E non so, potrei toccare il
fondo ma forse alla
fine di questa strada potrei trovare una traccia di me. Per cui non mi
preoccuperò dei miei tempi, voglio farlo per bene. Niente
confronti, seconde
possibilità, no, non questa volta…
Partenza
– Capitolo 1
E |
ra
più di un quarto d’ora che provavo a comprimere la
sproporzionata quantità di
abiti – tutti necessari ed
indispensabili – in modo da permettere alla cerniera della
mia enorme valigia
blu elettrico di chiudersi, inutile dire che più ci provavo
più mi sembrava di
allontanarmi dall’obiettivo.
Solo
dopo aver dato fondo a tutta l’energia possibile ed
immaginabile ed un bagno di
sudore non indifferente, riuscii nel mio scopo concludendo il tutto con
un
sospiro di sollievo.
Per
un attimo infatti, avevo temuto di dover tirare daccapo tutto fuori e
decidere
di eliminare gli oggetti superflui come il peluche a forma di panda che
conservavo gelosamente da quando ero bambina o il mio set di maglioni.
Va bene,
era estate e allora?
Per
fortuna la buona sorte era stata almeno per una volta dalla mia parte,
tutto
era andato secondo i piani e anche se sembrava che la valigia sarebbe
saltata
in aria da lì a qualche minuto, la trascinai giù
dal letto fino a posizionarla lateralmente
rispetto alla porta della mia camera ormai quasi del tutto spoglia
tranne che
per qualche libro impolverato sulle mensole, un salvadanaio vuoto e un
centinaio di foto scattate ai tempi del liceo e al college che
ritraevano me e
i miei amici in vari momenti della vita, appese alla parete dietro il
letto.
Avrei
voluto portare anche quelle con me, ma alla fine il buonsenso aveva
prevalso
sul sentimentalismo e così avevo deciso di lasciarle
lì dove avrebbero dovuto stare,
dopotutto andavo via solo tre mesi non per sempre. Anche se avrei
voluto fosse
così.
Mi
diressi in bagno stando ben attenta a non fare rumore e a non svegliare
nessuno
in casa, perché ovviamente, dovevo ridurmi all’una
della notte prima della mia
partenza per finire di preparare i bagagli.
In
corridoio sentii delle voci provenire dal piano di sotto, distinguendo
fra
quelle di uno stupido programma alla televisione, la voce isterica di
mio
fratello che parlava frenetico al cellulare.
Supposi
stesse litigando con la sua ragazza, Melanie, una tipa tutta tette,
unghie
smaltate di un rosa ai limiti dell’accecante, ovviamente
bionda e con
un’abbronzatura così finta da poter azzardare a
dire che se l’avesse vista la
popolazione della Cina si sarebbe indignata e sentita punta
nell’orgoglio.
Ormai
erano più di cinque mesi che lei e David andavano avanti in
quel modo:
litigavano, si riappacificavano poi uscivano insieme e puntualmente o
l’uno o
l’altra a turno si accusavano di qualcosa, non
necessariamente grave.
Chissà
perché stavano ancora insieme.
Scossi
la testa ed entrai in bagno in punta di piedi chiudendo la porta a
chiave.
Pace.
Aprii
il rubinetto della vasca lasciando scorrere l’acqua calda
mentre con l’altra
mano aggiungevo del bagnoschiuma al profumo di rosa.
Prima
di immergermi in quelle calde acque rilassanti, mi concessi un rapido
sguardo
nello specchio e ciò che mi si presentò davanti
non mi piacque affatto.
I
capelli color del grano ricadevano lateralmente legati in una lunga
treccia
scomposta incorniciandomi il viso, tondo e ancora leggermente arrossato
per lo
sforzo compiuto qualche minuto prima.
Continuai
a scrutare con fare critico le profonde occhiaie che da qualche tempo
avevano
preso residenza sotto i miei occhi blu dalle venature verdi, segno
evidente che
avrei dovuto allontanarmi per un po’ dalla vita caotica che
conducevo lì a Boston,
stare un po’ da sola e cercare di capire di cosa fare della
mia vita ora che
avevo una laurea da sventolare ai quattro venti.
Increspai
le labbra e tornai ad esaminarmi la faccia con occhi stanchi, critici,
tanto da
farmi distogliere lo sguardo prima che fossi riuscita a darmi fuoco
solo
guardandomi attraverso il vetro.
Non
ero sempre stata così, a diciassette anni avevo
un’altra considerazione di me
stessa, mi piacevo e piacevo agli altri, ero sicura di qualunque cosa
facessi o
dicessi senza preoccuparmi troppo di ciò che il resto del
mondo avrebbe
pensato, amavo anche mettermi in gioco e spesso mi cacciavo in cose
più grandi
di me.
Purtroppo,
sei anni dopo, all’età di ventitré anni
suonati, tutte quelle belle
caratteristiche sembravano essere svanite nel nulla, vaporizzate,
lasciando
solo un involucro imbottito di sogni irrealizzati e di malessere che
riversavo
nel mio aspetto.
Ormai
quando mi guardavo, non facevo altro che provare rabbia nei confronti
di me
stessa per non aver ascoltato la saggia vocina nella mia testa che di
tanto in
tanto tornava a farmi visita urlandomi contro di essere stata una
stupida. Come
darle torto.
Perlomeno
sapevo a chi affibbiare tre quarti della colpa per aver ridotto il mio
stato
d’animo a poco più di un mucchietto di polvere.
Robert Jones, mio padre.
Da
quando aveva abbandonato me e mia madre per una sua studentessa del
corso di
lettere, un anno più piccola di me e quindici meno di lui,
era come se avessi
creato una barriera attorno a me, per proteggermi da tutto e tutti.
Avevo
rinunciato a prendere la laurea in giornalismo alla Brown e mi ero
accontentata
di seguire i corsi a sociologia, in primo luogo perché mio
padre insegnava
lettere e sarebbe diventato il mio insegnate se solo non avessi voluto
stargli
il più lontano possibile.
Secondo,
le voci si diffondevano in fretta e l’ultima cosa che gradivo
era ricevere
occhiate furtive, additamenti e risatine gratuite durante la lezione,
per il
semplice fatto di essere sua figlia.
Mia
madre, che aveva assestato il colpo meglio di quanto lo avessi fatto
io, aveva
suggerito di spostarmi a New York o in qualsiasi altra città
con un’università
pur di non permettermi di rinunciare a quello che avrei tanto voluto
diventasse
il mio futuro ma con il suo stipendio da pasticciera non era in grado
di
sostenere tutte le spese che comportava il vivere lontano da casa,
così le
avevo mentito dicendole che non m’importava, che sociologia
era il mio piano di
riserva.
Per
due anni la nostra vita trascorse tranquilla anche se con qualche
difficoltà
iniziale che svanì
il
giorno in cui Susan conobbe Steve. Da quel momento in poi le cose
ritornarono
al posto giusto.
Il
loro incontro fu piuttosto insolito, non di certo adatto a spianare la
strada
verso una relazione solida e sincera.
Mia
madre aveva tamponato accidentalmente la sua auto mentre usciva in
tutta fretta
– e trionfante – dal tribunale, dove vi aveva
trascinato mio padre per
impedirgli di ridurre la somma da destinarci per gli alimenti.
L’euforia
per la vittoria ottenuta e il suo essere irrimediabilmente distratta
aveva
fatto si che la sua Chevrolet vecchio modello si scontrasse con la BMW
tirata a
lucido del suo futuro compagno.
Steve
Moore faceva il dentista, diceva che aveva scelto quel mestiere
perché amava
vedere la gente sorridere perciò quando era poco
più che un poppante aveva
stabilito che la sua missione nel mondo fosse quella di rendere
perfetti i
denti di adulti e bambini. L’avevo trovata una cosa talmente
strana da sembrare
persino accettabile.
Steve
era un tipo simpatico e se non avesse avuto fortuna come medico
sicuramente
avrebbe potuto intraprendere la carriera di comico, non
perché si mettesse
d’impegno nel far ridere ma perché era qualcosa
che gli veniva spontaneamente.
Certo, sapeva anche quando era il momento di essere seri e contenuti ma
amavo
il modo in cui metteva di buon umore mia madre.
Anche
lui aveva un figlio, David, un anno più piccolo di me che
gli assomigliava in
modo spudorato eccetto che per il fisico: era dieci centimetri
più alto e molto
più magro e allenato.
Possedeva
un paio di grandi occhi verdi, capelli castani e un paio di fossette
che lo
rendevano impossibile da odiare.
Ed
infatti, nonostante per i primi tempi mi sentissi violata nella mia
privacy
essendo sempre stata figlia unica senza alcun rimpianto, io e David
avevamo
immediatamente stretto amicizia fino a rafforzare il nostro rapporto
tanto da
cominciare a considerarci davvero fratelli. Ecco perché non
lo presentavo mai
come il mio fratellastro.
Perciò
dopotutto mi reputavo piuttosto soddisfatta della piega che aveva preso
la mia
vita nel corso di quei sei anni, peccato che ormai avessi sprecato
tutte le
occasioni che mi avrebbero permesso di realizzare i miei sogni e
modificato
radicalmente il mio carattere per colpa di mio padre, quello bastardo.
Scossi
la testa per evitare che la rabbia nei suoi confronti tornasse a
montarmi
dentro come un uragano e ritenni fosse più saggio immergermi
nella vasca da
bagno.
L’acqua
calda fu un toccasana in grado di annegare ogni pensiero, ogni
preoccupazione ,
in quel tripudio di schiuma e sali da bagno profumati lasciando la mia
mente
sgombra da qualsiasi cosa non riguardasse la mia imminente partenza.
Avevo
deciso di allontanarmi da casa solo un paio di settimane prima
nonostante
l’idea aleggiasse nell’aria da molto più
tempo.
Era
cominciato tutto quando, una fresca sera d’aprile mentre mi
trovavo in
biblioteca alle prese con la preparazione di un esame che mi stava
perseguitando da mesi, ricevetti la telefonata di mia madre, quella in
cui mi
spiegava con la voce incrinata dal pianto che il nonno era morto
d’infarto.
Ricordavo
ancora quanto ero stata triste nei giorni successivi, non riuscivo a
credere
che nonno Edward se ne fosse andato, così,
all’improvviso, senza lasciarmi la
possibilità di salutarlo per l’ultima volta.
Ero
molto affezionata a lui, mi aveva trasmesso la passione per la
scrittura e ogni
volta che in estate andavamo a trovarlo nella sua piccola casa a Cape
Elizabeth,
nel Maine, mi regalava un libro di racconti o romanzi
d’avventura.
Talvolta
quando ero bambina per farmi addormentare mi recitava a memoria alcuni
versi
delle sue poesie, quelle che gli piaceva scrivere nel tempo libero
rinchiuso
nel suo studio ma che erano troppo complicate per la mente di una
ragazzina
anche se io continuavo ad ascoltarlo incantata finché le
palpebre non
diventavano talmente pesanti da vincere contro la curiosità.
Al
termine dell’estate andare via da quel posto era sempre una
tragedia, adoravo
stare in quella casa più di ogni altra cosa e il nonno lo
sapeva e con immensa sorpresa
mia e di mia madre nel testamento, fra le sue ultime volontà
era scritto nero
su bianco che la casa e tutto il suo contenuto erano stati lasciati a
me, la
sua unica nipote.
L’avevo
rifiutata, non la volevo ora che mio nonno era morto, non sarebbe stata
la
stessa cosa senza di lui e inoltre troppi ricordi si sarebbero
affollati nella
mia testa, non ero ancora pronta.
Mia
madre la pensava diversamente, insisté affinché
prima di decidere se metterla
in vendita o tenerla andassi almeno a vederla. Non fui molto convinta
di quella
proposta ma acconsentii comunque, anche perché David non
aveva smesso nemmeno per
un secondo di ripetermi di quanto quella fosse la scelta più
saggia.
Fu
proprio grazie a lui che decisi di trasferirmi lì e di fare
di quel posto “la
casa del nuovo inizio” come gli piaceva chiamarla; sapeva
cosa avevo passato e
ciò a cui avevo rinunciato perciò secondo lui
trascorrere il periodo estivo in
quella città avrebbe potuto aiutarmi a ritrovare me stessa.
Lo
avevo preso in giro insinuando che quella era solo una tattica per
levarmi dai
piedi e impossessarsi della mia camera, ma dopo intere giornate
– e nottate –
passate a riflettere mi era sembrata una buona idea.
Perciò
eccomi lì pronta a partire per il Maine piena di buoni
propositi, chissà magari
la fortuna era realmente dalla mia parte.
Una
sfilza ben fornita d’imprecazioni mi riportarono alla
realtà.
David
finalmente aveva preso in mano le redini della situazione e stava
informando in
modo abbastanza colorito alla sua ragazza, l’imminente fine
della loro
disastrosa storia d’amore.
“E
questa volta è finita per davvero! Non cercarmi, non
inviarmi messaggi e
soprattutto smetti di comportarti da troia con qualsiasi altro ragazzo
per
farmi ingelosire, non serve più!”
Interruppe la chiamata
con uno sbuffo e tornò in camera sua sbattendo
la porta. In casa regnò nuovamente il silenzio.
Controllai l'orario
sul display del cellulare: le due del mattino, ovvero, era
arrivato il momento di andare a dormire e di concludere il bagno caldo
che
cominciava a raggrinzire la pelle delle mani come quella di una vecchia
signora.
Mi tirai su e avvolsi
il corpo gocciolante con un asciugamano, strinsi i
capelli fradici in modo che l'acqua in eccesso scivolasse via e gli
asciugai
alla meglio per non infastidire nessuno con il rumore del phon.
In bagno si era creata
una coltre di vapore tiepido tanto che quando aprii la
porta, l'impatto con l'aria fredda del resto della casa mi fece
rabbrividire.
Rientrai nella mia
stanza il più rapidamente possibile, imprecando mentalmente
contro David per aver lasciato aperta la finestra infondo al corridoio.
Sapevo per certo che
fosse stato lui visto il suo accanimento nel fumare
sigarette, soprattutto la notte e vicino quella dannatissima finestra.
M'infilai il pigiama
in cotone di Victoria's Secret che mi aveva regalato la
mia migliore amica Leslie per Natale, se così potevano
considerarsi una canotta
e un pantaloncino striminzito, e mi
accucciai sotto le lenzuola leggere in attesa che il sonno arrivasse.
tum-tumtum
Un suono sordo
provenne dalla camera accanto. Era David che evidentemente si
era accorto di non essere l'unico nottambulo della casa e che mi
augurava la
buonanotte.
Aveva sempre fatto
così, fin dal primo giorno che avevamo cominciato a vivere
sotto lo stesso tetto. Era un metodo che utilizzava quando rientrava a
tardi a
casa e io ormai ero già chiusa nella mia camera a leggere un
libro o a
chiacchierare al cellulare con le amiche e alla fine avevo finito con
l'imitarlo. Era diventato una sorta di rituale della sera.
Chiusi il pugno e lo
scontrai contro il muro, ricambiando il gesto.
tum-tumtum
"Buonanotte Dave"
pensai e poco dopo mi addormentai.
**
Per
quel che mi riguardava avevo troppo sonno per lasciarmi condizionare da
qualche
misero raggio di luce perciò lasciai che la sveglia
continuasse a suonare
finché non si fosse spenta automaticamente.
Sapevo
di avere una tabella di marcia da rispettare ma di certo non sarebbe
crollato
il mondo se fossi arrivata a Cape
Elizabeth con un’ora di ritardo. Non tutti la pensavano come
me evidentemente.
Non
ebbi neppure il tempo richiudere gli occhi che nella mia camera fece
irruzione
David, il quale senza alcun tipo di delicatezza mi tolse le coperte di
dosso e
tirò su le persiane in modo che il sole accecante potesse
impadronirsi
dell’intero ambiente.
“E’
ora di alzarsi Jen”
“Perché
non mi lasci in pace?” mugugnai cercando di recuperare il
lenzuolo finito chissà
dove.
“Perché
sei in ritardo, a quest’ora dovresti già essere in
viaggio” spiegò sedendosi
all’estremità del letto.
Stava
scherzando ovviamente, la sveglia era appena suonata e a meno che
durante la
notte non avessi acquisito i superpoteri era praticamente impossibile
che fossi
riuscita a sbrigarmi con così tanta rapidità.
“Sono
le sei e mezza, Dave. Lasciami dormire” brontolai affondando
la testa nel
cuscino.
“Veramente
sono le otto e mezza…” già aveva
iniziato a ridere. Spalancai gli occhi.
“Che
cosa?” dissi mettendomi a sedere, “non è
possibile, ho programmato l’ora ieri, non può
es-” affilai lo sguardo e lo puntai contro mio fratello che
aveva
tutta l’aria di essere il colpevole.
“Diciamo
che potrei aver accidentalmente dimenticato di dirti di aver preso le
pile
della tua sveglia e averle sostituite con un paio vecchio.
Scusa.”
In
parole povere le pile non avevano retto e dovevano essersi fermate per
una
manciata d’ore.
“Merda!”
esclamai prima di piombare giù dal letto, ok, avrei voluto
dormire per un altro
po’ di tempo ma non due ore in più.
Aprii
l’armadio ormai vuoto tranne che per un paio di pantaloni
azzurri e una canotta
grigia che avevo escluso dalla valigia e le mie Converse preferite
accantonate
in un angolo buio nelle profondità del mobile.
Raccolsi
tutto e mi fiondai in bagno non prima però di esprimere
ciò che provavo nei
confronti di mio fratello che per tutto il tempo non aveva fatto altro
che
ridacchiare.
“Sei
un cazzone Dave, dico sul serio…”
“Ti
voglio bene anche io sorellona” lo sentii rispondere prima di
scomparire in
bagno.
Cambiai
opinione sulla questione dei superpoteri: in caso di
necessità ero davvero in
grado di vestirmi e lavarmi più velocemente di quanto
impiegassi a fare pipì.
Magari sarei entrata nel libro dei Guinness.
Una
volta pronta corsi di sotto, entrai in cucina e per poco non travolsi
Steve
ancora in pantofole e con il segno del cuscino impresso in faccia.
“Scusa!”
gridai mentre afferravo una fetta biscottata al volo. Non
c’era tempo di
spalmare la marmellata. Lui scosse la mano e aprì il
giornale alla pagina dello
sport come al solito.
“Dave,
per favore porti giù la mia valigia?!”
“Cosa
ci hai messo dentro, un bisonte?”
urlò lui
di rimando un attimo dopo.
Dieci
minuti più tardi la mia famiglia era riunita sul vialetto
per salutarmi e darmi
le ultime raccomandazioni, specialmente mia madre che mi fece giurare
di
chiamarla durante il viaggio e una volta arrivata a destinazione e
prima di
andare a dormire.
“Non
ho più dodici anni, so badare a me stessa mamma”
le dissi sciogliendo
l’abbraccio in cui ci eravamo strette.
“Tu
per me avrai sempre cinque anni” rispose lei accarezzandomi
il viso. Sbuffai
fingendomi contrariata ma in realtà mi piaceva ancora essere
considerata la sua
bambina, mi faceva sentire meno in colpa ogni volta che dormivo con lei
dopo
essere rimasta terrorizzata da un film horror
i giorni in cui Steve era fuori per lavoro.
“Fa’
buon viaggio” mi augurò quest’ultimo
scompigliandomi i capelli già spettinati
per natura.
David
era rimasto in silenzio, sorridendomi incoraggiante ogni volta che
incrociavo
il suo sguardo, anche se prima che entrassi in macchina mi corse
incontro
stringendomi forte fra le braccia.
“Stai
attenta Jen. Mi mancherai.”
“Promettimi
che verrai a trovarmi ogni tanto, non mi va di stare sola tutto il
tempo” dissi
affondando il viso nella sua felpa.
“Sta
tranquilla sarò sempre fra i piedi” mi
rassicurò dandomi un colpetto sulla
spalla.
“Adesso
devo andare…”
“Credo
proprio di si”
Ci
lanciammo un ultimo sguardo in segno di saluto e solo dopo aver
controllato per
l’ennesima volta di non aver scordato nulla entrai in
macchina e partii.
Raggiungere
Cape Elizabeth fu più difficile di quanto immaginassi, avevo
sbagliato strada
due volte, c’era stato un incidente fra due camion che aveva
bloccato per
un’ora abbondante lo scorrimento del traffico e per di
più la benzina aveva
iniziato a scarseggiare.
Chissà
per volontà di quale santo riuscii ad arrivare appena un
attimo prima che il
motore si spegnesse con un suono secco proprio qualche metro
più indietro
rispetto al vialetto della mia nuova casa.
Non
era esattamente come la ricordavo o forse da ragazzina non avevo mai
notato le
crepe sulle assi di legno, la vernice scrostata in alcuni punti e gli
infissi
delle finestre leggermente penzolanti; anche se avessi cambiato idea
chi mai
avrebbe voluto comprare un posto del genere?
Feci
un respiro di rassegnazione che profumava di mare e scaricai dalla mia
vecchia
Ford blu cobalto la valigia più gli altri quattro borsoni la
maggior parte dei
quali pieni di cibo e conserve perché mia madre era convinta
che lì attorno non
esistessero supermercati o botteghe.
Dovevo
ammettere però che oltre alla villetta sgangherata del nonno
su quel viale ce
n’era solo un’altra in condizioni leggermente
più decenti, il resto delle
abitazioni si trovava sparpagliato qua e la mentre la città
vera e propria,
Portland, era all’incirca a quindici minuti di auto da dove
mi trovavo io.
Osservai
la villa dall’altra parte dello sterrato; un tempo ci
vivevano i Conant e i
loro tre figli, due maschi e una femmina, con cui mi piaceva giocare ma
ormai
la famiglia sembrava non avere più niente a che fare con
quel luogo che
sembrava essere uscito da un dipinto.
Tutt’intorno
c’erano ettari ed ettari di verdi campi selvaggi punteggiati
di fiori finché in
lontananza non si riusciva a scorgere il mare e il grande faro che
torreggiava
la scogliera. Apparte il rumore lontano delle onde e il cinguettio di
qualche
uccello niente intaccava la quiete del paesaggio. Avevo portato una
radio?
Ignorando
il suono sinistro che provenne dai gradini di legno del portico quando
vi
passai sopra, mi feci strada all’interno della casa.
Lì
dentro il tempo sembrava essersi fermato, qualsiasi oggetto era rimasto
esattamente come il nonno l’aveva lasciato prima di morire,
c’era persino una
tazza di caffè semi vuota poggiata sul tavolo della cucina
vicino ad un
quotidiano.
Un
fastidioso senso d’oppressione
s’impossessò di me e dei miei occhi, lì
sentii
pizzicare intensamente ma mi ostinai a ricacciare giù le
lacrime; negli ultimi
anni avevo già pianto abbastanza adesso dovevo solo pensare
a riprendere in
mano della mia vita.
Cominciai
a impadronirmi di quella casa buttando nella spazzatura cibi andati a
male e
sgombrando gli scaffali che ben presto furono
riempiti dalla mia roba, poi una volta sistemata la cucina mi aggirai
per la casa portandomi dietro la valigia.
Ciò
che spiccava fra tutto a parte la marea di cianfrusaglie presenti in
ogni
stanza era l’odore pungente e penetrante
d’umidità e chiuso al quale rimediai
aprendo tutte le finestre per far arieggiare un po’
l’ambiente.
Entrai
in quella che un tempo veniva adibita a mia camera da letto e cambiai
le
lenzuola. Dovevo ammettere che a me capitavano sempre quelle con la
vista
migliore, anche a Boston dalla mia finestra si vedeva tutta la
città da lì
invece si vedeva l’enorme chiazza azzurra
dell’oceano Atlantico.
Quel
lato della casa si affacciava anche esattamente di fronte
all’ormai ex casa
Conant dove con mio grande stupore adesso era parcheggiata una jeep
rossa.
Corrugai
la fronte cercando di ricordare se avessi sentito il rombo di un motore
che si
avvicinava perché certamente quando ero arrivata non
c’era nemmeno l’ombra di
quella sottospecie di carro armato. Probabilmente ero stata troppo
presa dal
mettere in ordine così, scrollai le spalle e tornai a
concentrarmi sul resto
del lavoro da fare.
A
fine serata ero a pezzi, anzi no, non c’erano parole per
descrivere il grado di
stanchezza che mi travolgeva, volevo solo abbandonarmi su un letto e
rimanerci
fino al giorno dopo.
Feci
una smorfia scocciata al pensiero della giornata successiva. Anche se
ero
riuscita ad ordinare la cucina e la sala da pranzo, pulire da cima a
fondo
tutti i pavimenti ed i mobili del pian terreno, rifare il divano e
scuotere i
tappeti, mi mancava ancora il piano di sopra. Improvvisamente mi sentii
più
stanca di quanto non lo fossi già.
Squillò
il cellulare, sapevo già chi fosse.
David
mi aveva perseguitata con messaggi in cui mi chiedeva ogni sorta
d’informazione: se fossi arrivata, se stessi bene, se nei
dintorni c’erano
altre persone, il numero delle finestre in casa e ci mancava persino
che mi
chiedesse quanta aria avessi respirato fino a quel momento.
Sfinita
com’ero l’ultimo dei miei desideri era sottopormi
ad un altro interrogatorio ma
Dave non si sarebbe arreso così facilmente così
preferii rispondere piuttosto
che guadagnarmi un feroce mal di testa post squilli continui.
“Pronto?”
il lamento che uscì dalle mie labbra sembrava quello di un
gatto in procinto di
morire.
“Qualcosa
mi dice che volevi ignorare la mia chiamata” fu il suo saluto.
“Non
lo farei mai” risposi
sarcastica,
“cosa c’è?”
“Volevo
solo sapere com’è andato il tuo primo giorno da
donna indipendente” disse e
avrei scommesso qualsiasi cosa riguardo al fatto che sulla sua faccia
fosse già
stampato il suo tipico sorrisetto da piccola peste.
“Terribile.
Questa casa sta cadendo a pezzi, ho dovuto pulire qualsiasi
cosa!”
“Deve
essere stato un trauma per te visto che non sai nemmeno di che forma
è una
scopa” mi prese in giro.
“Beh,
adesso lo so e sembra proprio adatta a scontrarsi contro la tua
testa” sbottai
acida. Non ero nelle condizioni adatte per sentirmi dire che non ero
brava
nelle faccende domestiche dopo ore e ore di pulizie.
“E
dai Jen scherzavo!”
“Lo
so ma sono troppo stanca per darti retta…”
“Ah.
Allora ti lascio riposare” sembrava deluso.
“Dave,
scusami è che è stata una giornata faticosa e ho
avuto un milio-”
“Ehi
sta tranquilla, lo capisco, vai a riposare non voglio che per colpa mia
stramazzi al suolo” lo sentii ridere, non si era offeso.
“Ti
chiamo domani ok? Di alla mamma che sono viva”
“Sarà
fatto. Ciao Jen…”.
Riattaccò
il telefono e pensai che da quella notte e per le altre restanti fino
allo
scadere dei tre mesi estivi il nostro rito della buonanotte non ci
sarebbe stato.
Cavolo quanto mi sentivo sola.
Sbuffai
afflitta e decisi di andare a farmi la doccia prima di cedere al
richiamo del
letto e stavo giusto per salire le scale quando sentii bussare alla
porta.
Mi
bloccai sul primo scalino, indecisa se andare ad aprire o meno
– poteva sempre
trattarsi di un serial killer con un ascia in mano – ma vista
l’insistenza
andai ad aprire.
Per
precauzione afferrai un posacenere in porcellana poggiato su un ripiano
all’ingresso così, se la persona
dall’altra parte avesse avuto brutte
intenzioni lo avrei messo fuori gioco nel giro di due secondi.
“Vengo
in pace” fu la prima cosa che mi sentii dire dal ragazzo
mastodontico
dall’altra parte della porta, “perciò
non credo che ci sia bisogno di usare
contro di me quell’aggeggio” continuò
indicando il sopramobile che era stretto
nella mia mano sinistra.
“Questo
lascialo decidere a me” dissi scrutandolo diffidente, era
davvero massiccio.
Rise.
“Ok,
allora posso fare qualcosa per te?” chiesi.
“A
dire la verità no. Volevo solo avvisarti che ho spostato la
tua auto sul
vialetto, non è sicuro lasciarla abbandonata infondo alla
strada. Spero non ti
dispiaccia” aveva la voce calda e profonda che trasmetteva
sicurezza.
“Oh.
Ti ringrazio anche se dubito che qualcuno sia tentato di rubare quel
vecchio
rottame” la presa sul posacenere iniziò ad
allentarsi, forse avevo tratto le
mie conclusioni con un po’ troppa fretta.
“Io
non ci scommetterei”
Seguì
un silenzio imbarazzante, il genere di situazione in cui odiavo
trovarmi e che
cercavo sempre di evitare parlando di qualsiasi cosa, solo che in quel
momento
il mio cervello era come scollegato e mi sentivo a disagio.
In
seguito capii il perché.
Ero
in uno stato pietoso, appiccicosa di sudore – probabilmente
puzzavo pure – con
i capelli ridotti ad una massa informe mentre davanti a me
c’era un bel
ragazzo, affascinante e dagli occhi di un bel azzurro penetrante che, a
dirla
tutta, mi sembrava di conoscere dopo averlo esaminato attentamente per
diversi
minuti.
“Ci
siamo già incontrati per caso?” domandai.
Lui
corrugò la fronte come se non si aspettasse una domanda del
genere poi però
sembrò riacquistare fiducia.
“Non sei mai
venuta a letto con me se è questo
che intendi” Cosa?
Sbarrai
gli occhi e iniziai a balbettare frasi senza senso. Il ragazzo
scoppiò a ridere
in una risata fragorosa.
“Calmati,
ti sto solo prendendo in giro!” esclamò alzando le
mani per discolparsi, “tu
dove pensi di avermi già visto?” improvvisamente
tornò serio e quel suo modo di
fare andò a solleticare delle zone remote nella mia testa.
“Non
lo so, probabilmente ti starò scambiando per qualcun altro,
anche se…”
Capelli
color grano non troppo corti pettinati all’indietro , labbra
sottili, occhi assorti
e profondi di quel colore così particolare, dove gli avevo
già visti?...
E
poi finalmente associai la sua immagine a quella di un ragazzino di
tredici
anni che se ne stava sempre seduto sotto un grosso albero a disegnare.
A me
piaceva stargli vicino e vedere le sue bozze; era bravissimo, i suoi
occhi
sembravano cogliere qualsiasi piccolo dettaglio di ciò che
lo circondava.
Avevo
provato anche io a creare qualcosa ma i risultati erano decisamente
diversi.
“Non
è vero questo è bello” rispose lui
recuperando il disegno che avevo appena buttato via.
“Ha gli
occhi troppo grandi e le
orecchie a punta” brontolai.
“Beh,
perché magari è un elfo” disse lui
paziente.
“No, era un
cane” mi imbronciai ancora
di più, “non disegnerò mai come te,
preferisco scrivere le mie favole in quello
sono più brava io” a dieci anni sapevo essere
molto competitiva.
“Lo
so” mormorò distratto mentre faceva
scorrere la matita con maestria sulla carta, “puoi alzare un
attimo la testa?”
“Perché?”
“Tu fallo e
basta”
Ancora contrariata
eseguii i suoi ordini
e aspettai che smettesse di osservarmi.
“Che cosa
stai facendo?” chiesi
sporgendomi verso di lui per curiosare.
“Te lo
farò vedere solo quando sarà
finito” disse lui coprendo il foglio.
Sbuffai.
Perché dovevo sempre aspettare
per vedere i suoi disegni?
“Hai finito
adesso?” sbottai cinque
minuti dopo durante i quali aveva continuato a squadrami.
“No, Jen.
Non muoverti!” mi ammonì.
“Uffa!”
Per i successivi
minuti dovetti restare
immobile ad annoiarmi come non mai.
“Damien,
andiamo a giocare al faro?
Grant e Paige saranno già lì”
“Ho quasi
finito, devo solo…” fece degli
strani movimenti con la matita e dopo aver sfumato in alcuni punti
sorrise
soddisfatto.
“Posso
vederlo?”
“Si”
Sollevò il
foglio e il suo sorriso si
allargò ancora di più di fronte alla mia
espressione sbigottita. Aveva appena
fatto il mio ritratto, una riproduzione troppo identica ed accurata per
essere
quella di un semplice ragazzino.
“E’
bellissimo” sussurrai.
“Forse
perché sei carina tu” disse lui facendo
l’occhiolino. Io avvampai imbarazzata.
“Ehm…si,
forse…”
“E’
tuo, so che domani torni a Boston e visto
che quest’anno non festeggi qui il tuo compleanno ho pensato
che dovevo farti un
regalo prima” mi scompigliò i capelli.
“Grazie. Mi
piace tanto” sorrisi e gli diedi
un bacio frettoloso sulla guancia.
“Ora devo
andare, devo fare gli esercizi
di grammatica con tuo nonno, vi raggiungo più tardi al
faro…”
“Va
bene” risposi io arrotolando il mio regalo
per evitare che si sgualcisse, “a più
tardi”.
E poi il ragazzino
corse verso la casa di
fronte a quella del nonno, la casa dei Conant…
“In
carne ed ossa, Jennifer Jones”
**
Primo
capitolo della mia prima fan fiction scritta in solitudine (ne ho in
corso
un'altra ideata insieme a due mie amiche). Che dire, sto pubblicando in
un
momento un po’ particolare della mia vita ma almeno mi tengo
impegnata con
qualcosa! Questo capitolo sarebbe dovuto essere molto più
lungo, forse troppo,
così ho deciso di dividerlo…il resto
sarà nel prossimo che se tutto va bene
dovrei pubblicare – incrociamo le dita – entro la
fine della prossima
settimana.
E
niente,
lo so che è un po’ seccante come primo capitolo
perché non succede niente di
niente, a parte l’apparizione di Damien (che si materializza
in Chris Hemsworth
nella mia testa mentre Jennifer me la immagino esattamente come
Jennifer Lawrence)
però spero comunque che vi sia piaciuto e ringrazio in
anticipo tutti coloro
che leggeranno, che commenteranno e che aggiungeranno la storia fra le
preferite!
Baci, Noemi <3