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Autore: xnephilm    30/05/2012    4 recensioni
"Damien si era addormentato sul divano, la bocca leggermente aperta e la testa poggiata sulla spalla. Il suo respiro profondo e regolare era una melodia rilassante che mi tranquillizzava. Distolsi per un attimo lo sguardo dal libro che stavo leggendo e gli lanciai uno sguardo veloce senza riuscire a trattenere un sorriso affettuoso.
Quando riposava e si lasciava i problemi del suo mondo misterioso alle spalle, i tratti del viso si distendevano così tanto da permettermi di rivedere fra la barba sfatta e quelle piccole rughe d’espressione che tanto mi piacevano, il Damien della mia infanzia. Improvvisamente mi resi conto di quanto quell’immagine così spensierata e rilassata non rispecchiasse pienamente quella dipinta sul suo volto di ogni giorno. Per quel poco in cui avevamo vissuto sotto lo stesso tetto avevo imparato a riconoscere ogni suo piccolo cambiamento d’umore, da quando era contrariato o soddisfatto per qualcosa, a quando si svegliava con il piede sbagliato o inspiegabilmente allegro ma, oltre quella piccola lista di ovvietà, vedevo dominare nei suoi occhi, in quei profondi occhi celesti e lucenti così tanta tristezza e malinconia da stordirmi. Spesso l’avevo ritrovato da solo sul portico, seduto sul vecchio divano di vimini a guardare l’ignoto, smarrito in chissà quali riflessioni. Non l’avevo solo immaginato quel giorno in spiaggia, era realmente un uomo tormentato e io non sapevo da che cosa o il perché."
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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E non so, potrei toccare il fondo ma forse alla fine di questa strada potrei trovare una traccia di me. Per cui non mi preoccuperò dei miei tempi, voglio farlo per bene. Niente confronti, seconde possibilità, no, non questa volta…

 

Partenza – Capitolo 1

 

E

ra più di un quarto d’ora che provavo a comprimere la sproporzionata quantità di abiti – tutti   necessari ed indispensabili – in modo da permettere alla cerniera della mia enorme valigia blu elettrico di chiudersi, inutile dire che più ci provavo più mi sembrava di allontanarmi dall’obiettivo.
Solo dopo aver dato fondo a tutta l’energia possibile ed immaginabile ed un bagno di sudore non indifferente, riuscii nel mio scopo concludendo il tutto con un sospiro di sollievo.
Per un attimo infatti, avevo temuto di dover tirare daccapo tutto fuori e decidere di eliminare gli oggetti superflui come il peluche a forma di panda che conservavo gelosamente da quando ero bambina o il mio set di maglioni. Va bene, era estate e allora?
Per fortuna la buona sorte era stata almeno per una volta dalla mia parte, tutto era andato secondo i piani e anche se sembrava che la valigia sarebbe saltata in aria da lì a qualche minuto, la trascinai giù dal letto fino a posizionarla lateralmente rispetto alla porta della mia camera ormai quasi del tutto spoglia tranne che per qualche libro impolverato sulle mensole, un salvadanaio vuoto e un centinaio di foto scattate ai tempi del liceo e al college che ritraevano me e i miei amici in vari momenti della vita, appese alla parete dietro il letto.
Avrei voluto portare anche quelle con me, ma alla fine il buonsenso aveva prevalso sul sentimentalismo e così avevo deciso di lasciarle lì dove avrebbero dovuto stare, dopotutto andavo via solo tre mesi non per sempre. Anche se avrei voluto fosse così.
Mi diressi in bagno stando ben attenta a non fare rumore e a non svegliare nessuno in casa, perché ovviamente, dovevo ridurmi all’una della notte prima della mia partenza per finire di preparare i bagagli.
In corridoio sentii delle voci provenire dal piano di sotto, distinguendo fra quelle di uno stupido programma alla televisione, la voce isterica di mio fratello che parlava frenetico al cellulare.
Supposi stesse litigando con la sua ragazza, Melanie, una tipa tutta tette, unghie smaltate di un rosa ai limiti dell’accecante, ovviamente bionda e con un’abbronzatura così finta da poter azzardare a dire che se l’avesse vista la popolazione della Cina si sarebbe indignata e sentita punta nell’orgoglio.
Ormai erano più di cinque mesi che lei e David andavano avanti in quel modo: litigavano, si riappacificavano poi uscivano insieme e puntualmente o l’uno o l’altra a turno si accusavano di qualcosa, non necessariamente grave.
Chissà perché stavano ancora insieme.
Scossi la testa ed entrai in bagno in punta di piedi chiudendo la porta a chiave. Pace.
Aprii il rubinetto della vasca lasciando scorrere l’acqua calda mentre con l’altra mano aggiungevo del bagnoschiuma al profumo di rosa.
Prima di immergermi in quelle calde acque rilassanti, mi concessi un rapido sguardo nello specchio e ciò che mi si presentò davanti non mi piacque affatto.
I capelli color del grano ricadevano lateralmente legati in una lunga treccia scomposta incorniciandomi il viso, tondo e ancora leggermente arrossato per lo sforzo compiuto qualche minuto prima.
Continuai a scrutare con fare critico le profonde occhiaie che da qualche tempo avevano preso residenza sotto i miei occhi blu dalle venature verdi, segno evidente che avrei dovuto allontanarmi per un po’ dalla vita caotica che conducevo lì a Boston, stare un po’ da sola e cercare di capire di cosa fare della mia vita ora che avevo una laurea da sventolare ai quattro venti.
Increspai le labbra e tornai ad esaminarmi la faccia con occhi stanchi, critici, tanto da farmi distogliere lo sguardo prima che fossi riuscita a darmi fuoco solo guardandomi attraverso il vetro.
Non ero sempre stata così, a diciassette anni avevo un’altra considerazione di me stessa, mi piacevo e piacevo agli altri, ero sicura di qualunque cosa facessi o dicessi senza preoccuparmi troppo di ciò che il resto del mondo avrebbe pensato, amavo anche mettermi in gioco e spesso mi cacciavo in cose più grandi di me.
Purtroppo, sei anni dopo, all’età di ventitré anni suonati, tutte quelle belle caratteristiche sembravano essere svanite nel nulla, vaporizzate, lasciando solo un involucro imbottito di sogni irrealizzati e di malessere che riversavo nel mio aspetto.
Ormai quando mi guardavo, non facevo altro che provare rabbia nei confronti di me stessa per non aver ascoltato la saggia vocina nella mia testa che di tanto in tanto tornava a farmi visita urlandomi contro di essere stata una stupida. Come darle torto.
Perlomeno sapevo a chi affibbiare tre quarti della colpa per aver ridotto il mio stato d’animo a poco più di un mucchietto di polvere. Robert Jones, mio padre.
Da quando aveva abbandonato me e mia madre per una sua studentessa del corso di lettere, un anno più piccola di me e quindici meno di lui, era come se avessi creato una barriera attorno a me, per proteggermi da tutto e tutti.
Avevo rinunciato a prendere la laurea in giornalismo alla Brown e mi ero accontentata di seguire i corsi a sociologia, in primo luogo perché mio padre insegnava lettere e sarebbe diventato il mio insegnate se solo non avessi voluto stargli il più lontano possibile.
Secondo, le voci si diffondevano in fretta e l’ultima cosa che gradivo era ricevere occhiate furtive, additamenti e risatine gratuite durante la lezione, per il semplice fatto di essere sua figlia.
Mia madre, che aveva assestato il colpo meglio di quanto lo avessi fatto io, aveva suggerito di spostarmi a New York o in qualsiasi altra città con un’università pur di non permettermi di rinunciare a quello che avrei tanto voluto diventasse il mio futuro ma con il suo stipendio da pasticciera non era in grado di sostenere tutte le spese che comportava il vivere lontano da casa, così le avevo mentito dicendole che non m’importava, che sociologia era il mio piano di riserva.
Per due anni la nostra vita trascorse tranquilla anche se con qualche difficoltà iniziale che svanì
il giorno in cui Susan conobbe Steve. Da quel momento in poi le cose ritornarono al posto giusto.
Il loro incontro fu piuttosto insolito, non di certo adatto a spianare la strada verso una relazione solida e sincera.
Mia madre aveva tamponato accidentalmente la sua auto mentre usciva in tutta fretta – e trionfante – dal tribunale, dove vi aveva trascinato mio padre per impedirgli di ridurre la somma da destinarci per gli alimenti.
L’euforia per la vittoria ottenuta e il suo essere irrimediabilmente distratta aveva fatto si che la sua Chevrolet vecchio modello si scontrasse con la BMW tirata a lucido del suo futuro compagno.
Steve Moore faceva il dentista, diceva che aveva scelto quel mestiere perché amava vedere la gente sorridere perciò quando era poco più che un poppante aveva stabilito che la sua missione nel mondo fosse quella di rendere perfetti i denti di adulti e bambini. L’avevo trovata una cosa talmente strana da sembrare persino accettabile.
Steve era un tipo simpatico e se non avesse avuto fortuna come medico sicuramente avrebbe potuto intraprendere la carriera di comico, non perché si mettesse d’impegno nel far ridere ma perché era qualcosa che gli veniva spontaneamente. Certo, sapeva anche quando era il momento di essere seri e contenuti ma amavo il modo in cui metteva di buon umore mia madre.
Anche lui aveva un figlio, David, un anno più piccolo di me che gli assomigliava in modo spudorato eccetto che per il fisico: era dieci centimetri più alto e molto più magro e allenato.
Possedeva un paio di grandi occhi verdi, capelli castani e un paio di fossette che lo rendevano impossibile da odiare.
Ed infatti, nonostante per i primi tempi mi sentissi violata nella mia privacy essendo sempre stata figlia unica senza alcun rimpianto, io e David avevamo immediatamente stretto amicizia fino a rafforzare il nostro rapporto tanto da cominciare a considerarci davvero fratelli. Ecco perché non lo presentavo mai come il mio fratellastro.
Perciò dopotutto mi reputavo piuttosto soddisfatta della piega che aveva preso la mia vita nel corso di quei sei anni, peccato che ormai avessi sprecato tutte le occasioni che mi avrebbero permesso di realizzare i miei sogni e modificato radicalmente il mio carattere per colpa di mio padre, quello bastardo.
Scossi la testa per evitare che la rabbia nei suoi confronti tornasse a montarmi dentro come un uragano e ritenni fosse più saggio immergermi nella vasca da bagno.
L’acqua calda fu un toccasana in grado di annegare ogni pensiero, ogni preoccupazione , in quel tripudio di schiuma e sali da bagno profumati lasciando la mia mente sgombra da qualsiasi cosa non riguardasse la mia imminente partenza.
Avevo deciso di allontanarmi da casa solo un paio di settimane prima nonostante l’idea aleggiasse nell’aria da molto più tempo.
Era cominciato tutto quando, una fresca sera d’aprile mentre mi trovavo in biblioteca alle prese con la preparazione di un esame che mi stava perseguitando da mesi, ricevetti la telefonata di mia madre, quella in cui mi spiegava con la voce incrinata dal pianto che il nonno era morto d’infarto.
Ricordavo ancora quanto ero stata triste nei giorni successivi, non riuscivo a credere che nonno Edward se ne fosse andato, così, all’improvviso, senza lasciarmi la possibilità di salutarlo per l’ultima volta.
Ero molto affezionata a lui, mi aveva trasmesso la passione per la scrittura e ogni volta che in estate andavamo a trovarlo nella sua piccola casa a Cape Elizabeth, nel Maine, mi regalava un libro di racconti o romanzi d’avventura.
Talvolta quando ero bambina per farmi addormentare mi recitava a memoria alcuni versi delle sue poesie, quelle che gli piaceva scrivere nel tempo libero rinchiuso nel suo studio ma che erano troppo complicate per la mente di una ragazzina anche se io continuavo ad ascoltarlo incantata finché le palpebre non diventavano talmente pesanti da vincere contro la curiosità.
Al termine dell’estate andare via da quel posto era sempre una tragedia, adoravo stare in quella casa più di ogni altra cosa e il nonno lo sapeva e con immensa sorpresa mia e di mia madre nel testamento, fra le sue ultime volontà era scritto nero su bianco che la casa e tutto il suo contenuto erano stati lasciati a me, la sua unica nipote.
L’avevo rifiutata, non la volevo ora che mio nonno era morto, non sarebbe stata la stessa cosa senza di lui e inoltre troppi ricordi si sarebbero affollati nella mia testa, non ero ancora pronta.
Mia madre la pensava diversamente, insisté affinché prima di decidere se metterla in vendita o tenerla andassi almeno a vederla. Non fui molto convinta di quella proposta ma acconsentii comunque, anche perché David non aveva smesso nemmeno per un secondo di ripetermi di quanto quella fosse la scelta più saggia.
Fu proprio grazie a lui che decisi di trasferirmi lì e di fare di quel posto “la casa del nuovo inizio” come gli piaceva chiamarla; sapeva cosa avevo passato e ciò a cui avevo rinunciato perciò secondo lui trascorrere il periodo estivo in quella città avrebbe potuto aiutarmi a ritrovare me stessa.
Lo avevo preso in giro insinuando che quella era solo una tattica per levarmi dai piedi e impossessarsi della mia camera, ma dopo intere giornate – e nottate – passate a riflettere mi era sembrata una buona idea.
Perciò eccomi lì pronta a partire per il Maine piena di buoni propositi, chissà magari la fortuna era realmente dalla mia parte.
Una sfilza ben fornita d’imprecazioni mi riportarono alla realtà.
David finalmente aveva preso in mano le redini della situazione e stava informando in modo abbastanza colorito alla sua ragazza, l’imminente fine della loro disastrosa storia d’amore.
“E questa volta è finita per davvero! Non cercarmi, non inviarmi messaggi e soprattutto smetti di comportarti da troia con qualsiasi altro ragazzo per farmi ingelosire, non serve più!”

Interruppe la chiamata con uno sbuffo e tornò in camera sua sbattendo la porta. In casa regnò nuovamente il silenzio.
Controllai l'orario sul display del cellulare: le due del mattino, ovvero, era arrivato il momento di andare a dormire e di concludere il bagno caldo che cominciava a raggrinzire la pelle delle mani come quella di una vecchia signora.
Mi tirai su e avvolsi il corpo gocciolante con un asciugamano, strinsi i capelli fradici in modo che l'acqua in eccesso scivolasse via e gli asciugai alla meglio per non infastidire nessuno con il rumore del phon.
In bagno si era creata una coltre di vapore tiepido tanto che quando aprii la porta, l'impatto con l'aria fredda del resto della casa mi fece rabbrividire.
Rientrai nella mia stanza il più rapidamente possibile, imprecando mentalmente contro David per aver lasciato aperta la finestra infondo al corridoio.
Sapevo per certo che fosse stato lui visto il suo accanimento nel fumare sigarette, soprattutto la notte e vicino quella dannatissima finestra.
M'infilai il pigiama in cotone di Victoria's Secret che mi aveva regalato la mia migliore amica Leslie per Natale, se così potevano considerarsi una canotta e un pantaloncino striminzito,  e mi accucciai sotto le lenzuola leggere in attesa che il sonno arrivasse.
tum-tumtum
Un suono sordo provenne dalla camera accanto. Era David che evidentemente si era accorto di non essere l'unico nottambulo della casa e che mi augurava la buonanotte.
Aveva sempre fatto così, fin dal primo giorno che avevamo cominciato a vivere sotto lo stesso tetto. Era un metodo che utilizzava quando rientrava a tardi a casa e io ormai ero già chiusa nella mia camera a leggere un libro o a chiacchierare al cellulare con le amiche e alla fine avevo finito con l'imitarlo. Era diventato una sorta di rituale della sera.
Chiusi il pugno e lo scontrai contro il muro, ricambiando il gesto.
tum-tumtum
"Buonanotte Dave"
pensai e poco dopo mi addormentai. 

**

 Il mattino dopo arrivò troppo velocemente, mi era sembrato di aver chiuso gli occhi per poi riaprirli qualche attimo dopo. Invece no, la luna era calata lasciando posto al sole che s’infiltrava prepotentemente fra le fessure della persiana creando strani giochi di luce giallastra sulla parete opposta.
Per quel che mi riguardava avevo troppo sonno per lasciarmi condizionare da qualche misero raggio di luce perciò lasciai che la sveglia continuasse a suonare finché non si fosse spenta automaticamente.
Sapevo di avere una tabella di marcia da rispettare ma di certo non sarebbe crollato il mondo se fossi arrivata a  Cape Elizabeth con un’ora di ritardo. Non tutti la pensavano come me evidentemente.
Non ebbi neppure il tempo richiudere gli occhi che nella mia camera fece irruzione David, il quale senza alcun tipo di delicatezza mi tolse le coperte di dosso e tirò su le persiane in modo che il sole accecante potesse impadronirsi dell’intero ambiente.
“E’ ora di alzarsi Jen”
“Perché non mi lasci in pace?” mugugnai cercando di recuperare il lenzuolo finito chissà dove.
“Perché sei in ritardo, a quest’ora dovresti già essere in viaggio” spiegò sedendosi all’estremità del letto.
Stava scherzando ovviamente, la sveglia era appena suonata e a meno che durante la notte non avessi acquisito i superpoteri era praticamente impossibile che fossi riuscita a sbrigarmi con così tanta rapidità.
“Sono le sei e mezza, Dave. Lasciami dormire” brontolai affondando la testa nel cuscino.
“Veramente sono le otto e mezza…” già aveva iniziato a ridere. Spalancai gli occhi.
“Che cosa?” dissi mettendomi a sedere, “non è possibile, ho programmato l’ora ieri, non può es-” affilai lo sguardo e lo puntai contro mio fratello che aveva tutta l’aria di essere il colpevole.
“Diciamo che potrei aver accidentalmente dimenticato di dirti di aver preso le pile della tua sveglia e averle sostituite con un paio vecchio. Scusa.”
In parole povere le pile non avevano retto e dovevano essersi fermate per una manciata d’ore.
“Merda!” esclamai prima di piombare giù dal letto, ok, avrei voluto dormire per un altro po’ di tempo ma non due ore in più.
Aprii l’armadio ormai vuoto tranne che per un paio di pantaloni azzurri e una canotta grigia che avevo escluso dalla valigia e le mie Converse preferite accantonate in un angolo buio nelle profondità del mobile.
Raccolsi tutto e mi fiondai in bagno non prima però di esprimere ciò che provavo nei confronti di mio fratello che per tutto il tempo non aveva fatto altro che ridacchiare.
“Sei un cazzone Dave, dico sul serio…”
“Ti voglio bene anche io sorellona” lo sentii rispondere prima di scomparire in bagno.
Cambiai opinione sulla questione dei superpoteri: in caso di necessità ero davvero in grado di vestirmi e lavarmi più velocemente di quanto impiegassi a fare pipì. Magari sarei entrata nel libro dei Guinness.
Una volta pronta corsi di sotto, entrai in cucina e per poco non travolsi Steve ancora in pantofole e con il segno del cuscino impresso in faccia.
“Scusa!” gridai mentre afferravo una fetta biscottata al volo. Non c’era tempo di spalmare la marmellata. Lui scosse la mano e aprì il giornale alla pagina dello sport come al solito.
“Dave, per favore porti giù la mia valigia?!”

“Cosa ci hai messo dentro, un bisonte?” urlò lui di rimando un attimo dopo.
Dieci minuti più tardi la mia famiglia era riunita sul vialetto per salutarmi e darmi le ultime raccomandazioni, specialmente mia madre che mi fece giurare di chiamarla durante il viaggio e una volta arrivata a destinazione e prima di andare a dormire.
“Non ho più dodici anni, so badare a me stessa mamma” le dissi sciogliendo l’abbraccio in cui ci eravamo strette.
“Tu per me avrai sempre cinque anni” rispose lei accarezzandomi il viso. Sbuffai fingendomi contrariata ma in realtà mi piaceva ancora essere considerata la sua bambina, mi faceva sentire meno in colpa ogni volta che dormivo con lei dopo essere rimasta terrorizzata da un film horror  i giorni in cui Steve era fuori per lavoro.
“Fa’ buon viaggio” mi augurò quest’ultimo scompigliandomi i capelli già spettinati per natura.
David era rimasto in silenzio, sorridendomi incoraggiante ogni volta che incrociavo il suo sguardo, anche se prima che entrassi in macchina mi corse incontro stringendomi forte fra le braccia.
“Stai attenta Jen. Mi mancherai.”
“Promettimi che verrai a trovarmi ogni tanto, non mi va di stare sola tutto il tempo” dissi affondando il viso nella sua felpa.
“Sta tranquilla sarò sempre fra i piedi” mi rassicurò dandomi un colpetto sulla spalla.
“Adesso devo andare…”
“Credo proprio di si”
Ci lanciammo un ultimo sguardo in segno di saluto e solo dopo aver controllato per l’ennesima volta di non aver scordato nulla entrai in macchina e partii.
Raggiungere Cape Elizabeth fu più difficile di quanto immaginassi, avevo sbagliato strada due volte, c’era stato un incidente fra due camion che aveva bloccato per un’ora abbondante lo scorrimento del traffico e per di più la benzina aveva iniziato a scarseggiare.
Chissà per volontà di quale santo riuscii ad arrivare appena un attimo prima che il motore si spegnesse con un suono secco proprio qualche metro più indietro rispetto al vialetto della mia nuova casa.
Non era esattamente come la ricordavo o forse da ragazzina non avevo mai notato le crepe sulle assi di legno, la vernice scrostata in alcuni punti e gli infissi delle finestre leggermente penzolanti; anche se avessi cambiato idea chi mai avrebbe voluto comprare un posto del genere?
Feci un respiro di rassegnazione che profumava di mare e scaricai dalla mia vecchia Ford blu cobalto la valigia più gli altri quattro borsoni la maggior parte dei quali pieni di cibo e conserve perché mia madre era convinta che lì attorno non esistessero supermercati o botteghe.
Dovevo ammettere però che oltre alla villetta sgangherata del nonno su quel viale ce n’era solo un’altra in condizioni leggermente più decenti, il resto delle abitazioni si trovava sparpagliato qua e la mentre la città vera e propria, Portland, era all’incirca a quindici minuti di auto da dove mi trovavo io.
Osservai la villa dall’altra parte dello sterrato; un tempo ci vivevano i Conant e i loro tre figli, due maschi e una femmina, con cui mi piaceva giocare ma ormai la famiglia sembrava non avere più niente a che fare con quel luogo che sembrava essere uscito da un dipinto.
Tutt’intorno c’erano ettari ed ettari di verdi campi selvaggi punteggiati di fiori finché in lontananza non si riusciva a scorgere il mare e il grande faro che torreggiava la scogliera. Apparte il rumore lontano delle onde e il cinguettio di qualche uccello niente intaccava la quiete del paesaggio. Avevo portato una radio?
Ignorando il suono sinistro che provenne dai gradini di legno del portico quando vi passai sopra, mi feci strada all’interno della casa.
Lì dentro il tempo sembrava essersi fermato, qualsiasi oggetto era rimasto esattamente come il nonno l’aveva lasciato prima di morire, c’era persino una tazza di caffè semi vuota poggiata sul tavolo della cucina vicino ad un quotidiano.
Un fastidioso senso d’oppressione s’impossessò di me e dei miei occhi, lì sentii pizzicare intensamente ma mi ostinai a ricacciare giù le lacrime; negli ultimi anni avevo già pianto abbastanza adesso dovevo solo pensare a riprendere in mano della mia vita.
Cominciai a impadronirmi di quella casa buttando nella spazzatura cibi andati a male e sgombrando gli scaffali che ben presto furono  riempiti dalla mia roba, poi una volta sistemata la cucina mi aggirai per la casa portandomi dietro la valigia.
Ciò che spiccava fra tutto a parte la marea di cianfrusaglie presenti in ogni stanza era l’odore pungente e penetrante d’umidità e chiuso al quale rimediai aprendo tutte le finestre per far arieggiare un po’ l’ambiente.
Entrai in quella che un tempo veniva adibita a mia camera da letto e cambiai le lenzuola. Dovevo ammettere che a me capitavano sempre quelle con la vista migliore, anche a Boston dalla mia finestra si vedeva tutta la città da lì invece si vedeva l’enorme chiazza azzurra dell’oceano Atlantico.
Quel lato della casa si affacciava anche esattamente di fronte all’ormai ex casa Conant dove con mio grande stupore adesso era parcheggiata una jeep rossa.
Corrugai la fronte cercando di ricordare se avessi sentito il rombo di un motore che si avvicinava perché certamente quando ero arrivata non c’era nemmeno l’ombra di quella sottospecie di carro armato. Probabilmente ero stata troppo presa dal mettere in ordine così, scrollai le spalle e tornai a concentrarmi sul resto del lavoro da fare.
A fine serata ero a pezzi, anzi no, non c’erano parole per descrivere il grado di stanchezza che mi travolgeva, volevo solo abbandonarmi su un letto e rimanerci fino al giorno dopo.
Feci una smorfia scocciata al pensiero della giornata successiva. Anche se ero riuscita ad ordinare la cucina e la sala da pranzo, pulire da cima a fondo tutti i pavimenti ed i mobili del pian terreno, rifare il divano e scuotere i tappeti, mi mancava ancora il piano di sopra. Improvvisamente mi sentii più stanca di quanto non lo fossi già.
Squillò il cellulare, sapevo già chi fosse.
David mi aveva perseguitata con messaggi in cui mi chiedeva ogni sorta d’informazione: se fossi arrivata, se stessi bene, se nei dintorni c’erano altre persone, il numero delle finestre in casa e ci mancava persino che mi chiedesse quanta aria avessi respirato fino a quel momento.
Sfinita com’ero l’ultimo dei miei desideri era sottopormi ad un altro interrogatorio ma Dave non si sarebbe arreso così facilmente così preferii rispondere piuttosto che guadagnarmi un feroce mal di testa post squilli continui.
“Pronto?” il lamento che uscì dalle mie labbra sembrava quello di un gatto in procinto di morire.
“Qualcosa mi dice che volevi ignorare la mia chiamata” fu il suo saluto.
“Non lo farei mai” risposi sarcastica, “cosa c’è?”
“Volevo solo sapere com’è andato il tuo primo giorno da donna indipendente” disse e avrei scommesso qualsiasi cosa riguardo al fatto che sulla sua faccia fosse già stampato il suo tipico sorrisetto da piccola peste.
“Terribile. Questa casa sta cadendo a pezzi, ho dovuto pulire qualsiasi cosa!”
“Deve essere stato un trauma per te visto che non sai nemmeno di che forma è una scopa” mi prese in giro.
“Beh, adesso lo so e sembra proprio adatta a scontrarsi contro la tua testa” sbottai acida. Non ero nelle condizioni adatte per sentirmi dire che non ero brava nelle faccende domestiche dopo ore e ore di pulizie.
“E dai Jen scherzavo!”
“Lo so ma sono troppo stanca per darti retta…”
“Ah. Allora ti lascio riposare” sembrava deluso.
“Dave, scusami è che è stata una giornata faticosa e ho avuto un milio-”
“Ehi sta tranquilla, lo capisco, vai a riposare non voglio che per colpa mia stramazzi al suolo” lo sentii ridere, non si era offeso.
“Ti chiamo domani ok? Di alla mamma che sono viva”
“Sarà fatto. Ciao Jen…”.
Riattaccò il telefono e pensai che da quella notte e per le altre restanti fino allo scadere dei tre mesi estivi il nostro rito della buonanotte non ci sarebbe stato. Cavolo quanto mi sentivo sola.
Sbuffai afflitta e decisi di andare a farmi la doccia prima di cedere al richiamo del letto e stavo giusto per salire le scale quando sentii bussare alla porta.
Mi bloccai sul primo scalino, indecisa se andare ad aprire o meno – poteva sempre trattarsi di un serial killer con un ascia in mano – ma vista l’insistenza andai ad aprire.
Per precauzione afferrai un posacenere in porcellana poggiato su un ripiano all’ingresso così, se la persona dall’altra parte avesse avuto brutte intenzioni lo avrei messo fuori gioco nel giro di due secondi.
“Vengo in pace” fu la prima cosa che mi sentii dire dal ragazzo mastodontico dall’altra parte della porta, “perciò non credo che ci sia bisogno di usare contro di me quell’aggeggio” continuò indicando il sopramobile che era stretto nella mia mano sinistra.
“Questo lascialo decidere a me” dissi scrutandolo diffidente, era davvero massiccio. Rise.
“Ok, allora posso fare qualcosa per te?” chiesi.
“A dire la verità no. Volevo solo avvisarti che ho spostato la tua auto sul vialetto, non è sicuro lasciarla abbandonata infondo alla strada. Spero non ti dispiaccia” aveva la voce calda e profonda che trasmetteva sicurezza.
“Oh. Ti ringrazio anche se dubito che qualcuno sia tentato di rubare quel vecchio rottame” la presa sul posacenere iniziò ad allentarsi, forse avevo tratto le mie conclusioni con un po’ troppa fretta.
“Io non ci scommetterei”
Seguì un silenzio imbarazzante, il genere di situazione in cui odiavo trovarmi e che cercavo sempre di evitare parlando di qualsiasi cosa, solo che in quel momento il mio cervello era come scollegato e mi sentivo a disagio.
In seguito capii il perché.
Ero in uno stato pietoso, appiccicosa di sudore – probabilmente puzzavo pure – con i capelli ridotti ad una massa informe mentre davanti a me c’era un bel ragazzo, affascinante e dagli occhi di un bel azzurro penetrante che, a dirla tutta, mi sembrava di conoscere dopo averlo esaminato attentamente per diversi minuti.
“Ci siamo già incontrati per caso?” domandai.
Lui corrugò la fronte come se non si aspettasse una domanda del genere poi però sembrò riacquistare fiducia.
“Non sei mai venuta a letto con me se è questo che intendi” Cosa?
Sbarrai gli occhi e iniziai a balbettare frasi senza senso. Il ragazzo scoppiò a ridere in una risata fragorosa.
“Calmati, ti sto solo prendendo in giro!” esclamò alzando le mani per discolparsi, “tu dove pensi di avermi già visto?” improvvisamente tornò serio e quel suo modo di fare andò a solleticare delle zone remote nella mia testa.
“Non lo so, probabilmente ti starò scambiando per qualcun altro, anche se…”
Capelli color grano non troppo corti pettinati all’indietro , labbra sottili, occhi assorti e profondi di quel colore così particolare, dove gli avevo già visti?...
E poi finalmente associai la sua immagine a quella di un ragazzino di tredici anni che se ne stava sempre seduto sotto un grosso albero a disegnare. A me piaceva stargli vicino e vedere le sue bozze; era bravissimo, i suoi occhi sembravano cogliere qualsiasi piccolo dettaglio di ciò che lo circondava.
Avevo provato anche io a creare qualcosa ma i risultati erano decisamente diversi.

 “Mi arrendo, non ci riuscirò mai!” piagnucolai appallottolando l’ennesimo foglio gettandolo alle mie spalle.
“Non è vero questo è bello” rispose lui recuperando il disegno che avevo appena buttato via.
“Ha gli occhi troppo grandi e le orecchie a punta” brontolai.
“Beh, perché magari è un elfo” disse lui paziente.
“No, era un cane” mi imbronciai ancora di più, “non disegnerò mai come te, preferisco scrivere le mie favole in quello sono più brava io” a dieci anni sapevo essere molto competitiva.
“Lo so” mormorò distratto mentre faceva scorrere la matita con maestria sulla carta, “puoi alzare un attimo la testa?”
“Perché?”
“Tu fallo e basta”
Ancora contrariata eseguii i suoi ordini e aspettai che smettesse di osservarmi.
“Che cosa stai facendo?” chiesi sporgendomi verso di lui per curiosare.
“Te lo farò vedere solo quando sarà finito” disse lui coprendo il foglio.
Sbuffai. Perché dovevo sempre aspettare per vedere i suoi disegni?
“Hai finito adesso?” sbottai cinque minuti dopo durante i quali aveva continuato a squadrami.
“No, Jen. Non muoverti!” mi ammonì.
“Uffa!”
Per i successivi minuti dovetti restare immobile ad annoiarmi come non mai.
“Damien, andiamo a giocare al faro? Grant e Paige saranno già lì”
“Ho quasi finito, devo solo…” fece degli strani movimenti con la matita e dopo aver sfumato in alcuni punti sorrise soddisfatto.
“Posso vederlo?”
“Si”
Sollevò il foglio e il suo sorriso si allargò ancora di più di fronte alla mia espressione sbigottita. Aveva appena fatto il mio ritratto, una riproduzione troppo identica ed accurata per essere quella di un semplice ragazzino.
“E’ bellissimo” sussurrai.
“Forse perché sei carina tu” disse lui facendo l’occhiolino. Io avvampai imbarazzata.
“Ehm…si, forse…”
“E’ tuo, so che domani torni a Boston e visto che quest’anno non festeggi qui il tuo compleanno ho pensato che dovevo farti un regalo prima” mi scompigliò i capelli.
“Grazie. Mi piace tanto” sorrisi e gli diedi un bacio frettoloso sulla guancia.
“Ora devo andare, devo fare gli esercizi di grammatica con tuo nonno, vi raggiungo più tardi al faro…”
“Va bene” risposi io arrotolando il mio regalo per evitare che si sgualcisse, “a più tardi”.
E poi il ragazzino corse verso la casa di fronte a quella del nonno, la casa dei Conant…

 “Damien Conant!” esclamai riemergendo da quel ricordo, “non ci posso credere sei proprio tu!”
“In carne ed ossa, Jennifer Jones”

**

Primo capitolo della mia prima fan fiction scritta in solitudine (ne ho in corso un'altra ideata insieme a due mie amiche). Che dire, sto pubblicando in un momento un po’ particolare della mia vita ma almeno mi tengo impegnata con qualcosa! Questo capitolo sarebbe dovuto essere molto più lungo, forse troppo, così ho deciso di dividerlo…il resto sarà nel prossimo che se tutto va bene dovrei pubblicare – incrociamo le dita – entro la fine della prossima settimana.
E niente, lo so che è un po’ seccante come primo capitolo perché non succede niente di niente, a parte l’apparizione di Damien (che si materializza in Chris Hemsworth nella mia testa mentre Jennifer me la immagino esattamente come Jennifer Lawrence) però spero comunque che vi sia piaciuto e ringrazio in anticipo tutti coloro che leggeranno, che commenteranno e che aggiungeranno la storia fra le preferite!

Baci, Noemi <3

 

  
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