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Autore: Vampiresroads    23/05/2012    2 recensioni
Una bella giornata in una villa verdeggiante.
Due amici d'infanzia si ritrovano dopo anni di distacco.
Uno scenario perfetto per una scenata di ricordi sinceri.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un albero.
Prendi un albero.
Cos’ha di bello? È semplicemente alto, verde e resistente, ma non si muove. Non parla, non cammina, non si esprime.
Cosa ci sarebbe di bello nell’essere una pianta? Passi la vita a fissare l’uomo che distrugge i tuoi simili senza poter alzare un dito.
Il massimo che puoi fare è produrre frutti colorati che poi l’uomo raccoglierà e ne farà cose ancora sconosciute.
Potrebbe mangiarlo, come spesso fa, ma potrebbe anche caricarlo su una scatola con quattro cerchi neri che chiama “camion” e portarli per luoghi sconosciuti, facendone cose che l’immaginazione di un albero non potrebbe mai arrivare a capire.
Con queste inutili riflessioni facevo chilometri intorno a quella valle doppiogiochista che troppo spesso mi inquietava, ma che continuavo ad amare.
Era come un braccio destro per me: avevo percorso pressoché ogni secondo della mia vita seduta su quel morbido tappeto di foglie e gingilli, era tutto così bello.
L’aria pulita era di un’inaspettata familiarità e c’erano tutti gli ingredienti necessari per una giornata perfetta con il mio migliore amico.
Erano anni ormai che non ne passavano, qualche tempo fa cercavamo qualsiasi minuto libero per radunarci in quella valle sconosciuta agli incubi e all’essere umano.

Finalmente Matt arrivò col suo sorriso dalle fossette incredibilmente dolci e tranquillizzanti e il suo fisico sempre protettivo e rassicurante.
Lo conoscevo da quando avevo quattro anni. Ricordo la sua amata voglia di andare avanti e di seguire l’ambizione di suonare.
Mi abbracciò come si abbraccia un’amica che non vedi da tempi immemorabili e in effetti era ciò che ero, in quel momento.
Fu lui il primo a parlare.
“Mi mancava questo posto.”
“Lo so.”
“Da quanto tempo non tornavamo qui?”
“Tantissimo. Non avevi più tempo per il nostro gioiello. Era la nostra casa, ricordi? Ora l’hai sostituita con la sala prove. Noi eravamo una famiglia, ora l’hai sostituita con i tuoi quattro amichetti.”
“Ed ecco che te la riprendi con loro. Cosa ti hanno fatto di male?””
“Nulla, ma non fai altro che provare, sapendo che non arriverete da nessuna parte.”
Dopo quella mia affermazione cambiò espressione e cominciò ad agitarsi.
Dio, quando mai l’ho detto?
“Siamo bravi. Cos’ hai contro di noi? Sembra un film, minchia. Non ti accontenti mai.”
“So che siete bravi, ma non è sempre così semplice.”
“Andiamo ce la faremo! E anche se non fosse così ci saremo divertiti, no? Abbiamo diciassette anni. Diciassette. C’è tempo per fare i seri e lasciar perdere le stronzate.”
“Lo vedi? Non ti importa più di nient’altro. Ti stai autodistruggendo, amico.”
Raccolse le labbra graffiandole con i denti. Il suo sguardo contrastava col sole accecante che ci percuoteva sempre più, e con tutta la pazienza che Matt aveva sempre dimostrato di avere, inspirò lentamente.
“Non  ricominciare Val, ti prego. Non ora. Siamo qui per rivivere i giochi e gli scherzi. Non per fare il discorsetto sulla crescita.”
Strinsi gli occhi spingendo le mie labbra contro i denti, per minimizzare il dolore interno con quello fisico.
Lui mi vedeva come una macchina senza sentimenti. Appoggiai la sua iniziativa di cambiare discorso.
“Ne riparleremo.”
“Allora amica, cos’è che facevamo, tempo fa, per passare il tempo?”
Accompagnò queste parole appoggiando sulle foglie verdi una bottiglia di vodka, una di birra (quelle che un tempo sarebbero state bottiglie di coca cola e tè) ed iniziò ad affettare il salame per riempire i panini.
Il rapido coltello mi dava spesso l’illusione che prima o poi si sarebbe mozzato un dito, ma sapevo che la sua scaltrezza lo avrebbe evitato.
“Come ‘cosa facevamo?’  Non te lo ricordi?”
“Dovrei ricordarmelo?”
“Non lo so. Nah. Ricordartelo? Perché mai dovresti? Cioè, non c’è motivo! Non è mai successo niente qui. Non è che ci siamo cresciuti. Non ci abbiamo passato l’infanzia. Assolutamente, stai scherzando? Pff.”
Si alzò lentamente avvicinando le mani alla bocca e accostandole alle fossette ed urlò: “Topi! Sto arrivando, preparatevi. Il grande Sanders sta arrivando.”
Disse tutto questo racchiudendo la voce e facendola diventare ironicamente infantile.
Scoppiai in una risata altrettanto ricca e infantile.
Dio mio, la caccia al topo.
“Così te lo ricordi ancora eh?”
Riempii un bicchiere di birra fino a farne cadere un po’ sul sofficissimo prato e lo bevvi sorridendo.
“Chi se le scorderà mai quelle dieci bestie allegre? Erano le uniche a farci compagnia in questo posto abbandonato, ricordi?”
“Ricordo eccome. E tutte le nostre teorie su come queste piccole bestioline erano finite qui? Ricordi anche loro?”
“Sicuramente. Mi ricordo tutto. Dicevi che un veterinario africano aveva impiantato uno studio qui e loro erano l’uniche bestie sopravvissute.”
Accennò ad una risata leggermente beffarda, mi mancava quella risata.
“Avevo una fervida immaginazione, cosa vuoi da me?”
“Oppure che il presidente del loro stato era troppo cattivo ed erano scappati in un posto dove non li avrebbero mai trovati. O ancora che giocavano a nascondino e si erano persi!”
Scoppiammo entrambi in una risata coinvolgente e appassionata.
Le lacrime legati ai ricordi soffocarono i litigi inutili creati prima e versammo il secondo, poi il terzo, poi quarto bicchiere.
“Val, val, ascolta: ti ricordi quando Zacky e Jimmy credevano che tu e tua sorella eravate la stessa persona e vedevano Michelle a casa pensavano che io gli mentissi?”
Continuai a ridere senza riprendere fiato per un millesimo di secondo.
Andammo avanti fino a finire ogni sorta di bevanda che avevamo a disposizione.
I ricordi ci avevano mangiato la consapevolezza di ciò che stava succedendo.
Avevamo ritrovato la nostra casa, la nostra tana, la nostra vita.
Soffocai le risa in un pianto inutile e insensato: niente aveva più ragione. Ero felice come nessuna ragazzina con le ballerine e i vestitini curati aveva mai immaginato di essere.
Tolsi quelle scarpe ripugnanti e cominciammo a correre usando come scusa la vecchia caccia ai topi.
Raccolse l’espressione in una frase che mutò anche il sapore delle mie lacrime:
“Vorrei far di questa giornata la vita.”
“Anch’ io, amico.”
“Facciamolo, allora.”
“E la tua musica?”
“Aspetterà. Zacky capirà e aiuterà gli altri a farlo.”
Ci sedemmo spensierati sul grande prato a sperimentare assurdità.
Quella sera liberammo davvero i due piccoli amici che sembravano morti e sepolti da anni.
“Ti voglio bene, Matt.”
In quel momento mi accorsi che la stanchezza e le varie bibite ingerite l’avevano portato ad appisolarsi.

Non avevo voglia di tornare in città. Stavamo meglio così.

  
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