era qualcosa in lei… qualcosa che lo innervosiva, che gli faceva salire il sangue al cervello ogni volta che la incontrava lungo i corridoi, che qualcuno semplicemente pronunciava il suo nome o che Jace la guardava… Si mise a sedere con uno scatto e batté un pugno sul materasso.
Era quello il vero problema: Jace. Il solo pensare che il suo migliore amico avrebbe potuto avvicinarsi a quella ragazza, lo faceva sentire male, come mai prima di allora.
Certo, lei non era affatto la prima donna che attirava il suo interesse, ma sembrava che stesse cominciando a fare un certo effetto a Jace, e lui, naturalmente, non se ne era nemmeno reso conto.
Alec, invece, aveva notato subito il lievissimo, quasi impercettibile, cambiamento del suo parabatai. A quanto pareva lui era il solo, ma proprio per quello si sentiva peggio. Conosceva Jace da anni, e il loro legame era indissolubile, le loro anime erano legate per sempre grazie alla runa che ognuno di loro aveva ricevuto quando, tempo prima, avevano deciso di diventare compagni di battaglia.
Quel segno sulla pelle era stato inciso proprio come tutti gli altri, ma aveva un significato ben più profondo; con esso si erano uniti per la vita, solo la morte avrebbe potuto dividerli e, ogni volta che combattevano fianco a fianco, ad Alec sembrava quasi che quella runa ardesse di vita propria, che bruciasse di un fuoco che lo avvolgeva rendendolo più forte. Era come se quel semplice simbolo gli desse l’energia necessaria per affrontare qualsiasi tipo di pericolo, per proteggere tutti coloro che amava.
Sapere di poter essere un’ancora di salvezza per Jace lo aveva fatto sentire bene, importante, e quell’affetto si era pian piano trasformato, diventando qualcosa che la legge dei Cacciatori non prevedeva, qualcosa che i suoi stessi genitori avrebbero di sicuro tacciato come indegno per un membro della loro stessa famiglia.
Isabelle era l’unica a esserne a conoscenza e questo, in parte, lo sollevava. In fondo era sua sorella, e sapere che lei lo amava nonostante tutto era una, seppur piccola, forma di rassicurazione, anche se era consapevole che nessun altro ne sarebbe dovuto venire a conoscenza, soprattutto il diretto interessato. Jace non sospettava niente, e non aveva dato segni di aver scoperto nulla, il che da una parte sollevava Alec, ma, dall’altra, lo faceva sentire quasi colpevole. Erano compagni, e avrebbero dovuto condividere gioie e dolori, per essere come un’unica cosa e diventare infallibili sul campo di battaglia, ma non poteva fare altrimenti: non voleva che proprio lui lo abbandonasse.
Negli ultimi tempi era conscio di non essere di buona compagnia, anche se, obiettivamente, l’esuberanza e la socialità non avevano mai fatto parte del suo carattere. Non riusciva neanche a fingere di essere di buon umore, proprio non poteva. Ma sapeva anche che il suo scontento si rifletteva anche sugli altri.
Quando, poco prima, Jace gli aveva chiesto di accompagnarlo in giro per la città, aveva fatto uno sforzo enorme per non fiondarsi giù dal letto e accontentarlo. Aveva preferito rimanere da solo con se stesso, piuttosto che seguirlo e rimanere da solo con lui. Sarebbe stato troppo complicato nascondere quello che provava da quando Clary era entrata con prepotenza a far parte delle loro vite.
Nonostante tutto, Alec era sicuro che il suo parabatai non era uscito semplicemente per divertirsi, come gli aveva detto. Ormai aveva imparato a conoscerlo al punto tale di sapere che la sua ricerca di avventura di quella sera non era nient’altro che un modo per sfogare tutte le frustrazioni, le fatiche e le responsabilità che gli gravavano sulle spalle.
Alec controllò l’orologio. Era notte fonda, ormai.
«Chissà in quali guai si starà cacciando…» mormorò con un lieve sorriso a tirargli le labbra.

Mentre camminava per le strade affollate e caotiche di New York, Jace non poteva fare a meno di pensare al comportamento di Alec.
Era sempre stato riservato e taciturno, ma mai come in quel periodo. Sembrava quasi che qualsiasi cosa o qualsiasi persona lo infastidisse.
Con tutto quello che stava succedendo, non aveva avuto il tempo di accorgersene, a dire la verità, ma non capiva davvero il motivo del suo atteggiamento. Negli ultimi giorni non c’era stato un attimo di pace: nell’Istituto viveva una mondana che non aveva il diritto di stare lì, non quanto loro, almeno, ma non era di certo quello il problema che aveva portato Alec a comportarsi in quel modo.
Non sapeva proprio come fare per capirlo. Di solito, in passato, non erano mai davvero servite molte parole, tra loro due. Si intendevano al volo, senza bisogno di spiegazioni. Non per niente erano parabatai. Si erano scelti l’un l’altro come compagni di battaglia, ma, soprattutto, come compagni di vita. Dove andava uno, andava l’altro. Se uno dei due era in pericolo, l’altro gli salvava la pelle, proteggendolo senza alcuna riserva.
Proteggere era il verbo migliore che si potesse attribuire ad Alec. Lui non aveva mai esitato neanche una volta nell’intervenire durante uno scontro per difendere le persone che ama. Avrebbe sacrificato la propria vita per salvare quella dei suoi amici o di qualcuno della sua famiglia.
Una volta lui e Isabelle ne avevano parlato, e lei, con fare sufficiente, gli aveva detto: “Lo sai, è fatto così. E poi non poteva essere più perfetto: Alec significa “colui che protegge”, è il destino.” Come Isabelle potesse essere a conoscenza di tutte quelle cose riguardo al nome o al destino, non lo sapeva, e, a dirla tutta, non era sicuro neanche che lei in prima persona credesse in certe cose, ma Jace non aveva potuto fare a meno di pensare che in fondo era vero: Alec era fatto così, ed era per quello che avrebbe combattuto al suo fianco per sempre.
Erano una coppia perfetta: uno riflessivo, l’altro impulsivo fino all’inverosimile; uno portato all’attacco, l’altro alla difesa; uno il protettore e l’altro il combattente. In battaglia si muovevano quasi in sincronia, un’abilità acquisita in anni e anni di allenamenti e lotte sul campo.
La decisione di compiere il rito e diventare parabatai, non era stata difficile da prendere, anzi. Ormai si conoscevano talmente bene che accettare la runa che li legava per il resto delle loro vite era solamente un’inezia burocratica.
Ricevere quel simbolo, però, aveva rafforzato ancora di più il loro legame. Da quel momento in poi, erano più che amici, più che fratelli, erano come una cosa sola, unicamente la morte li avrebbe divisi. Accadeva a ogni Cacciatore, e per loro non era diverso, se non per il fatto che fratelli, anche se non di sangue, loro due lo erano davvero.
Jace si fermò all’improvviso e si guardò attorno. Mentre pensava, aveva camminato senza sosta, ritrovandosi inspiegabilmente nella periferia della città.
La notte stava prendendo sopravvento senza riuscire a inghiottire le luci al neon che brillavano ovunque. Dove si trovava lui, però, il buio si preannunciava più denso, privo di disturbi luminosi.
Le villette che sorgevano ai lati della strada sembravano una l’imitazione dell’altra, uguali se non per qualche lieve differenza: un’auto di un colore diverso parcheggiata nel vialetto, la bicicletta di un bambino con i manici di plastica colorata abbandonata sul prato, la bandiera degli Stati Uniti appesa fuori da una finestra.
Per un istante Jace si ritrovò a chiedersi come dovesse essere vivere in quel posto; cosa si dovesse provare ad avere un’esistenza tranquilla, priva di esseri disgustosi, di battaglie quotidiane, o promesse di morte continue.
Scosse la testa e proseguì. Quella vita da mondano non era certamente adatta a uno come lui, cresciuto tra un addestramento e l’altro.
Man mano che camminava, le strade erano sempre meno affollate, e le case distavano parecchi metri l’una dall’altra.
Solo allora Jace alzò nuovamente la testa e si accorse di essere l’unica persona nei dintorni.
La solitudine non gli dispiaceva, ma il silenzio ti porta a pensare, e, nella maggior parte dei casi, non era la soluzione migliore. I pensieri ti portano a porre domande a te stesso, domande cui non vuoi rispondere.
«Andiamo, presto!»
Una voce portata fino a lui dal vento lo fece scattare. Non era completamente solo.
Senza pensarci neanche un secondo, cercò di capire chi fosse stato a parlare, e poi, lo vide. A qualche metro da lui si alzava un grosso albero dal tronco scuro e robusto tra i cui rami era stata costruita una casetta di legno. Non era di certo l’ultimo ritrovato dell’edilizia, ma sembrava abbastanza solida con il suo tetto verde e la finestrella solitaria che guardava verso la strada.
Due bambini, avranno avuto circa nove o dieci anni, stavano calando una scaletta per poter scendere fino a terra.
Jace si avvicinò loro, sicuro del fatto che i due ragazzini non potessero vederlo. Era bello poter girare in mezzo ai mondani quando non si accorgevano della tua presenza: nessuno ti si avvicinava o ti rivolge la parola. Puoi essere solo anche in mezzo alla folla e alla confusione newyorkese.
I due bambini scesero e corsero, molto probabilmente, verso le loro case per non arrivare tardi per la cena.
Jace appoggiò una mano sulla scaletta che i ragazzini avevano lasciato contro il tronco dell’albero senza avere l’intenzione di salire: quello era un po’ come se fosse un luogo sacro, solo i proprietari potevano entrare in quella casetta. Era il loro nascondiglio, dove potevano scappare da tutto e da tutti quando ne sentivano la necessità, e lui non avrebbe violato per niente al mondo la felicità di nessuno.
Alzò lo sguardo verso la piccola abitazione di legno, cercando di immaginare ciò che potesse essere contenuto lì dentro. Non ci riuscì. Non sapeva cosa potesse piacere ai bambini mondani. Lui, se avesse avuto la possibilità, alla loro età avrebbe nascosto all’interno del suo posto segreto alcuni libri, quelli che lo incuriosivano ma che il padre non gli permetteva di leggere; le sue armi, quelle che riceveva man mano che l’addestramento procedeva…
Tutto a un tratto Jace si ritrovò a chiedersi di nuovo come sarebbe stato se non fosse nato Cacciatore, se le cose per lui sarebbero diverse, o se si sarebbe ritrovato comunque senza genitori e adottato da una famiglia che lo amava ma che, in fin dei conti, era stata obbligata ad accoglierlo. Forse lui e Alec sarebbero stati lo stesso amici, proprio come i piccoli proprietari del fortino sull’albero, magari la preoccupazione più grande sarebbe stata anche per loro quella di non fare tardi per l’ora di cena.
Si riscosse all’improvviso dai suoi pensieri staccando la mano dalla scaletta e allontanandosi di qualche passo.
Che cosa gli prendeva? Lui non si auto commiserava mai, non era il tipo! E poi non aveva neanche mai preso in considerazione l’idea di diventare mondano. Lui era un Cacciatore, e ne andava fiero. Le rune nere che gli percorrevano il corpo, le cicatrici, la spada angelica appesa alla cintura, il peso familiare della stregaluce in tasca... quella era la sua vita: era nato Cacciatore e sarebbe morto come tale.
Probabilmente, si disse, il malumore di Alec lo aveva in qualche modo contagiato.
Si allontanò definitivamente dall’albero e dalla casetta e si diresse verso i bassifondi della città. Era lì che sperava di incontrare un brutto ceffo contro il quale sfogarsi.



Il colpo di grazia non arrivò.
Una lunga freccia si era conficcata nel collo del demone, il quale, con uno strillo raccapricciante era stato sbalzato all’indietro.
Jace riuscì finalmente a rimettersi in posizione eretta e un sorriso gli increspò le labbra.
«Hai deciso di venire a divertirti, alla fine.»
«Se questo lo chiami divertimento» disse Alec conciso avvicinandosi all’amico. I suoi occhi di ghiaccio riflettevano la luce della stregaluce che Jace aveva lasciato accesa poco prima che il combattimento cominciasse, unica fonte di luce della galleria.
Il mostro, intanto, stava cercando di togliersi la freccia dal collo, ma gli enormi artigli non lo aiutavano, quindi, in mancanza d’alternativa, puntò lo sguardo inferocito sul nuovo arrivato, pronto ad attaccarlo.
Alec, per nulla impressionato, afferrò la spada di Jace e gliela lanciò. Era il suo modo per dire “Fallo fuori, io ti guardo le spalle”, e Jace non se lo fece ripetere due volte.
Era proprio così: uno all’attacco e l’altro alla difesa.
Nonostante il suo parabatai fosse uno dei Cacciatori migliori della loro età, da che ricordava Jace, Alec non aveva mai ucciso nessun demone. Era quella la sua forza: proteggere il suo partner o chiunque fosse in pericolo.


Grazie all’aiuto di Alec il demone fu sconfitto rapidamente, e i due ragazzi si sedettero appoggiando la schiena contro la parete della galleria.
Ci fu qualche secondo di silenzio, dopodiché Alec estrasse il proprio stilo dalla tasca dei pantaloni e si chinò su Jace. Mentre incideva la pelle dell’amico, Alec cercava di non alzare lo sguardo per non incrociare, anche solo per caso, gli occhi di Jace. Non sapeva come lui stesso avrebbe reagito, e non voleva che l’altro capisse qualcosa, che potesse anche solo sorgergli il minimo dubbio.
«Alla fine sei venuto» disse Jace spezzando il silenzio.
Alec non rispose e continuò a tracciare le rune. Quando ebbe finito, ripose lo stilo in tasca e si sedette accanto all’amico.
Era rimasto parecchio tempo chiuso nella sua stanza, a rimuginare su se stesso, sulla situazione che si stava creando in quell’ultimo periodo, sulla possibilità di raggiungere Jace ovunque fosse andato quella sera… e poi aveva deciso di andarlo a cercare. Non aveva paura della sua incolumità, sapeva badare a se stesso, ma si era reso conto che lo stava allontanando da sé, e quello non lo avrebbe accettato.
«Ammettilo, eri in pensiero per me» disse Jace in tono beffardo. Alec si azzardò a guardarlo di sfuggita, e il lieve sorriso che trovo sulle sue labbra, lo trafisse come una pugnalata. Possibile che doveva sentirsi così ogni volta? Non doveva e non poteva avvertire certe cose.
«Ce l’abbiamo fatta un’altra volta. Abbiamo abbattuto un demone uscendone quasi del tutto indenni.»
«Uno di noi due di sicuro.»
Jace si girò verso l’amico, stupito da quel tentativo di battuta. Non era proprio da lui, ma gli fece piacere. Era da qualche giorno che Alec quasi non apriva bocca e, quando lo faceva, la sua voce risuonava secca e talvolta scontrosa. Magari stava ricominciando a riavvicinarsi, anche solo a parole.
Nonostante fosse seduto proprio accanto a lui, a pochi centimetri di distanza, lo sentiva ancora distante. Era come se attorno a lui si fosse eretta una barriera che teneva perennemente innalzata, ma non gli avrebbe chiesto spiegazioni, non era da lui, e poi Alec non avrebbe risposto, ne era sicuro.
«Resta il fatto che adesso quel mostro è all’altro mondo, e noi siamo ancora qui» sorrise Jace alzandosi in piedi. Dopo che Alec lo aveva guarito, si reggeva saldamente sulle gambe. Si scrollò i pantaloni strappati durante la battaglia, impolverati e incrostati di sangue ormai secco.
Alec, nel vederlo sano e salvo e di buon umore, si sentì rincuorato. Sapeva che il suo dissidio interiore sarebbe continuato sicuramente, ma preferiva soffrire in silenzio e avere accanto il suo parabatai, piuttosto che rimanere da solo, senza ombra di dubbio.
Jace allungò una mano verso l’amico e, quando la afferrò, ad Alec parve di sentire un lieve senso di calore, simile a quello che avvertiva nel punto in cui era stata tracciata la runa del parabatai quando combattevano fianco a fianco.
Si alzò in piedi aiutato da Jace e insieme tornarono verso l’Istituto.
Era quello che facevano sempre: aiutarsi a vicenda, e le cose non sarebbero mai cambiate.











Mi piace moltissimo il rapporto fraterno e a tratti conflittuale dovuto alle loro diversità che c'è tra Alec e Jace. È per questa ragione che ho voluto dedicare una shot a questa coppia di parabatai, e ho deciso di ambientarla all'inizio della storia, quando nè Clary nè Magnus giocavano ruoli importanti nelle loro vite, quando Alec non era ancora "uscito allo scoperto" e credeva di essere innamorato di Jace.
E poi... beh, lo ammetto, se mi chiedono di scrivere su qualche personaggio in particolare, io devo scrivere su Alec. Lo adoro, è il mio personaggio preferito da quando è apparso la prima volta, e piano, piano, stiamo scoprendo sempre qualcosa di nuovo sul suo conto. È un personaggio piuttosto complesso, con molti dissidi interiori e un capace di fare grandi cose per aiutare le persone che ama.
Adesso basta tessere le sue lodi, altrimenti si monta la testa anche lui xD

Il dialogo riportato in corsivo sotto il titolo (un po’ tagliato) è tratto da “Città di ossa” (pagina 158), ed è uno scambio di battute tra Clary e Jace mentre sono all’Istituto. Mi è sempre piaciuto questo pezzetto, perché credo che esprima quanto di più bello c’è in Alec, e volevo inserirlo in una fiction a tutti i costi.
A questa frase non ho potuto fare a meno di associare il suo nome, “Alec”, con il suo significato, cioè “protettore degli uomini”, “colui che difende e protegge” (proprio giusto per uno come lui).
Il significato di “Jonathan” non è “combattente”, ma Jace è l’antitesi di Alec, ecco il motivo della scelta del titolo. Jace è impulsivo, si butta nella mischia, non accetta un no come risposta ed è più portato per l’attacco.

Spero che questa mia modestissima shot sia di gradimento a qualcuno. Fatemelo sapere.

Ho pubblicato anche un'altra fiction in questo fandom, se vi va, dateci un'occhiata^^:Fighting for love




Angel

  
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