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Autore: Alkimia    27/05/2012    7 recensioni
[CONCLUSA]
Ha calcolato ogni cosa, a questo gli è servito quel suo lungo esilio. Per ogni percorso possibile ha trovato almeno due o tre vie di fuga. Aveva messo in conto anche l'eventualità di venire catturato nel caso in cui il suo piano con i Chitauri fosse fallito.
Mentre nella sua mente si dipana una mappa da seguire, Loki sa che non è più un prigioniero. È solo qualcuno in attesa di un'occasione, come lo è stato per il resto della sua vita.

Loki sfugge alla sua prigionia e torna sulla Terra per recuperare un oggetto di cui ha bisogno per riacquistare potere; potrebbe rubarlo o prenderlo con la forza ma quando lo trova, in quella singolare città che è Venezia, scopre che la situazione non è così facilmente risolvibile. Intanto, dal pianeta dei Chitauri arriva la vendetta di Thanos per la mancata promessa della consegna del Tesseract e la cosa finirà per coinvolgere anche i Vendicatori...
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A waltz for shadows and stars' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Capitolo Primo


Nell'androne del palazzo c'è un grosso portaombrelli di rame a forma di anfora, sembra molto vecchio e Nadia ha una gran voglia di prenderlo a calci.
Si ferma sull'ultimo scalino, fa grandi respiri. L'aria sa di pietra vecchia e gerani.
Nadia detesta l'odore dei gerani. E detesta quei grandi palazzi antichi e i tizi panciuti in giacca e cravatta che ci vivono dentro, con il loro olezzo di gel per capelli e dopobarba costoso, con quel loro mettere in mostra oggetti di antiquariato e argenteria cesellata. E detesta se stessa per essersi messa in ghingheri con trucco, tacchi alti e tutto il resto e aver indossato i suoi vestiti migliori, e il girocollo di sua madre, e il bracciale che le aveva dato sua sorella come portafortuna. In un moto di stizza afferra il bracciale e cerca di tirarlo via, ma quel maledetto affare se ne resta incollato al polso.
«Vaffanculo!».
Al diavolo il bracciale, al diavolo i vestiti, al diavolo tutto.
Si toglie le scarpe, il pavimento di marmo levigato dal tempo è gelido contro le piante dei piedi e il sottile tessuto dei collant non è un granché come protezione.
Apre il pesante portone, una lama di luce e pulviscolo fende la penombra e le ferisce gli occhi. Lei esce e attraversa a grandi passi i portici di Piazza San Marco.
Le vetrine delle gioiellerie riflettono l'immagine di una giovane donna dall'aria furiosa, con i capelli corti e biondi, che cammina scalza in uno dei luoghi più belli e famosi del mondo.
Nessuno tra gli sciami di turisti e venditori di souvenir fa caso a lei.
Nadia continua a camminare, rimuginando sul giorno in cui una sua foto varrà migliaia di euro e quell'idiota del gallerista piangerà per essersi rifiutato di esporre i suoi lavori.
Sotto la pianta dei piedi i collant devono essersi strappati, ma la ragazza non ci presta attenzione. Quello a cui fa caso invece è il vento insolitamente gelido che ora sta spazzando la piazza e che fischia forte nelle sue orecchie, spingendole i capelli sugli occhi.
Nadia si guarda attorno, non ci sono uccelli in cielo, il vento è davvero troppo forte e non soffiava in quel modo quando era entrata nel palazzo, né faceva così freddo fino a mezz'ora prima.
L'ombra del campanile di San Marco sbiadisce man mano che le nuvole si spostano e coprono il sole che rimane solo un pallido cerchio luminescente oltre una coltre di grigio, una sfera che somiglia alla pietra sul bracciale che Nadia ha al polso. Sul molo davanti alla Loggia delle Signorie i traghetti oscillano sollevando schizzi di acqua salmastra, emettendo cigolii lamentosi. Sotto quel cielo plumbeo la Laguna è un foglio di carta stagnola sgualcita.
La ragazza deglutisce, sente una strana tensione in fondo allo stomaco, come di un brutto presentimento. Scuote la testa, solleva il colletto del soprabito e continua a camminare.
Venezia sarà pure una delle città più belle del mondo, ma in quel posto non succede mai niente. Arrivano i turisti, se ne vanno, al loro posto ne arrivano altri. La marea sia abbassa, poi sale, poi scende – tanto per dare agli osservatori ambientali qualcosa con cui riempire gli ultimi minuti del Tg regionale... e non succede mai niente. E il gallerista l'ha invitata a prendere un caffè solo per dirle che non era interessato a esporre le sue foto.
Man mano che Nadia si addentra nell'intricato labirinto di stradine e di ponti, il fischio del vento si fa meno acuto. Man mano che la rabbia inizia a sbollire cresce il dolore ai piedi e la consapevolezza che quella di togliersi le scarpe è stata un'idea davvero stupida. A conti fatti, sembra che ultimamente ogni sua idea sia stupida.
«D'accordo...». La ragazza sbuffa, si siede sui gradini di un ponte e si rimette le scarpe chiedendosi se sia più folle camminare per Venezia a piedi nudi o girarci in tacchi alti.
La strada fino a San Simeon le sembra incredibilmente lunga. 
L'acqua mossa dal vento scroscia nei canali come un fiume color piombo, urta contro gli argini con tonfi sordi e solleva schizzi gelidi.
Nadia non vede l'ora di poter dimenticare quella giornataccia. Ma sono solo le undici del mattino.
Si ricorda di sfuggita di sua sorella che le ha chiesto di comprarle il suo mensile di cinema, quindi si ferma a un'edicola. Sulla copertina c'è Christian Bale con il costume di Batman, il titolo annuncia anteprime sul nuovo film di Christopher Nolan; la ragazza guarda la foto e pensa che più che un supereroe le farebbe comodo qualcuno che facesse piazza pulita di tutta quella gente odiosa e inutile.
Si sente uno schifo. La notte prima ha sognato che il mare sommergeva l'albergo dei suoi genitori e lei ne rideva. «Così non ci resterò intrappolata per sempre» diceva, e non era la solita Nadia, era una ragazza crudele e priva di sentimenti. E adesso quel pensiero le si agita nella testa, perché da bambina, alle volte aveva desiderato sul serio che l'albergo sparisse, che le circostanze fossero diverse. Forse è davvero crudele e priva di sentimenti, pensa stringendo sottobraccio la rivista per sua sorella, perché tutto quello a cui ha pensato negli ultimi anni è non rimanere incastrata a gestire l'attività di famiglia – e non le è nemmeno riuscito troppo bene.
Da lontano, le persone sulle scale della stazione sembrano formiche attorno a una meringa.
Nadia costeggia la chiesa di San Simeon con il naso all'insù, scrutando quel cielo spettrale. Sembra che sia in arrivo un temporale, ma non si sentono tuoni, ci sono solo nuvole e freddo. Un freddo pungente, praticamente una vera e propria cappa di gelo.
Almeno gli osservatori dell'ARPA potranno discutere di qualcosa di diverso dall'alta marea per un paio di giorni.     

L'albergo San Simeon, in un vicolo alle spalle della chiesa, non è di certo il posto più chic di Venezia, ma la famiglia Berton se ne occupa da decenni e lo fa anche con un certo stile, con quella buona lena e quella naturalezza propria di chi ama il mestiere che svolge.
Nadia fissa l'insegna ciondolare sopra il portone principale e pensa che questo vale per i suoi genitori, ma non per lei. Lei non vuole fare l'albergatrice, quel posto è un'eredità che non desidera ricevere. Ma per adesso, che alternative ha?
Fa il giro dell'edificio ed entra da una porta sul retro, nella vana speranza che nessuno la noti. Sta già pensando di sgusciare verso le scale che portano al piano più basso, dove c'è l'appartamento della sua famiglia, separato dalle stanze riservate agli ospiti del piccolo hotel. I collant sono irrimediabilmente strappati all'estremità ma si toglie comunque le scarpe, per non fare rumore; la sensazione della moquette contro le piante dei piedi è piacevole.
È Casanova a tradirla, il suo gatto. Lancia un acuto miagolio di benvenuto che attira l'attenzione di sua madre e di sua sorella Sara.
Casanova ha un setoso pelo grigio, morbido e lucido, e due occhi color ambra. Quando Nadia lo trovò nel negozio abbandonato, l'anno prima, con una zampa rotta e gli occhioni spaventati, le sembrò la cosa più adorabile del mondo, ora vorrebbe immergerlo in un catino di acqua gelata, ma si china comunque a prenderlo in braccio e lo accarezza sotto il mento. È un peso caldo e confortante, non abbastanza per riappacificarsi con il mondo, ma di sicuro un buon punto di partenza, almeno fino a quando non solleva lo sguardo su sua madre e su Sara che le bloccano il passaggio verso le scale, immobili l'una accanto all'altra, così somiglianti tra loro da sembrare due matrioske, con un sorriso da un orecchio all'altro.
«Allora?».
Nadia affonda un po' di più le mani nel pelo di Casanova.
«Allora niente» dice, cercando di non apparire troppo amareggiata – non che serva a molto, probabilmente ha la faccia verde in questo momento.
«Come niente?» esclama sua madre, facendo una passo verso di lei.
Nadia le sguscia di fianco, guadagnando le scale. Si volta, con un piede già sul primo gradino.
«Niente foto da esporre, secondo il gallerista. Quindi niente di cui discutere» conclude, cercando di mettere su un sorriso che alleggerisca il tono delle sue parole.
«Nadia, asp...», la voce di Sara le arriva lontanissima, come se venisse da un'altra dimensione.
La ragazza chiude la porta della propria camera alle sue spalle, si dirige verso il letto e ci si butta di schiena, a peso morto.
Casanova incespica sul copriletto di raso azzurro, ma riesce a raggiungere la sua padrona e si acciambella accanto a lei. È quasi miracoloso come la curva della schiena del gatto si incastri in quella del fianco della ragazza.

***

Le dieci pietre di Borr, il padre di Odino. Loki ne rammenta perfettamente la storia, una delle tante che il re di Asgard raccontava a lui e a Thor quando erano piccoli.
In molti, tra la sua gente, sono convinti che si tratti solo di una leggenda, ma lui ha avuto tempo per apprendere la verità dietro ogni favola che i padri di Asgard racconta ai propri figli. Ha letto molti libri e conosce la vera storia dietro ogni mito. Sa che le pietre furono donate da Borr ai dieci cavalieri più valorosi del mondo eterno, sa che uno di loro, durante una spedizione su Midgard, si innamorò di una mortale umana e rimase nel suo mondo tenendo con sé la pietra. Sa che quella pietra si trova ancora sulla Terra, perché era una cifra dei suoi calcoli prima di contattare il pianeta dei Chitauri, e che è un forte concentrato di potere magico, quello di cui ha bisogno per riprendersi dalla battaglia – dalla sconfitta, pensa amaramente, e dalla rocambolesca fuga da Asgard dove volevano tenerlo rinchiuso in attesa che il Padre degli dei formulasse un qualche disegno per decidere della sua sorte...
Sa anche che la pietra può funzionare solo nelle mani di un asgardiano, per questo gli umani, in tutti quei secoli non si sono accorti del suo straordinario potere. E sa che l'energia che ha usato per manifestarsi in quel luogo e attivare la pietra, così da poterla rintracciare seguendo le emanazioni del suo potere, è l'ultima che gli è rimasta. Trovare quell'oggetto ora è una necessità.
Non avrebbe mai immaginato di potersi sentire così distrutto e privo di forze. E il luogo in cui si trova è assolutamente assurdo: una città sull'acqua, giusto gli umani potevano inventarsi una cosa simile. Giusto quei patetici esseri che amano le cose fragili perché adorano crogiolarsi nel timore di perderle e provano piacere a struggersi quando ciò accade.
Una città sull'acqua. Che cosa stupida! E non vuole nemmeno immaginare come abbia fatto la pietra a finire lì, gli sembra già abbastanza miracoloso che non sia andata persa in tutto quel tempo.
Ma ormai non importa, ormai sa che l'oggetto è vicino, lo sente, è da qualche parte, alle spalle di quel tempio con la croce.
Loki si ferma al centro del ponte, appoggiandosi al parapetto di marmo. Il vento e il freddo che hanno preannunciato il suo arrivo tengono ancora in ostaggio quella città... Venezia, il nome gli sembra antico e gli suona meglio di quelli delle altre città di Midgard in cui è stato, e guardando il sole tramontare riconosce che forse quel posto può davvero apparire molto bello agli occhi dei mortali. Lui di tutta quella bellezza decisamente non sa che farsene.
Attraversa il ponte, dio in mezzo agli uomini, gruppetti di persone che gli passano accanto ignare parlando tante lingue diverse.
La pietra è vicinissima. Negli ultimi metri che separano Loki dalla sua meta, lui pensa a come fare per prenderla... un furto, qualche omicidio, sì, ma con molta molta discrezione. Non ha armi ed è stremato, non può affrontare le forze dell'ordine della Terra – anche se dubita che in un luogo senza mezzi di locomozione su ruote, le forze dell'ordine siano particolarmente tempestive.
Ora sa che la pietra è dietro quella porta. Sopra la porta c'è un'insegna che cigola, la scritta dice: Hotel San Simeon.  

***

«Abbiamo dormito per tutto il pomeriggio?». Nadia sposta lo sguardo tra la finestra della sua camera e gli occhi gialli di Casanova che la fissano con una malizia tutta felina.
Sì, ha dormito fino a sera e probabilmente i suoi non ne faranno un dramma, tendono a essere sempre molto protettivi con lei quando rimedia un qualche fallimento: il concorso per quel posto di lavoro a Mestre; la rottura del fidanzamento con Fabio; la non ammissione a quella scuola di fotografia di Padova... «Non ti preoccupare, Nadia, hai noi e hai questo posto. Certe cose non cambieranno mai». Già. La sua vita sarebbe molto più semplice se riuscisse a convincersene, invece di continuare ad agitarsi per un cambiamento che non avverrà mai. Ventisei anni di onesta esistenza a inanellare insuccessi come perle in una collana potrebbero anche bastare.
La ragazza fa un sospiro rassegnato, si ripete di smetterla di fare la derelitta e si alza. Cerca dei vestiti puliti – ordinati ma anonimi, come raccomanda sempre sua madre – e va verso il bagno. Apre il rubinetto della doccia e mentre aspetta che l'acqua diventi abbastanza calda si toglie quella roba assurda che ha addosso. Via la giacca, via la gonna, via la camicetta color crema; lancia tutto nel cesto dei panni sporchi, si sfila gli orecchini e il girocollo, tira via il bracciale che le ha regalato Sara. Il bracciale non vuole saperne di togliersi dal suo polso.
Nadia fissa perplessa il ninnolo, è uno di quei bracciali rigidi d'argento, molto vecchio, con dei simboli simili a delle rune e con al centro una pietra bianca dai riflessi colorati simile a un'opale. Sara glielo ha regalato alcuni mesi prima dicendole che è un portafortuna, lo ha comprato in un negozio a Porto Marghera e Nadia non lo aveva mai messo prima di quella mattina.
Il vapore sta facendo appannare lo specchio. La ragazza guarda il suo riflesso che è solo una macchia contro lo sfondo bianco delle mattonelle.
«Nadia, sei viva?». Sara bussa rumorosamente alla porta.
«No, c'è il mio fantasma qui dentro».
D'accordo, penserà poi a sfilarsi il bracciale. Si butta sotto il getto caldo della doccia, pensa che può continuare a tenere duro ancora per un po'... forse.

Sua madre ha indossato un pullover di filo color grigio fumo, si sta strofinando le braccia. Nadia sente un calore appiccicoso nell'aria e si arrotola fino al gomito le maniche della camicia. 
«Brrr, ho acceso i riscaldamenti!» esclama la signora Angela Berton, appena vede arrivare le sue due figlie. Finge di non vedere la maglia di Sara con sopra stampato un disegno di Victoria Frances, perché evidentemente non ha voglia di discutere. E finge di non sapere che l'altra figlia è di pessimo umore, perché in quella casa è così che vanno le cose: non c'è tempo per il cattivo umore, altrimenti come si fa a essere gentili e sorridenti con gli ospiti dell'hotel?
«Ah, c'è qualcosa che non va con la rete internet» dice la donna guardando Nadia.
«Ora do un'occhiata, mamma».
La ragazza si sistema dietro al bancone della hall e comincia ad armeggiare con il mouse; di sicuro sua madre ha fatto confusione con il pc, da quando hanno sostituito il computer, con il sistema operativo nuovo la signora Berton non riesce a raccapezzarcisi. La ragazza sente distrattamente sua madre impartire ordini a Sara, qualcosa che ha a che fare con il controllo di vecchie fatture. Poi solleva lo sguardo sulla saletta davanti a sé, un paio di signori se ne stanno seduti a leggere il giornale, i coniugi Monteverdi hanno monopolizzato la televisione sintonizzandola su una soap-opera – quei due anziani signori sono lì da un paio di giorni, per il loro quarantacinquesimo anniversario di matrimonio, stanno facendo una specie di remake del loro viaggio di nozze e hanno ancora l'abitudine di lasciare le mance. A Nadia stanno simpatici.
La ragazza sta fissando con un mezzo sorriso i due anziani che complottano su quali potrebbero essere i futuri sviluppi della soap, approfittando dell'intervallo pubblicitario, quando vede con la coda dell'occhio la porta di ingresso che si apre di schianto.
Una folata di vento gelido attraversa la stanza e Nadia si ritrova a fissare a metà tra il perplesso e l'interdetto il tizio che ora sta attraversando la hall. Un uomo giovane dall'aria torva, vestito in modo eccessivamente elegante, che cammina come se da un momento all'altro potesse estrarre una granata dalla tasca del soprabito di alta sartoria.
Naturalmente quel tipo non estrarrà nessuna granata, e di certo è stato il vento a far aprire la porta in quel modo tanto brusco. Nadia ne è sicura. Più o meno...
«Buona sera» trilla sua madre in direzione dello sconosciuto. «Possiamo fare qualcosa per lei?».
È uno sguardo assassino quello con cui l'uomo – più un ragazzo che un uomo – sta guardando sua madre? Nadia non sa perché le sta venendo la pelle d'oca, ma vorrebbe tanto che il tizio dicesse di essersi sbagliato, salutasse e uscisse per tornarsene da dove è venuto. Ma lui non dice niente, nemmeno in risposta alla domanda di Angela. Forse è straniero, forse non capisce l'italiano, ma perché accidenti non parla?
Come se fosse l'unico essere vivente lì dentro, lo sconosciuto si prende un lungo momento per guardarsi intorno, come se stesse cercando di riconoscere un posto o una persona. A Nadia sembra più un segugio che fiuta una preda.
«Sta... ehm... cercando qualcuno?», Nadia prova a parlare, ma sente uno strano senso di disagio. Forse è solo quell'insolita tinta di azzurro molto chiaro che fa sembrare gli occhi del ragazzo così gelidi. Però quegli occhi si puntano su di lei all'improvviso e in mezzo a quell'azzurro ghiaccio si accende come una scintilla di qualcosa che sembra rabbia. Poi nient'altro, lo sconosciuto abbassa le palpebre, fa un leggero sospiro, come di qualcuno che tenta di ristabilire un certo contegno e quando riapre gli occhi sembra più... normale. Cioè, non sembra che voglia far saltare tutto in aria, ma agli occhi di Nadia continua a non avere un aspetto particolarmente rassicurante.
«Sì» dice di colpo. «Mi servirebbe una stanza, qui».
Parla in italiano, con una marcata inflessione straniera che la ragazza non riesce a identificare. Ad ogni modo, contro ogni regola della buona educazione, lei rimane impalata a fissarlo. Non ha bagagli, tra poco è sera, ha intenzione di dormire in giacca e cravatta?
«Nadia!» sua madre la richiama a denti stretti, lei si fa da parte e lascia che l'uomo si avvicini al bancone della reception.
Angela prende i documenti che lo sconosciuto ha estratto dalla tasca e compila il modulo elettronico.
«Quanto tempo intende fermarsi?» domanda.
«Il tempo che occorre».
La madre di Nadia non si scompone, ne è passata di gente strana sotto quel tetto e il tizio non è nemmeno lontanamente vicino a sfiorare la vetta della hit-parade degli svitati che il San Simeon  ha avuto l'onore di ospitare. Ma di solito gli svitati hanno la loro buona dose di simpatia e di attrattiva, questo più che altro sembra la scena di perfetto silenzio in un film dell'orrore, quando la guardi e sai che da un momento all'altro ci sarà il rumore improvviso che ti farà sobbalzare. Lo sai, eppure quando arriva ti prende comunque un colpo.
«Nadia» la voce di sua madre la strappa a quelle riflessioni idiote. «Accompagna di sopra il signore».
Nadia vorrebbe obiettare che c'è del personale appositamente assunto per accompagnare la gente alle proprie camere, portare bagagli e altre cose del genere, e lei quello lì non lo accompagnerebbe nemmeno alla poltrona vicino ai coniugi Monteverdi. Ma la professionalità le impone di non mettersi a discutere con sua madre in quel momento e in quel posto, quindi si sforza di sorridere allo sconosciuto – promettendosi che più tardi andrà nel database a controllare chi è e da dove viene, e gli fa cenno di seguirlo.
La camera assegnata al nuovo ospite è la numero 7, al secondo piano. Nadia sale le scale tappezzate di moquette blu imponendosi di mantenere un'andatura lenta e tranquilla, ma dietro di sé sente lo sguardo dello sconosciuto trapassarle la schiena.
Finalmente arrivano sul pianerottolo, davanti alla porta lucida di ciliegio.
Nadia è costretta a voltarsi e a guardare il ragazzo. È più alto di lei e adesso le sembra quasi un pesce fuor d'acqua.
«La sua camera è questa» gli dice, aprendo la porta per mostrargli la stanza. Ma lui non guarda la stanza, guarda lei con fin troppa insistenza.
«Tutto bene, signor... ehm, potrebbe ripetermi il suo nome?».
Lui sembra non averla sentita, la sorpassa ed entra nella stanza. Solo in quel momento la ragazza si accorge di quanto sia pallido e di quanto siano marcate le occhiaie sotto le palpebre. Sara ne impazzirebbe con la sua mania per i vampiri.
«Il mio nome, perché? Hai intenzione di chiamarmi spesso?». Lo dice senza particolare ironia e Nadia non riesce a capire se ci stia provando, in modo piuttosto maldestro e sgradevole tra l'altro, o se faccia tutto parte della sua bizzarria.
«No di certo» risponde gelida. «Buona serata».
Si volta e si avvia verso le scale. Lo sa che dall'uscio della stanza numero 7 quel tizio la sta ancora guardando, se lo sente, ma mentre imbocca i gradini le arriva il rumore ovattato della porta della camera che si chiude. 
 
***

La voce sembra essere fatta di buio e pietra, sembra spegnere le stelle. È una voce crudele che soffia come il vento in mezzo al deserto e fa quasi eco nella desolazione rocciosa di quell'universo lontano.
«Una promessa mantenuta merita una ricompensa. Una promessa tradita esige un castigo» sentenzia la voce.
Il capo dei Chitauri freme e quasi non osa guardare l'imponente figura di Thanos stagliarsi contro il nero del cielo. Un frammento di oscurità contro l'oscurità.
«Ebbene?» chiede, temendo che la domanda giunga troppo irritante e superflua.
La figura incappucciata china appena il capo a indicare un grosso oggetto cilindrico, tra le pareti di vetro opaco si agitano come minuscoli serpenti dei fili di fumo argenteo.
Il capo dei Chitauri afferra l'oggetto, sembra pesante a vedersi, e invece il suo peso è quasi inconsistente. Guardando più da vicino il contenuto del cilindro, sente un superstizioso terrore fargli eco nella mente.
«Possono viaggiare in qualsiasi universo. Possono viaggiare ovunque» afferma Thanos con un crudele compiacimento nella voce. «Voglio Loki, lo voglio vivo».


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Venezia. Loki. The Avengers. Venezia...
Sì, Venezia, tanto per essere... ehm... originali.

La storia delle dieci pietre magiche è stata inventata dalla sottoscritta. Però Borr è davvero il nome del padre di Odino - Wikipedia docet.
In quanto alle questioni linguistiche, ho supposto che gli dei di Asgard potessero parlare “automaticamente” la lingua del luogo in cui si manifestano (dato che Thor piove dal cielo nel New Mexico e parla la stessa lingua delle persone che incontra... e Loki spunta dal varco aperto dal Tesseract e non ci sono problemi di comprensione... e così via...), quindi ho pensato che potesse essere plausibile che Loki in Italia riesca a parlare perfettamente l'italiano anche se con un'inflessione particolare (poi, per il futuro, va da sé che gli albergatori di un'importante meta turistica sappiano parlare bene l'inglese).


 
   
 
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