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Autore: Night Sins    14/12/2006    8 recensioni
A volte, alcune persone, hanno dei segreti che non possono rivelare a nessuno... nemmeno ai propri amici, nemmeno alla persona che amano.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Greg House, James Wilson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Segreti


"Non ti ho detto tutto di me... Tu non hai un segreto che non puoi confessare a nessuno?"
"Sì...", *Ti amo*.
"Puoi capire dunque... non chiedermi nulla, ti prego."
Gli facevano male quelle parole... gli faceva male vederlo soffrire e non poter far nulla per aiutarlo... gli faceva male che non riuscisse a confidarsi con lui. Poi rifletté un attimo, gli aveva detto di non chiedergli nulla, questo non voleva dire che lui non avrebbe potuto cercare o trovare le informazioni che voleva... doveva solo fermarsi a riflettere, partire dall'inizio: Nicholas Bell, nove anni, il suo attuale paziente... per volere di Wilson. Era stato lui ad insistere perché fosse House ad occuparsi del caso, nonostante l'unico sintomo riscontrato fosse un tumore.

Una settimana prima, nell'ufficio della Cuddy.

"Non posso occuparmene io." disse l'oncologo posando una cartella clinica sulla scrivania dell'amministratrice.
"Come?!" domandò stupita la donna. Era la prima volta, in dieci anni che lavorava in quell'ospedale, che Wilson rifiutava un caso.
"Non posso occuparmi di quel bambino. Non insistere, ti prego."
"Va bene... magari possiamo affidarlo a qualcun'altro: Stevenson o Barnes, oppure..."
"House." propose James, anche se sembrava quasi un imposizione; c'era una nota diversa dalla sua solita voce.
"House? Perché?!"
"Deve occuparsene lui."
"Ma non ha un cancro? E poi sai come è fatto, non accetterà mai." disse la Cuddy.
"Glielo dirò io." rispose risoluto il medico.
"Wilson, sei sicuro che quel bambino abbia bisogno di esser curato dal reparto di Diagnostica invece che da quello di Oncologia?" chiese infine l'amministratrice.
"Sì!"
"Bene, fai come credi." si arrese la donna. Le sembrava che Wilson avesse preso la faccenda sul personale, anche se non sapeva il perché.

Come annunciato, James Wilson cercò il collega per tutto l'edificio prima di trovarlo in una stanza vuota dell'ambulatorio a guardare la televisione e mangiare delle patatine.
"Devi occuparti di un paziente." gli disse porgendogli una cartella clinica.
House alzò annoiato gli occhi su di lui. "La Cuddy ha mandato te, stavolta?"
"Non mi manda la Cuddy, sono io che ti chiedo di farlo." rispose, il braccio sempre teso.
"Non accetto incarichi dalla Cuddy, li dovrei accettare da te?!"
"Devi occuparti di lui." insistette Wilson.
"No."
"Sarò più chiaro, House: voglio che tu ti occupi di questo caso!" disse, Gregory vide una strana luce negli occhi dell'amico, ma non aveva voglia di accettare un caso che sicuramente si sarebbe rivelato di una noia mortale.
"Chi è stavolta? Uno zio o un'altra cugina?" chiese sarcastico, ricordando quando gli aveva mentito per fargli curare una paziente.
"Ti prego!! Non posso pensarci io... devi farlo tu." dicendo l'ultima frase calcò bene sul verbo 'dovere'.
House sbuffò prendendo la cartella dalla mano dell'altro, ancora protesa verso di lui. "Nicholas Bell, nove anni, orfano di padre, la madre è un alcolista ed è attualmente affidato ai servizi sociali dopo che il patrigno ha denunciato, e abbandonato, la moglie. - Wow, già una vita incasinata alla sua età... e qui dice che ha un tumore - sì, proprio sfortunato il piccolo Nick - è del tuo reparto, che c'entro io?"
"Se ti serve un consulto, puoi chiedere a Barnes." disse e si voltò verso la porta.
"Hey, aspetta! Non ho ancora accettato!!" gli urlò dietro House.
"Grazie." rispose soltanto prima di chiudere la porta e tornare a svolgere il proprio lavoro.

E così, Gregory House, si era trovato a dover affrontare quel caso che non aveva niente di anomalo, se non la tremenda sfortuna del giovane paziente.
Aveva fatto fare tutti gli esami possibili e immaginabili ma, a parte il tumore, sarebbe stato pronto a scommettere che fosse sano come un pesce; perfino Foreman, Cameron e Chase erano convinti che non ci fosse nessun tipo di complicazione. Wilson aveva insistito molto con la Cuddy per far rimanere il caso Bell al reparto di Diagnostica, ma non aveva mai voluto parlarne e, ogni volta che House entrava nel discorso, o lo glissava magistralmente o trovava visite e riunioni a cui andare.
Il diagnosta aveva sopportato stoicamente tutto ciò per una settimana, fino a quella mattina; fino a che, cioè, non lo aveva condotto davanti alla stanza del bambino.

"L'operazione è stata fissata per dopodomani." disse House guardando attraverso la parete in cristallo.
"Barnes è un ottimo chirurgo, sono sicuro che andrà tutto bene." mormorò James rivolto verso il collega.
House si voltò di scatto verso l'amico, lo prese con un braccio costringendolo poco gentilmente a voltarsi verso la stanza e così facendo gli fece sbattere il viso contro il vetro. "Voglio sapere perché il miglior oncologo di quest’ospedale non può occuparsi del caso di un bambino di nove anni!", il tono più alto del normale, serio, determinato e innervosito da tutto ciò che in una settimana James Wilson aveva evitato di dirgli, e che ancora non aveva scoperto, ovviamente.
"Non posso!" ripeté solamente cercando di non guardare il bambino.
"Perché?!" domandò ancora House, arrabbiato.
"I suoi occhi..."
Greg guardò prima il bambino e poi Wilson. Il primo aveva gli occhi verdi e sembravano persi in chissà quale mondo, mentre un'assistente sociale gli stava leggendo un libro; il secondo aveva due occhi color nocciola che sembravano quelli di un cane bastonato. Non c'era nessun legame; non che ce ne dovesse esser uno, ma gli era venuto naturale paragonarli.
"Che hanno i suoi occhi?" domandò ancora.
"Lascia perdere..." rispose l'oncologo, aveva riavuto il libero controllo del proprio corpo ed era tornato a dar le spalle alla stanza con il paziente "E cura il bambino. Avrai l'assistenza di tutti i medici del reparto di Oncologia..."
"A parte te." terminò House.
"A parte me."
"E' questo che non riesco a capire!"
"Non ti ho detto tutto di me... Tu non hai un segreto che non puoi confessare a nessuno?" domandò serio, guardandolo negli occhi.
"Sì..." ammise, anche a se stesso.
"Puoi capire dunque... Non chiedermi nulla, ti prego." e con ciò lasciò l'uomo da solo.

*Cosa c'è di così terribile che ti impedisce di occuparti di lui?!* Gregory House se lo domandava di continuo, ed insieme mille altri pensieri gli affollavano la mente. Era riuscito ad allontanare tutte le persone che gli stavano accanto; tutte, tranne lui. Forse non voleva allontanarlo, forse era l'unica persone di cui non dispiaceva la compagnia... perché aveva avuto bisogno di lui... perché aveva bisogno di lui.
Dannazione! Non riusciva a sopportare l'idea che ci potesse esser qualcosa dell'oncologo che non sapeva... gli dava noia, da morire... Curiosità?!
Sì, era curioso! Non sopportava di vedere i suoi occhi velati di malinconia e tristezza, come gli era capitato pochi minuti prima, e non poter far nulla per farlo tornare a sorridere.
Era strano che non volesse occuparsi di un paziente... che cosa aveva di particolare quel bambino?

Rimase tutto il giorno nel suo ufficio a pensarci, rileggendo tutti i dati, l'anamnesi e tutte le analisi che gli erano state fatte. I risultati erano nella norma delle sue condizioni. Per scrupolo aveva ordinato una seconda serie di accertamenti; sapeva che ci doveva esser qualcosa se Wilson insisteva così tanto, ma non sapendo cosa o dove cercare era praticamente impossibile riuscire ad individuare cosa non andasse.

"House..." disse Cameron un po' titubante, entrando nell'ufficio.
L'uomo alzò lo sguardo su di lei, vide che aveva i risultati delle nuove analisi, ma gli bastò guardarla per capire che non c'era niente di nuovo.
"Le analisi hanno prodotto i soliti risultati, ma... ci stavo pensando mentre ero in laboratorio con Chase e..."
"Vai avanti, Cameron, non importa tutta questa prefazione!" l'interruppe il diagnosta e con la mano le fece cenno di continuare.
"Fin'ora ci siamo preoccupati di guardare solo il suo corpo, e se invece fosse un fatto psicologico?" propose la dottoressa "Con tutto quello che ha passato, non sarebbe poi strano..."
"Cameron, sono tre anni che è seguito incessantemente da psicologi e assistenti sociali; se ci fosse qualcosa non pensi che se ne sarebbero accorti prima di Wil..." House si bloccò all'improvviso e ricontrollò la cartella di Nicholas. Il primo dottore che l'aveva visitato era stato Wilson, ma la compilazione era stata abbastanza frettolosa, e poi era andato dalla Cuddy rifiutando il caso. "I suoi occhi..."
"Tutti mentono, anche i bambini... e tutti sbagliano, compresi gli psicologi..." mormorò House alzandosi e, preso il suo bastone, avviandosi verso la porta.
Passò davanti all'ufficio del collega andando avanti, sapeva che non gli avrebbe detto nulla se non fosse stato lui a trovare il problema, il suo 'segreto inconfessabile'.


La stanza era buia, le persiane chiuse impedivano l'ingresso anche ai deboli raggi della luna. Era nel suo letto, nella sua camera, a casa sua, ma nonostante questo era a disagio, agitato, teso e non riusciva a dormire.
Si guardò intorno, un insieme di ombre scure accanto ad altre ancora più nere; non aveva paura del buio, sapeva che esistevano cose più cattive, pur visibili. Si voltò alla sua sinistra, accanto a sé sapeva trovarsi il letto dove il suo fratellino di soli cinque anni dormiva tranquillamente. Lo invidiava, avrebbe voluto anche lui riuscire a dormire, ignorando tutto ciò che stava accadendo nella stanza accanto.
Ma non era così.
Era ben cosciente dell'orrore che avveniva in quella camera quando sua madre, come quella sera, non era a casa; di ciò che l'uomo che aveva contribuito alla loro nascita era capace di fare al maggiore dei suoi figli. Lui ne sentiva i gemiti, i lamenti provocati dal dolore, dalla rabbia, dalla frustrazione, dalla disarmante consapevolezza di non potersi ribellare, di non riuscire ad affrontare il genitore. Ma lui sapeva che il fratello non si ribellava per proteggerli; perché finché quel mostro che continuavano a chiamare padre avrebbe avuto lui per sfogarsi, non se la sarebbe ripresa con i due più piccoli.
E così era pronto ad offrirsi quasi volontariamente per il bene dei suoi fratellini. Ma lui sapeva quel che passava, ed ogni volta non riusciva a dormire; nella sua mente i lamenti che venivano amplificati dal silenzio della notte erano insostenibili e calde lacrime scendevano dalle guance di quel piccolo uomo di soli otto anni che troppo presto aveva dovuto imparare che la vita non era tutta rose e fiori e che non sempre le persone che dovrebbero volerci bene ce ne volevano sul serio.
Si rigirò nel letto, tremante e devastato dal vuoto che solo un pianto a dirotto lascia dietro sé, come se dar le spalle alla 'camera dell'inferno' potesse allontanarlo da quel luogo e non fargli sentire il dolore che provava dentro.
Non sapeva ogni volta quanto fosse il tempo realmente passato in quello stato, ogni secondo sembrava durare un'eternità e quando l'uomo lasciava la stanza il pianto continuava ancora; alla fine il sonno arrivava, ma sembrava non essere in grado di rigenerare completamente l'animo ferito, ogni volta era come se un pezzo di quell'anima si staccasse e non trovasse il modo di ricongiungersi al suo corpo.
Era così, sempre, e sembrava destinato a non finire mai, per l'eternità.




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