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Autore: Beautiful Lie    23/05/2012    5 recensioni
Pensò al vincitore, alla sua casa solitaria perlomeno quanto la sua vita. Agli incubi, i volti di ogni singolo tributo e la consapevolezza di non essere l'eroe tanto decantato, ma solo il ricordo di un ragazzo costretto a lottare. Quella non era la sua storia.
Ho scritto questa fanfiction semplicemente perché il personaggio della fantomatica ragazza che accende il fuoco la prima notte, proprio quando non dovrebbe, mi ha sempre affascinata molto e mi ci sono immedesimata. *confessa* Non tutti siamo pronti a combattere come Katniss, non tutti ne abbiamo la forza né le abilità. Grazie a tutti quelli che vorranno lasciare una traccia; felici Hunger Games! ♥
[Forse FemSlash, non lo so nemmeno io.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cato, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La ragazza del fuoco
She wants to go home, but nobody's home.It's where she lies, broken inside.
With no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.


 

Una settimana prima
Si chiese se qualcuno li prendesse davvero sul serio, gli Hunger Games. Se qualcuno vivesse ogni giorno della propria esistenza rendendosi conto della silenziosa fine che avanzava.
Sentiva il nipote della sarta urlare di voler essere un pirata, mentre correva per le strade sporche agitando una benda nera; la vecchia donna lo osservava con un sorriso triste, perché aveva paura di vietargli di sognare e si sentiva ancora in colpa per aver favorito la sua nascita.
Chiudendo le tende si rese conto che, anche se lei bambina non lo era più, non poteva fare a meno di cadere nel baratro delle aspettative. I sogni erano come tarme, riusciva a sentirli scavare dall’interno e facevano male perché sapeva di star andando contro vento. Queste persone non duravano mai a lungo. Non era nei progetti di Capitol City.
Saltò giù dal letto e cercò la tuta che di solito utilizzava per lavorare. Avendo quindici anni non le era ancora permesso l’accesso in fabbrica, perciò si limitava ad aiutare sua madre che cuciva divise per i Pacificatori. Nel Distretto 8 la vita funzionava così da quando ne aveva ricordo: i figli assistevano i genitori e, nel momento in cui questi erano troppo vecchi per guadagnare soldi, prendevano il loro posto. In questo modo non era garantita alcuna possibilità di scelta; la società ristagnava senza evolversi, senza rivelarsi come una minaccia per i quartieri più alti.
I Pacificatori erano sempre numerosi nella zona delle fabbriche e muoversi liberamente poteva risultare un problema solo se non si era a conoscenza delle persone giuste e dei luoghi meno controllati. Lei, questi agganci, ce li aveva.
Ogni mattina, dopo aver indossato la tuta da lavoro e preso i capi che sua madre le lasciava in custodia, sgattaiolava fuori di casa e si dirigeva verso la discarica. L’aria in quella zona era particolarmente inquinata, perciò non si stupiva mai di trovarla deserta. Dopo aver percorso una galleria sotterranea fino ad un vecchio edificio, cominciava il suo cucito.
Di solito, a metà mattina, arrivava anche lei.
«Signori e signore, felici Hunger Games!»
Sobbalzò e si punse con l’ago.
«Sei in ritardo, Tale.» aggiunse sussurrando, come se volesse compensare i suoi urletti incontrollati. Dovette constatare che la stanza sembrava meno brutta non appena arrivava e si prese alcuni secondi per sorriderle, appoggiando sul pavimento la divisa a cui mancavano vari bottoni. Lei s’inchinò in risposta, facendola ridacchiare. Si conoscevano da così tanto tempo che la loro vita l’una al fianco dell’altra era semplicemente quotidianità.
«Pronta per domani?»
«Uno splendore. Questo è il mio vestito.» tirò su la divisa da Pacificatore e ci fece una giravolta. I suoi occhi, nonostante tutto, erano spenti al pensiero della Mietitura. L’amica non aggiunse nient’altro, conscia dell’inutilità di qualsiasi commento; tirò fuori il suo cestino e sistemò il filo nell’ago.
Rimasero in silenzio per ore, con la sola compagnia delle gocce che scivolavano giù da un vecchio tubo.
«Promettimi che non lo farai.» borbottò, mentre si legava i capelli ricci. Era come se stesse fissando un’idea, lontana e inafferrabile. Tale tacque cercando di seguire la corrente dei suoi pensieri, poiché sembrava importante.
«Avevo in programma di andare a prendere dello zucchero filato per festeggiare il giorno della Mietitura, se ti dà fastidio posso lasciar perdere.» voleva che fosse lei a spiegarle, che almeno per quel giorno non dovesse correrle dietro.
«Se io venissi estratta, ti offriresti al mio posto?»
«Sì.»
«Promettimi che non lo farai.» ripeté, alzando lo sguardo.
Ora che poteva vedere quel lampo di comprensione negli occhi di Tale svanire per fare posto ad un’ombra scura, si sentì un po’ in colpa. Probabilmente sarebbe stato meglio per entrambe se avessero fatto finta di niente e continuato a cucire in silenzio.
«Te lo prometto.»
 
Quattro giorni prima
Quando sentì la voce dell’annunciatore scandire il suo nome, pensò di star sognando.
Un incubo del genere, però, l’aveva fatto così tante altre volte da saperlo distinguere perfettamente. Si stupì di scoprire le sue gambe muoversi verso la piattaforma e qualcosa di caldo le rigava il viso, annebbiandole la vista. Prestò un'attenzione minima all'estrazione maschile, troppo occupata a cercare un viso fra la folla sollevata. Poteva vedere la battaglia interiore che stava mettendo a dura prova l'amica; voleva fare qualcosa, ma le sue stesse parole la tenevano inchiodata al suolo polveroso.
Sentiva l'impulso di urlare, soffiare via ogni Pacificatore e non vederli tornare mai più. Ci provò, eppure non riuscì ad emettere alcun suono, bloccato lì da qualche parte insieme all'odio, l'impotenza e il dolore.
 
Tre giorni e dieci ore prima
Pensò che era strano sapere di star vivendo le sue ultime ore. Probabilmente a Capitol City qualche scienziato stava lavorando sul progetto: un orologio, una clessidra del tempo. Visto il loro amore per il cibo, anche una bilancia.
Ancora una volta, si rifiutò di guardare Tale negli occhi. Raggomitolata in un angolo della stanza, non poteva fare a meno di chiedersi come stessero affrontando la situazione gli altri tributi.
Loro ce l’avevano qualcuno che li andasse a trovare?
«Dovresti dirmi qualcosa. Considerando che la prossima volta ti vedrò in televisione…» la sua voce, di solito così decisa, era a mala pena udibile. Stava facendo spazio al vuoto fra lei e il tributo; questo era sicuramente il primo passo.
«Morta.» sussurrò l'altra, senza districarsi dalla sua posizione.
«Idiota, sei un’idiota. Tutto questo non può essere reale.» decretò, decisa.
«Lo fanno da settantaquattro anni, ma- ehi, il mondo prosegue anche con una ragazza in meno.»
Soprattutto se era qualcuno di inutile come lei.
«Non il mio.»
Ruppe la sottile barriera, si avvicinò e le cinse la vita delicatamente, evitando di fare anche solo il minimo rumore.
«Credi che non sappia?» il suo sguardo vagava dappertutto e si fermava a fissare le crepe nel muro bianco; sbatteva le palpebre affinché le lacrime non si schiantassero sul pavimento e facessero rumore. Non sapeva come mai il silenzio fosse essenziale. Probabilmente era un’altra regola non scritta.
«Sei forse una delle poche a cui sia mai importato qualcosa.» aggiunse, calma.
Tale sorrise e cominciò a frugare nella tasca della sua salopette, come se lì dentro avesse la soluzione di tutto. Alla vista dello sguardo confuso dell’amica, si lasciò sfuggire anche una risatina. Di quelle che faceva quand’erano sole a cucire.
«Questa è per te – annunciò quando le porse un ammasso di stoffa piuttosto scadente – so che non è ancora finito e mancano alcuni punti, ma doveva essere il tuo regalo di compleanno.»
Afferrò l’oggetto e, dopo un’attenta osservazione, capì che si trattava di una bambolina.
Premette i polpastrelli così a fondo nel tessuto che rimase il segno.
«Grazie per-»
Quando la porta si aprì, sobbalzarono. Senza troppi convenevoli due Pacificatori afferrarono Tale per le spalle, decisi a portarla fuori e separarla dal tributo. Sperò che capisse che il ringraziamento non era solo per la bambolina, ma non ebbe mai l’occasione per scoprirlo. Avrebbe anche voluto chiederle di fidarsi di lei –  solo un po’ – però non lo fece, perché odiava convincere le persone di qualcosa in cui non credeva.
Smise di piangere e si asciugò la faccia con il dorso della mano. Sua madre stava arrivando, sentiva gli insulti che rivolgeva alle guardie e le loro risposte educate.
Strinse la bambolina di stoffa finché la donna non varcò la soglia.
Il profumo di casa la travolse come uno scoglio in mezzo al mare e si aggrappò a lei, quasi fosse stata l’unica ragione che le impedisse di essere portata via. Il loro rapporto di solito si limitava alle stoffe lasciate sul tavolo della cucina, pronte ad essere lavorate non appena lei si fosse svegliata. Sua madre correva in fabbrica all’alba e rientrava la sera, qualche volta con una zuppa calda, qualche volta senza niente se non un’aria patita e le mani rovinate.
«Rimani la figlia che sono orgogliosa di avere, ti prego.»
Una volta l’aveva portata in mezzo alla neve e lì costruirono un grosso pupazzo, con i bottoni al posto degli occhi.
Non lasciarmi andare.
«Il tempo è scaduto, signora.»
Si alzò, altezzosa. Arrivata alla porta fissò la maniglia per un secondo e – prima di essere afferrata per un braccio – raccolse la bambolina, poggiandola in grembo alla ragazza. Rise sprezzante, mentre si rassettava la gonna. Non si sarebbe mai lasciata trascinare via da loro, quel destino toccava già a sua figlia.
 
Un giorno prima
Ridicolo. Il primo aggettivo che le venne in mente fra i tanti possibili era proprio quello.
Ridicolo. Continuava a ripeterselo nella testa, sperando che portasse ad un qualsiasi cambiamento. Come altro definire il costume da pagliaccio che giaceva sulla sedia rovinata dove proprio poco prima l’avevano fatta accomodare?
La stoffa era di pessima qualità, sia lei che il tributo maschile – non si ricordava nemmeno il suo nome – l’avevano notato subito e forse per la prima volta si erano anche scambiati uno sguardo di complicità.
Quella stessa mattina il loro mentore aveva snocciolato qualcosa sul fatto di scappare immediatamente dalla Cornucopia, perché solo i Favoriti avevano la vittoria in pugno. Fu l’unica frase di senso compiuto che riservò loro, poiché cadde addormentato a causa dell’alcol dopo pochi istanti. In quel momento scommesse mentalmente che il loro era l’unico distretto ad avere un mentore ubriaco. Persino il 12, forse, se la sarebbe cavata meglio.
«Cosa sono questi cosi?» chiese al tributo. Una parte di lei sperava che le avrebbe ricordato come si chiamasse, ma era chiaro che qualcosa del genere non sarebbe mai accaduto. Con molta probabilità, nemmeno lui aveva seguito la sua estrazione.
«E’ il costume peggiore che io abbia mai visto. Forse è una tecnica per farci avere più sponsor.» psicologia inversa?
«L’intervista, invece?» continuò con le domande, scoprendosi relativamente felice al pensiero di dialogo con una persona che perlomeno potesse essere definita umana. Che stava andando a morire con lei e non era da sola.
«Improvvisare è la parola d’ordine.» se ne andò, senza far sbattere la porta, e non lo rivide fino al giorno della sfilata. Dopotutto, non ne sentì la mancanza.
 
Stare in piedi su quel carro fu la prova più difficile che dovette sostenere fino a quel momento: non per l’equilibrio precario, ma a causa dell’assurda sensazione di sbagliato, qualcosa che serpeggiava fra i merletti del costume e i capelli male acconciati. Non aveva voglia di far finta di sorridere e non lo fece. Quando i tributi del Distretto 12 incendiarono i loro vestiti, non provò invidia e nemmeno ammirazione. Vederli tenuti per mano, però le causò una strana reazione e dovette portarsi due dita al petto prima di riuscire a comprendere da dove venisse il dolore.
Se anche avesse vinto, gli Hunger Games le avrebbero tolto ogni capacità di provare veri sentimenti. Sentiva che stava succedendo già da quello stesso istante e chiuse gli occhi, dimenticando dove si trovava, ignorando il ragazzo al fianco di lei. Nonostante il mentore non gliel’avesse mai detto, era sicura che piangere durante la sfilata di presentazione non sarebbe stata una mossa a suo favore e quasi non si rese conto delle gocce salate che le rigavano le guance, perché in quel momento era di nuovo a casa, era di nuovo con lei.
Solo così andava bene.
 
Mezz’ora prima
Arrampicarsi sugli alberi non era facile come pensava, quello doveva ammetterlo. Tentò un paio di volte fallendo, ma – non appena capì il metodo – i risultati non attesero ad arrivare. Si accucciò fra due rami che formavano un'ottima posizione per sedersi e osservò le mani sporche di muschio. In alcuni punti le abrasioni bruciavano particolarmente; poteva vedere persino le prime goccioline di sangue uscire dalle ferite. Afferrò lo zainetto minuscolo che era riuscita a portar via dalla Cornucopia, pronta ad esplorarlo. Era di  un colore bluastro molto caratteristico, sicuramente cucito da qualcuno del suo stesso Distretto.
Si rilassò al pensiero che nessuno avesse prestato la ben che minima attenzione ai suoi movimenti: non aveva fatto un buon punteggio alle valutazioni e il suo mentore si limitava a rassicurarla, perciò dovette convenire che quella reazione era decisamente aspettata.
All'interno dello zaino c'era poco o niente. Qualche bustina di frutta secca, dei fiammiferi e un cubetto simile ad un dado da cucina, utilizzabile per accendere un fuoco più vivo.
Sapeva cos’avrebbe fatto sin dal momento in cui le avevano spiegato che cos'era la Mietitura e si concesse alcuni attimi per assaporare quella possibilità. Non era riuscita ad avere armi – coltelli, frecce e lance erano stati presi quasi subito dai Favoriti – ma il fuoco sarebbe bastato. Oltretutto non aveva mai partecipato ad alcuna esercitazione, perciò fu contenta di sapere che quegli oggetti erano nelle mani di persone capaci di utilizzarli. Quando il cannone sparò nuovamente, torno a terra con un balzo.
Il clima era freddo e le mani le tremavano da quando era riuscita a scendere dall'albero, quindi la sua idea non avrebbe dovuto destare sospetti fra coloro che stavano controllando i Giochi in quel momento. Accendere un fuoco al calar della sera sarebbe stato diverso, poiché non molti sarebbero riusciti ad individuare la sua posizione. In quel momento, invece, era come issare una bandiera e mettersi a gridare: "Venite a prendermi!"  Più o meno ciò che aveva in mente.
Non appena il calore l'avvolse, il suo viso si rilassò.
Pensò al vincitore, alla sua casa solitaria perlomeno quanto la sua vita. Agli incubi, i volti di ogni singolo tributo e la consapevolezza di non essere l'eroe tanto decantato, ma solo il ricordo di un ragazzo costretto a lottare.
Quella non era la sua storia.
La voce roca di un tributo, quasi sicuramente del Distretto 1, la informò della sua fine imminente.
«Ragazza, sei stata veramente stupida. Clove, ci pensi tu? Sbrigati.» l'interpellata si rifiutò, estraendo il coltello per passarlo all'altro che le si avvicinò lentamente, come se volesse assaporare ogni singolo istante di paura, perché colei che stava per essere uccisa ne aveva tanta.
Ogni volta che la lama si conficcava nella sua pancia, lei urlava e si chiedeva quanto ancora sarebbe durata quell'agonia. L'unica sua certezza era che non si stava arrendendo, ma consegnando con orgoglio.
Non sarebbe diventata un'assassina.
«Dodici fatti, undici da fare!»
Non sarebbe diventata un'assassina.
 
Qualche secondo prima
L’aria della notte si era fatta più pesante, l’odore di morte e sangue – del suo sangue – ristagnava fra le foglie scure e forse era per quello che non riusciva più a respirare propriamente. Sentiva il cuore picchiare forte nella gabbia toracica, come gli uccellini quando lasciano il nido.
Perché vuole terminare i suoi battiti, lo sai.
Tentò di raddrizzarsi al tronco, non appena sentì qualcuno che arrivava. Ormai il suo respiro ansimante riempiva la notte e creava nuvolette d’aria che si disperdevano dopo poco. Faceva fatica a distinguere tutto ciò che aveva di fronte e per un tempo indefinito si aspettò di vedere Tale che veniva a portarla via, che le diceva di aver capito le ragioni del suo grazie e la abbracciava e metteva una garza sui tagli e le prendeva un braccio per scappare lontano dove c’era il mare e la sabbia. Ma quello, a giudicare dal rumore, era un ragazzo.
La sua testa bionda spuntò dai cespugli. Tentò di mantenere il controllo della situazione, estraendo il coltello dal fodero.
«Io sono Peeta.» Pensò che era una cosa stupida da dire ad una persona che si sta per ammazzare, però lo fece lo stesso perché a Capitol City non sarebbe piaciuto. Lei rispose, ma la sua voce suonò come un gorgoglio indistinto.
Ci riprovò, invano.
«Non ne ho alcun diritto, scusami.» continuò, avvicinando la lama al suo collo.
Sentì il coltello penetrarle nella carne e si chiese come mai l’Arena non si stava piegando alle sue urla e perché quel ragazzo dagli occhi azzurri non capiva che così era troppo doloroso.
Lui premette forte ancora una volta, mentre il sangue caldo gli sporcava le mani e la ragazza si accasciava in una posizione che non avrebbe mai assunto se fosse stata viva.
Il rumore del cannone lo fece sussultare.
 
Due ore dopo
Le foto scorrevano una dopo l’altra, mentre brutti uomini truccati abbassavano il volume con un dito smaltato.
«I primi giorni sono la stessa storia tutti gli anni. Noiosi.»
Qualcuno piangeva nel buio, eppure il silenzio dell’indifferenza copriva ogni grido disperato.
 
 
 
 
 
Nota 1: Sarebbe stato come issare una bandiera e mettersi a gridare: "Venite a prendermi!"
Questo viene direttamente dalle parole di Katniss, a pagina 159 dell'edizione italiana di Hunger Games. Durante “l'accensione” ho ripreso un po' tutta quella parte, sia per chi l’aveva presente che per chi – come me – ha letto il libro decenni fa e non si ricorda proprio più niente. XDD
Nota 2: Quella non era la sua storia.
Citazione tratta da Sucker Punch: This was never my story, it's yours. Now don't screw it up ok?
Il film in sé non era un granché, però la fine mi ha offerto diversi spunti di riflessione. Il fatto che la protagonista lasciasse il posto ad un altro personaggio, inoltre, mi sembrava molto appropriato alla situazione. Forse sono solo io.
Nota 3 : Non lasciarmi andare.
Tratta da: “Never Let Me Go” di Florence + The Machine.
Ho ascoltato questa canzone durante quasi tutta la stesura, perché un'amica mi ha detto che la ispira tantissimo. Ho voluto provare anch'io – nonostante l'avessi già fatto, con una storia che poi ho mollato – e stavolta ha funzionato.
Okay, i miei plagi dovrebbero essere finiti. XD
Nota 4 : La ragazza del Distretto 8 è lei; non è mai apparsa durante gli allenamenti, così come i tributi del Distretto 9 e 10 – da qui la mia idea di un suo possibilerifiuto. Secondo questo sito, il Distretto 8 si occupa anche delle divise dei Pacificatori e le sue fabbriche rendono l'aria molto inquinata. Il titolo è chiaramente dovuto ad un gioco di parole fra la Ragazza di Fuoco e questo tributo che rimane impresso solo e soprattutto per il fuoco che ha acceso.
 

Angolo Autrice:
Dunque, ho scritto questa fanfiction semplicemente perché il personaggio della fantomatica ragazza che accende il fuoco la prima notte, proprio quando non dovrebbe, mi ha sempre affascinata molto e mi ci sono immedesimata. *confessa* Non tutti siamo pronti a combattere come Katniss, non tutti ne abbiamo la forza né le abilità. Mi sono rifiutata di credere che fosse solo una stupida, incapace di capire che se accendi un falò nel bel mezzo della notte, sei morta. Ho voluto rendere il suo personaggio un po' più degno e mi auguro di esserci riuscita. Per la prima volta nella storia non ho paura di essere andata OT, perché qui un vero e proprio personaggio non c'è. XD Oltretutto è il mio primo tentativo nel Fandom, ma spero di riuscire a postare qualcos'altro; gli Hunger Games offrono tantissimi spunti! Credo di aver finito. *ci pensa un attimino* Grazie per la lettura, se vi va recensite. ♥

  
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