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Autore: xCyanide    27/05/2012    1 recensioni
 I suoi unici compagni erano i colori, con quelli poteva fare quello che voleva: crearsi un mondo immaginario dove tutto andava bene, dopotutto, poteva aiutare a non pensare a sé stesso e a quello che gli avevano fatto.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gerard Way
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il suo problema più grande era stato fidarsi. Non avrebbe dovuto nemmeno lontanamente credere che non l’avrebbero tradito in qualche modo.

Lo avevano lasciato da solo, tutti, due anni e mezzo chiuso nella sua camera a piangere e a desiderare solo di non essere nato affatto.

I suoi unici compagni erano i colori, con quelli poteva fare quello che voleva: crearsi un mondo immaginario dove tutto andava bene, dopotutto, poteva aiutare a non pensare a sé stesso e a quello che gli avevano fatto.

Aveva smesso, poi, di fidarsi delle persone, compresi i suoi stesse parenti. Credeva che tutti, prima o poi, se ne sarebbero andati, lasciandolo solo.

Gli avevano detto che gli amici si vedono nel momento del bisogno, ma lui non era d’accordo. Gli amici si vedono sempre, anche quando non hai niente di cui lamentarti, perché sono tutti capaci di tirare fuori un po’ di sana ipocrisia e un sorriso falso e fingere di aiutarti.

Lui non voleva persone così intorno. Lui voleva qualcuno che sapesse quando aveva bisogno di un abbraccio o quando invece di una serata davanti a un film con un pacco di pop corn. Non aveva bisogno di persone che gli ripetessero sempre, all’infinito, che bel ragazzo che era o lo venerassero per qualsiasi cosa. Anche perché in lui non c’era niente da venerare. Si sentiva inutile, maledettamente vuoto. Quella che sua madre scambiava per vergogna era in realtà una forte inadeguatezza, paura di non essere accettato, che lo portava molto spesso a chiudersi nel suo bel mondo, tutto solo, con la sua amata musica.

Lui amava Frank, il suo strano vicino di casa, con i capelli bicolore e i piercing sul volto. Ma non osava dirlo a nessuno. Lo avrebbero mangiato vivo, lentamente, aspettando di farlo dissanguare. Avrebbe sofferto di nuovo e non avrebbe sopportato un’altra caduta, non sarebbe sopravvissuto in quel caso.

Non credeva nella positività, aveva la certezza che tutto prima o poi finisse, di solito, male. Niente andava come programmato, c’era come qualcuno assoldato per rovinare tutto, sempre.

La sua vita era rovinata. Aveva diciassette anni e già si sentiva uno straccio, già era stanco di alzarsi la mattina e piangere perché aveva davanti un altro fottuto giorno. E niente sarebbe cambiato, come il giorno prima o quello prima, sarebbe andato a scuola e si sarebbe preso gli insulti, sarebbe tornato a casa e avrebbe ritrovato sua madre a prendere un tè con una delle sue amiche a parlare di come la vita, se lo desideri davvero, possa migliorare. Si era stufato di quei discorsi, niente sarebbe migliorato, se qualcosa fosse cambiato, l’avrebbe fatto solo in peggio.

Nella sua stanza, poi, si rendeva conto di quanto il tempo potesse essere relativo. Per tutti diciassette anni potevano essere niente in confronto a una vita intera, per lui erano come mille anni passati cercando di non morire. Viverli soffrendo, con le cicatrici sulle braccia pronte a ricordarglielo, li faceva sembrare molto più lunghi.

Sapeva di essere masochista, ma credeva che l’unico modo per sviare i pensieri dal male psicologico fosse il male fisico, era come se li confrontasse per capire quali dei due facesse più male, e sicuramente vinceva quello psicologico. Gli fotteva la testa, creando situazioni non reali in cui si potessi rispecchiare davvero e rendersi conto di quanto in realtà fosse in equilibrio precario tra morte e vita. In tanti avevano cercato di capire cosa fossero tutti i suoi tic nervosi, cercando di scoprire perché contasse qualsiasi cosa avesse intorno o perché dovesse tracciarsi sempre linee immaginarie sulle mani, dividendo quella sinistra in quattro parti e quella destra in tre. Era solo la sua mente, lui nemmeno riusciva a spiegarlo, ma era come se volesse controllare tutto ciò che aveva intorno, anche sapendo di non poterlo fare davvero. E ciò lo faceva stare male, la rabbia e il nervosismo lo stavano sciupando lentamente e il suo dolore psicologico non sarebbe finito mai.

Cercava di scaricarlo riempiendo tele di desideri di morte e violenza, proprio per buttarli fuori dal suo piccolo mondo interiore, in modo che non si inquinasse anche quello di cose che gli avrebbero fatto tremendamente male. E piangeva, piangeva tutti i pomeriggi, cercando di non farsi sentire dalle persone in casa, mettendo la musica forse un po’ troppo alta.

Quello che mostrava, il Gerard sorridente e disponibile, era solo una scomoda maschera che lo aiutava a non farsi etichettare come il depresso che viveva nella sua cantina. Il vero Gerard Way era tutt’altro. Era una persona che non avrebbe mai fatto niente nella vita e ne era consapevole. Sapeva che avrebbe continuato a fare l’artista morto di fame a vita, senza che nessuno si accorgesse di lui. Ma lui ci provava lo stesso, lui si sentiva bene quando aveva un pennello in mano, quando poteva tirare fuori quello che era veramente, senza che nessuno lo intralciasse.

Era proprio quello il problema: lui non amava le persone, perché, se le avesse amate, automaticamente loro si sarebbero considerate sue amiche e avrebbe pensato di avere il diritto di disturbarlo tutte le volte che volevano.
 Loro, con i loro sorrisi, che cercavano di aiutarlo. Lui, che più loro ci provavano, più si grattava via la pelle del polso. Nessuno avrebbe potuto aiutarlo, nessuno.

Sua madre piangeva, non faceva altro che quello. Prima gli chiedeva cosa pensava della vita, poi, appena lui rispondeva, lei scoppiava in singhiozzi pesanti e lo faceva passare per insensibile solo perché non la pensava come lei.

Ma lui non era insensibile, forse era proprio la sua troppa emotività che lo aveva ridotto a essere lo zombie di quello che era. O forse erano le persone che non avevano un minimo di tatto nei suoi confronti. Lui era l’asociale, il disadattato, quello che piangeva sempre, nonostante nessuno gli avesse mai chiesto di uscire per prendere aria. Era come una bambola nelle mani della società: nessuno lo voleva come amico, ergo era un asociale. Così funzionava, se andavi fuori dai canoni eri finito, potevi anche chiudere tranquillamente gli occhi e aspettare che le pugnalate ti arrivassero direttamente al cuore.

Ma, come detto, lui era inutile, non poteva fare niente per aiutarsi se non stare chiuso nella sua camera a vivere nel suo piccolo mondo. Lì nessuno ce l’aveva con lui, nessuno lo giudicava o lo guardava male. Lì poteva andare in giro senza sentirsi inadeguato, poteva stare con la persona che amava senza problemi.

Lì, nel suo mondo, non esisteva la razza umana. Lì,
non esisteva nemmeno lui.


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xCyanide’s Corner
Okay, scusate per questa OS ma avevo un bisogno impellente di sfogarmi. Sappiate che c’è molta autobiografia qui, forse la maggior parte della FF è la descrizione di quello che ho in testa.
Una bella recensione non guasta mai, sapevatelo (?)
Alla prossima, un bacio :*

  
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