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Autore: minerva74    30/05/2012    5 recensioni
"Hamish. John Hamish Watson. If' you 're thinkig for a baby 's name."
(A scandal in Belgravia)
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Irene Adler
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Agosto 2015
 
La valigia era pronta. Biglietti , chiavi e documenti nella tasca.
Sherlock si guardò attorno, scrutando con un’unica rapida occhiata il soggiorno di Baker street. Ogni cosa era al suo posto.
Chiuse la porta senza curarsi di fare rumore: Mrs. Hudson era dalla sorella e John stava trascorrendo quello scorcio di ferie estive a Torbay da Mary, la sua compagna. La donna che lo aveva aiutato a superare ciò che era accaduto quattro anni prima, quando il mondo aveva gioito della morte di Sherlock Holmes… salvo poi comprendere, quando la verità era emersa, di aver compiuto un colossale errore.
Sherlock arricciò le labbra in un sogghigno amaro. Ritornare nella quotidianità dopo aver vissuto nel comodo rifugio dell’anonimato non era stato né facile, né indolore. John, l’unico amico che avesse mai avuto, lo aveva odiato per questo. Lui aveva accettato la sua rabbia, in silenzio: aveva accolto persino il pugno con cui lo aveva steso, la prima volta che se lo era trovato dinanzi dopo tre anni, perché era giusto che fosse così, che fosse infuriato e ferito. Lui lo aveva tradito.
Il silenzio di Sherlock rappresentava un’assoluzione difficile da chiedere e ancor più difficile da dare. John era un uomo buono e giusto, ma non uno stupido, e non aveva accettato di buon grado di esser stato tenuto all’oscuro di tutto, anche se per un ottimo motivo.
C’era voluto tempo e pazienza e, alla fine, la rabbia e il rancore di John erano scivolati via. La loro amicizia era tornata salda, persino più di prima.
Eppure…
Il taxi lo attendeva per strada. Il fumo del tubo di scappamento si solidificava in una massa grigia, assediata dalla bruma dell’alba. Quel mattino Londra era insolitamente tranquilla: poche auto in giro, passanti dall’aria rilassata. Tutto era calmo, ma quella pace non metteva addosso a Sherlock quell’ansia che lo faceva smaniare e divorare chilometri sul tappeto, su e giù per il soggiorno di Baker street.
Non adesso, almeno.
King’s cross era affollata di gente in procinto di partire per le vacanze. Sherlock camminò in fretta e a testa bassa. Indossava un impermeabile blu leggero adatto al clima estivo e teneva il bavero rialzato per nascondere il viso. Prese il treno che conduceva all’aeroporto giusto un istante prima che la vettura si mettesse in moto.
Scelse con cura il posto: uno scompartimento vuoto, occupato unicamente da una ragazza immersa nella lettura di un giornale, con l’ipod nelle orecchie. Una sola occhiata gli fu sufficiente per comprendere che stava recandosi negli Stati Uniti, sicuramente per uno stage lavorativo presso un’azienda di grafica.
Sherlock si sistemò accanto al finestrino, il viso poggiato sulla mano chiusa a pugno. Oltre il vetro, le immagini dei sobborghi di Londra scorrevano via, strappate dagli occhi prima che potessero ricomporsi immagini nitide. Negli occhi, una patina di malinconia, forse anche di incertezza.
Un altro treno, un altro aereo. Un altro viaggio. Un’altra vita.
 

Quattro anni prima.

Karachi era calore, fango, umidità e nugoli di mosche. Persino in quel momento della notte, gli insetti sembravano non aver pace, sempre alla ricerca di un cumulo di immondizia da saccheggiare o di esseri umani da tormentare.
Sherlock si mosse piano, facendo attenzione a non attraversare il cono di luce bianca del fanale che i mujaheddin avevano messo sulla jeep. Stavano cercando un prigioniero fuggito, scampato miracolosamente a un’esecuzione. Tutta la città pullulava di pattuglie che gridavano e sparavano colpi di kalashnikov correndo a caccia di ombre che si muovevano nel coprifuoco.
Dietro di lui, una figura infagottata in un velo nero ansimava, con gli occhi spalancati nel buio. Rimasero immobili a lungo, confusi nell’ombra del portone di una catapecchia semi diroccata, nel silenzio assoluto. D’un tratto, lui prese la mano della figura e la tirò verso la strada riprendendo a correre attraverso il dedalo di stradine, una ragnatela fatta di vicoli, capanne di fango e lamiera, vecchi container e terra battuta. Corsero sollevando le lunghe vesti scure, con il petto che sembrava esplodere a ogni passo mentre il rumore di ruote e fuoristrada si faceva forte, sempre più forte. Si arrestarono dinanzi una casa in mattoni dalla porta di metallo. Lui diede un colpo, uno solo, e l’uscio si aprì, mostrando il viso sbarbato di un uomo occidentale. “Dentro, presto!”
La porta si chiuse con un tonfo attutito. Nella stanza c’era una lampada a cherosene con la fiamma smorzata, poche suppellettili, tappeti distesi a terra per coprire il pavimento di pietra e fango. L’uomo che aveva aperto la porta si lasciò andare a un sorriso sghembo. “Credevo vi avessero preso… ed ero terrorizzato da ciò che avrei dovuto dire al signor Mycroft. Avrebbe voluto la mia testa.”
Sherlock aggiustò il turbante da mujaheddin che gli celava il viso, in disordine dopo la lunga corsa. “Non direte nulla al signor Holmes poiché non vi è nulla da dire.” Tra le sue dita si materializzò un sacchetto di stoffa, che tese all’uomo. “Eccovi la prima parte di quanto pattuito. Quando attraverseremo il confine avrete il resto. “
L’uomo sciolse i legacci del sacchetto e il bagliore freddo di tre diamanti gli illuminò il palmo della mano. Thompson annuì con un sorriso sioddisfatto. “Grazie. È per questo motivo che preferisco collaborare con voi Inglesi. Siete così… affidabili.” Attese inutilmente un gesto di assenso, poi indicò con un gesto spazientito la scala di corda e cuoio nascosta in un angolo. “Salite. Stanotte sarà impossibile muoversi. Partiremo domani all’alba dopo la preghiera del muezzin.”
Sherlock mise una mano sulla schiena della figura che l’accompagnava, spingendola verso la scala. Sopra di loro, una botola. Seguiti dagli occhi sospettosi di Thompson, anche Sherlock salì al piano superiore; poi tirò su la scaletta e richiuse l’uscio della botola.
Si ritrovò in un ambiente piccolo e soffocante, più un soppalco che una vera e propria stanza. Tappeti consunti, una finestra chiusa da cui trapelavano lame di luce polverosa insieme ai suoni degli automezzi che sfrecciavano via, verso i confini estremi di Karachi. In un angolo, un tavolino con una lampada dalla luce fioca e una bottiglia d’acqua.
Con lentezza, la figura si tolse il velo. Ciocche di lunghi capelli scuri scivolarono sulle sue spalle mentre si liberava degli altri abiti orientali, rimanendo con una maglietta scura e un paio di pantaloni sudici.
Il viso si Sherlock si aprì in un sorriso appena accennato.
“Irene”, la salutò.
Irene Adler si lasciò cadere a terra con grazia. Raccolse le gambe sotto di sé e lo fissò dal basso verso l’altro con uno sguardo ambiguo in cui galleggiavano paura e sorpresa. Gli sorrise lentamente.
“Sei l’ultima persona che immaginavo di vedere” confessò.
“E anche l’ultima cui hai mandato un messaggio.”
Con un gesto fluido, l’uomo si sedette sulle ginocchia, togliendosi gli abiti da mujaheddin. Indossava pantaloni sportivi e un dolcevita nero: abiti inconsueti per lui, che adoperava sempre completi di ottimo taglio. Irene strinse appena gli occhi squadrandolo con attenzione. “Immagino di doverti ringraziare. Senza il tuo intervento sarei già morta” mormorò, lanciandogli un’occhiata obliqua.
Lui si strinse nelle spalle e inarcò un sopracciglio. “Non potrei mai permettere un simile spreco di intelligenza.”.
Irene si mosse rapidamente e gli si avvicinò mettendosi in ginocchio a sua volta. Gli poggiò una mano sul petto, allargando le dita. “L’intelligenza segue il proprio tornaconto. La logica è priva di emozioni.” Si accostò ancora e avvertì il suo respiro sfiorarle la fronte. “La logica non porta a compiere missioni suicide.”
Sherlock distolse lo sguardo. “Ero stufo della routine londinese.”
Le sopracciglia di Irene scattarono in su. “Stufo anche di John? Pensavo che vi divertiste insieme. ”
L’occhiata azzurra che le scoccò fu di pura altezzosità. “Lui non è gay. Credo che te lo abbia detto.”
Irene sorrise stringendo gli occhi. “Lui no. E tu?” chiese, mentre il tono della voce si faceva più roco.
Questo aspetto della chimica organica non è oggetto fondamentale dei miei studi.”
La mano di Sherlock coprì la sua, allontanandola con delicatezza ma Irene si liberò della stretta e risalì lungo il torace, fino alla base del collo.“Potrebbe essere l’ultima notte sulla faccia della terra. Vorresti privarti di una simile conoscenza?” gli sussurrò. Sulle labbra il sorriso appena accennato fu rimpiazzato da una linea decisa. Negli occhi scuri, la determinazione era solida.
Sherlock accennò un sogghigno venato di sarcasmo. “Non lo sarà. E quanto agli approfondimenti sulla biologia umana, ho competenze adeguate.” Inclinò il capo di lato per guardarla meglio. Irene appariva stanca; il viso senza trucco era sempre bellissimo ma dagli occhi era sparita quell’aria di sfida che Sherlock ricordava. Gli ultimi mesi dovevano essere stati molto difficili per lei.
“Stai bene?” le chiese.
“Ho avuto gente che mi inseguiva, estremisti che volevano tagliarmi la testa e tuo fratello sul collo come un vampiro. Tutto come al solito.”
Nel sentir menzionare Mycroft, Sherlock ridacchiò. Stava per rispondere quando lo stridio di pneumatici gli bloccò le parole sulle labbra. Un istante dopo, un faro squarciò le tenebre della stanza, frantumando l’oscurità in lame di luce, illuminando il viso di Irene.
Sherlock le prese la mano che aveva sul petto stringendola forte, con gli occhi puntati sulla finestra. Le grida erano concitate, rabbiose. Uno, due colpi di pistola furono sparati contro il cielo e altre voci risposero da lontano, seguite da colpi di arma da fuoco. Uno di essi sfondò un’aletta della persiana e andò a conficcarsi sul soffitto.
In quel momento, Sherlock si gettò a terra, trascinando Irene sotto di sé per proteggerla. Rimasero fermi, l’uno addosso all’altra, con il respiro corto mentre la paura e il calore stendevano un velo di sudore sulla pelle.
Se avessero perquisito le case, se fossero entrati, se…
Invece i miliziani se ne andarono. Urlarono contro il cielo, spararono un’altra selva di proiettili e procedettero oltre, terrorizzando la gente che stava rintanata nelle casupole, troppo spaventata persino per sbirciare attraverso le finestre.
Sherlock avvertì un lungo sospiro di Irene proprio sotto la linea della mascella, segno che aveva trattenuto il fiato. Voltò la testa e si trovò a incrociarne lo sguardo: era fermo e insieme mosso da una strana, disarmante luce che non riuscì a comprendere.
Un attimo dopo lei gli prese il viso tra le mani. Fu lei a baciarlo. Con pazienza, come se avessero tutto il tempo del mondo. E lui rispose. Fu un bacio timido all’inizio, che divenne forte, violento, famelico. Affamato.
Le mani dell’uomo scivolarono dalla linea del collo fino al torace e poi più giù, lungo i fianchi stretti. Irene afferrò il lembo del dolcevita e lo strattonò, costringendolo a spogliarsi mentre lui continuava a percorrere la linea del suo corpo attraverso gli abiti.
Le mani di Sherlock erano forti e insieme delicate: la stringevano senza farle male, trasmettendole una sensazione di forza del tutto sconosciuta che non apparteneva alle categorie di dolore da cui raggiungeva il piacere.
Gli abiti finirono in un angolo in fretta. Il contatto con la pelle nuda coperta dal sudore di Irene fu una sensazione che colse Sherlock del tutto impreparato. La gola divenne secca, mentre il suo cervello si arrovellava in maniera affannosa nel cercare una logica per ciò che stava accadendo tra loro e le mani sfuggivano al controllo cosciente, incoraggiate dal respiro di Irene, divenuto affannoso.
La razionalità andò in pezzi nel momento in cui lei gli circondò il bacino con le gambe, facendolo entrare con un unico colpo.
No, non c’era razionalità alcuna in quello. Solo istinto, pulsione di ormoni potentissimi che sovvertivano un ferreo ordine mentale, costringendolo a desiderare quella donna, in quel momento assurdo. Ad affermare, ancora una volta, il suo potere su di lei, perché di potere si trattava.
Le prese le mani, incrociandole sopra la testa di lei, bloccandola con il suo corpo. Dalla gola di Irene si levò una sorta di ringhio sommesso, fatto di rabbia.
“Lasciami” ordinò, mentre stringeva le gambe contraendo i muscoli del bacino per imprigionarlo dentro di sé. Lui sorrise appena, colpendola più a fondo. “No.”
La donna gettò la testa indietro, carica di frustrazione; poi la rialzò di scatto e lo morse sulla spalla, aderendo al petto, bloccandolo con le gambe che erano allacciate sui glutei. Lui le lasciò le mani e l’afferrò, fermandola.
“Non adesso. Non oggi” le sussurrò contro le labbra. Si mosse di nuovo, alternando colpi forti a movimenti prolungati e lenti, fino a che Irene non cercò di divincolarsi per sfuggire a ciò che stava provando. Non voleva che fosse lui a vincere, che fosse lui a darle piacere prima che…
Sherlock la lasciò libera e lei si aggrappò alle sue spalle, lo graffiò con forza, mentre si mordeva le labbra per non gridare.
Un istante dopo, lui ricadde con la testa sul petto di lei. Rimase fermo per una manciata di secondi, prima di scostarsi di fianco. Rimasero con le gambe e le braccia intrecciate insieme, con il fiato corto e gli occhi socchiusi. Infine Sherlock piegò un angolo delle labbra in un sorrisetto accennato e si sollevò su un gomito per studiarla, quasi si trattasse di un esemplare da laboratorio.
Infastidita, Irene cercò di alzarsi a sedere ma lui la trattenne, mettendole una mano tra i seni. “No, miss Adler. Non muoverti.” Le si avvicinò: il viso a un soffio dal suo, e la fissò con una punta di derisione nello sguardo. “È così che voglio ricordarti. Come l’uomo che ha battuto Irene Adler. La dominatrice.”
 
Aeroporto di Edimburgo. Agosto 2015
“Ecco a lei, signore. Il parcheggio delle nostre vetture è in fondo…”
“So dove si trova.”
L’addetta dell’autonoleggio rimase con la mano a mezz’aria, indispettita dalla maleducazione di quell’uomo in impermeabile e occhiali scuri che le aveva letteralmente strappato le chiavi dell’auto. Lo guardò allontanarsi in mezzo alla gente che affollava l’atrio di vetro e acciaio, reso ancor più opaco dal cielo plumbeo. Lo mandò mentalmente a quel paese e ripose i documenti in una cartellina sul desk.
Sherlock camminava a passo veloce, con l’impermeabile che si apriva attorno al suo corpo simile a un mantello scuro. Una sensazione vaga, forse nervosismo, lo pungolava sin da quando era salito in aereo a Londra. Adesso, il cielo plumbeo e l’accento strascicato scozzese lo stavano esasperando. Sì, doveva trattarsi di questo: lui odiava viaggiare. E odiava ancor di più ricordare i propri momenti di debolezza.
L’auto, una Land Rover color verde scuro lo attendeva nel punto più lontano del parcheggio sotto una pioggerella sottile. Aghi d’acqua gli colpirono le mani e il collo mentre raggiungeva la vettura e caricava i bagagli. Salito al posto di guida, accese il cellulare: c’erano un paio di messaggi sulla segreteria telefonica, un sms di John che gli chiedeva se tutto fosse a posto e una mail di Mycroft. Nulla che non potesse aspettare.
Prese la statale che bypassava Edimburgo e si diresse verso il Firth of Forth. Attraversò il ponte mentre la pioggerella si trasformava in tempesta, paralizzando il traffico della città già messo a dura prova dai lavori per la costruzione del tram. Sotto di lui, le acque del fiume si mescolavano a quelle del mare in una mistura grigia e ribollente, fin troppo simile al suo umore.
Fu solo dopo la diramazione per Stirling che riuscì a rilassarsi. Il cielo si era schiarito e, finalmente, larghi stralci di azzurro campeggiavano lungo l’orizzonte. La pianura lasciò lo spazio alle colline, i campi coltivati ai boschi. Sherlock guidava in silenzio, concentrandosi su ogni miglio, escludendo dalla mente i ricordi della sortita a Karachi e a ciò che era accaduto dopo. Si morse le labbra e respirò a fondo. Troppe cose erano avvenute e lui era cambiato, era un uomo diverso. Una volta sarebbe riuscito a rimuovere quelle immagini, così come avrebbe fatto un computer con il testo delete.
Ma non era possibile. Non ora.
Finalmente sul ciglio della strada apparve il cartello stradale con l’indicazione di Aberfoyle. Da lì a Loch Lomond mancava poco. Il corpo avrebbe avuto bisogno di una sosta per un caffè ma lui gli negò questo piccolo piacere: adesso che era giunto nelle Trossachs, l’impazienza aveva soppiantato l’irritazione. Attraverso le stradine che costeggiavano i lochs, tra le pendici rocciose delle montagne e l’acqua, la Land Rover macinò chilometri su chilometri, mentre la mente di Sherlock rimestava tra immagini, supposizioni e ricordi. Per una volta, non sapeva cosa sarebbe accaduto, e questo lo spaventava.
Molto.
 
La casa era di pietra e legno, su due piani e risaliva al secolo precedente.Era immersa in un bosco di conifere impregnato dal sussurro della pioggia che scivolava lieve sui rami e sul terreno di ghiaia, sfumando i contorni del paesaggio. Sherlock respirò a fondo prima di avvicinarsi all’ingresso.
Bussò due volte. La porta di legno bianco cigolò appena sui cardini e una donna anziana con una divisa da domestica gli aprì la porta. “Siete arrivato. La signora vi attende in salotto.” Con un sorriso di circostanza, la cameriera prese il soprabito e i guanti, indicò una porta socchiusa in fondo al corridoio e sparì lasciandolo solo nell’ingresso.
Con un gesto automatico, Sherlock sistemò i polsini e controllò il bottone del suo Spencer Hart. Poi si incamminò lungo il corridoio bianco facendo cigolare appena il parquet.
Giunto sulla soglia del salone si fermò per un istante, le mani sullo stipite della porta, un brivido nello stomaco. La vide.
Era lì.
 
Irene udì i suoi passi avvicinarsi ancor prima di avvertire la sua presenza dietro la porta. Chiuse il libro che stava leggendo e si voltò verso l’uscio.
Sherlock la stava fissando sulla soglia della stanza. I suoi pensieri erano nascosti dietro quello sguardo glaciale che intimoriva gran parte degli altri esseri umani, ma che lei aveva trovato sempre molto sensuale. Una parte di lei, ben nascosta, avvertì una fitta di rimpianto. Ma troppe cose erano avvenute tra loro: troppa rabbia o, come preferiva dire lei, troppi incidenti di percorso. Non era più il momento di indulgere nel sentimentalismo e forse, non lo era mai stato.
“Benvenuto” lo accolse, alzandosi in piedi.
Lui spalancò la porta, avvicinandosi con quel passo elegante e insieme potente che lo caratterizzava. Non vi era traccia di esitazione o dubbio, notò Irene, e questa considerazione le strappò un sorriso. L’Inghilterra sarebbe potuta crollare, ma l’autocontrollo di Sherlock Holmes sarebbe rimasto saldo.
“Grazie.” L’uomo lanciò una rapida occhiata nella stanza: un salone con un bovindo, grandi divani color panna e un Aubisson d’epoca sul pavimento. Oltre le finestre, il bosco e la vista su Loch Lomond. “Ti trovo bene” continuò lui.
Irene sorrise. “Anche tu.” Era una menzogna venale: entrambi sapevano di essere invecchiati. Uno spruzzo di grigio era affiorato sulle tempie di Sherlock e le rughe attorno gli occhi di Irene si erano fatte più evidenti.
Rimasero in piedi per alcuni istanti, poi Sherlock interruppe il silenzio. “Tuo marito?”
Irene abbassò la testa con un gesto di noncuranza. “Sta bene. È partito per lo Yemen per una missione diplomatica. Starà via due settimane.” Intrecciò le braccia sul petto. “Lui sa che sei qui. Non ha sollevato alcuna obiezione.”
L’uomo assentì a capo chino. Si voltò e le diede le spalle, concentrando l’attenzione su alcune fotografie disposte in cornici d’argento su un tavolino Beidermaier. In esse, Irene appariva sempre in compagnia di un uomo di mezza età dal sorriso arguto e l’aria distinta.
“Non ti chiede mai del tuo passato?” chiese prendendo tra le mani una foto in cui la coppia era abbracciata sullo sfondo del Cremlino. La nota di sarcasmo che Irene percepì nella sua voce la irritò molto e rispose con tono freddo. “È un uomo profondamente buono, migliore di molti altri. Non avrei potuto chiedere di meglio e, che tu ci creda o meno, io lo amo e lui ama me.”
Se quella frase lo aveva colpito, non lo diede a vedere. Rimise a posto il porta foto e raddrizzò le spalle. Le sue lunghe dita seguirono il profilo di un’immagine in cui Irene era sola, immersa nel sole di un paesaggio desertico.
“Non sono qui per discutere di lui o di te.” Si voltò di scatto. Indossava quello che Irene chiamava tra sé la sua maschera: il suo solito sguardo annoiato,. “Lui dov’è?”
La donna prese un respiro profondo. “Di sopra. Seguimi.”
Mentre lasciavano la stanza, Irene si chiese perché Sherlock avesse osservato a lungo proprio quella foto. Lei, immersa nella bellezza del deserto del Marocco, durante il suo viaggio di nozze. Era stato Sherlock ad affidarla alle cure e alla protezione dell’ambasciatore inglese dopo il suo salvataggio a Karachi. Ciò che nessuno avrebbe mai potuto immaginare era quello che era accaduto dopo: una nuova identità, l’amore per quell’uomo, il matrimonio con lui… e molto altro. Il pensiero riusciva a causarle una fitta di angoscia, anche a distanza di tre anni, e tuttavia non si pentiva della scelta che aveva fatto.
Che entrambi avevano fatto.
 
Il piano superiore della villa era tranquillo, immerso in una luce lattiginosa. Il silenzio ovattato, sottolineato dalla delicata tappezzeria color crema, era spezzato dal suono lontano di piccoli tonfi. Irene si fermò dinanzi una porta laccata di bianco e alzò il viso. “Potrebbe non riconoscerti” lo avvisò.
Sherlock deglutì a vuoto e per un attimo, Irene ebbe la tentazione di prendergli la mano. Ma sapeva che lui non avrebbe accettato quel gesto.
“Lo so”, rispose lui. “Apri la porta.”
L’uscio scivolò sui cardini in silenzio, aprendosi su una stanza dal tetto spiovente con il pavimento coperto di moquette. C’erano stampe allegre alle pareti e i mobili erano di legno grezzo intagliati con cura. Una donna, poco più che una ragazza, le venne incontro.
“Signora…” la salutò, lanciando un’occhiata intimidita all’uomo che accompagnava la sua padrona. ”È tutto tranquillo.”
“Grazie, Cathy. Puoi lasciarci soli, per favore?”chiese Irene facendosi da parte per lasciar passare la cameriera. La ragazza annuì e lasciò in fretta la stanza, chiudendo la porta alle sue spalle. Quando furono soli, Irene avanzò al centro della stanza, lasciando Sherlock contro la parete accanto alla porta. Sebbene indossasse pantaloni e un maglione di cachemire, aveva brividi di freddo.
Era sempre così tra loro, in quelle occasioni.
“Guarda chi è venuto a trovarti…” sussurrò.
 
Sherlock trattenne il respiro per un istante. Poi espirò l’aria lentamente. Due occhi color ghiaccio identici ai suoi lo stavano fissando dal basso. Erano quieti e insieme scrutatori, pieni di meraviglia. Irene scompigliò i capelli del bambino con una carezza piena di affetto.
Capelli ricci e neri.
Senza una parola, Sherlock si abbassò sulle ginocchia, ponendo il proprio viso all’altezza di quello del bambino e gli tese la mano. “Ciao. Ti ricordi di me?”
Il piccolo inclinò la testa. Aveva tre anni adesso: abbastanza da poter sostenere un abbozzo di conversazione ma non da ricordare un volto che aveva visto per un giorno o due sei mesi prima. “No” ammise senza vergogna. Lanciò un’occhiata a Irene e gli tese un pupazzetto. “Il Dottore ha affrontato i Dalek e li ha vinti, mamma!” esclamò.
Irene sorrise e lo prese in braccio, rialzandosi in piedi, subito imitata da Sherlock. “Devo dire a Cathy di non farti vedere più programmi paurosi come il Doctor Who. Sei troppo piccolo.”
Il bimbo si divincolò dal suo abbraccio. “Non è vero!” esclamò seccato. Poi si volse a guardare Sherlock. “E tu, signore? Lo guardi il Dottore’”
Irene distolse lo sguardo. Negli occhi di Sherlock era passato un’emozione dolorosa, qualcosa che somigliava al dolore. O al rimpianto.
“No, piccolo. Di solito trascorro le mie serate in un obitorio o a fare esperimenti nel mio laboratorio” affermò con decisione. “Non mi interessano simili scempiaggini prive di logica.”
Lo sguardo del bambino strappò a Irene una risata. Era così pieno di quel sussiego tipico degli Holmes che avrebbe potuto sostituire un test di paternità.
Test che lei aveva fatto al ritorno in Gran Bretagna. Dopo aver scoperto di essere incinta dell’unico uomo che non avrebbe mai potuto avere. Test che aveva ripetuto al Saint Bart dinanzi all’incredulità di Sherlock.
Suo malgrado, gli sorrise. Sherlock le rispose inarcando il sopracciglio. “Trovi sia buffo che mio figlio non mi riconosca?”chiese con tono sostenuto.
Lei agitò la mano in un gesto di noncuranza. “Affatto. Ti assomiglia più di quanto mi faccia piacere ammettere.”
“Ah.” L’uomo si schiarì la voce. “Ho provveduto alla sua iscrizione a Eton, come avevo promesso.”
Irene annuì. “Bene” disse incrociando le braccia sul petto. “Bene” ripeté piano a se stessa, mentre guardava il bambino che scrutava con sospetto il padre naturale.
“Sai, è grazie a lui che ti ho perdonato per tutto quello che mia hai fatto. Ho perdonato tutto ciò che è avvenuto tra noi. C’è solo una cosa che non riuscirò mai ad accettare” affermò a un tratto, senza guardarlo.
Sherlock distolse gli occhi dal bambino e la studiò con le sopracciglia aggrottate. “Cosa?” le domandò seccamente. Aveva accettato le sue condizioni: ogni mese, una somma per il mantenimento del piccolo era accantonata in un fondo presso la Barclay; aveva ottenuto l’iscrizione per le scuole più prestigiose del Regno Unito. Aveva accettato che il marito di Irene gli desse il suo cognome perché sapeva che così lo avrebbe messo al sicuro da vendette e ritorsioni, comprese quelle del proprio fratello.
Aveva chiesto per sé solo due cose: di poterlo vedere e di poter scegliere il nome.
Irene gli restituì lo sguardo con la medesima durezza. “Di avergli dato un nome così idiota.”
Sherlock scosse la testa, mentre il fantasma di un sorriso aleggiava sulle labbra. Avanzò di alcuni passi e si chinò dinanzi al bambino che giocava con dei pupazzetti e un’astronave giocattolo.
“Gli ho dato il nome dell’unica persona che mi è stata leale e fedele, e ti dico anche che mi spiace che lui non possa conoscerlo, né sapere che mio figlio porta il suo nome. Ma sai bene che ho preferito tacere su di lui per tenerlo lontano dai pericoli della mia vita.”
Fu in quel momento che il piccolo alzò gli occhi, incrociando lo sguardo di Sherlock. “Hai un bambino? Come si chiama? Il mio nome è Hamish John, e ho tre anni. E tu come ti chiami?” chiese, curioso.
L’uomo tentò di sorridere ma non ci riuscì. Deglutì a vuoto prima di rispondere. “Sherlock. Sherlock Holmes.”
E sono tuo padre.
 
 

   
 
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