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Autore: rosie__posie    31/05/2012    8 recensioni
Guardò giù, verso il baratro che lo chiamava, e desiderò ardentemente che il salto che stava per compiere non avesse come epilogo l'inevitabile separazione delle loro strade, delle loro vite. L'informazione che tempo prima aveva registrato e catalogato da qualche parte nel suo cervello venne estratta e presentata davanti ai suoi occhi. Per la seconda volta nella vita, dovette lottare contro l'impulso di stringere John Watson al suo petto
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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1
 
Se la ricordava bene la prima volta. Si era impressa in modo indelebile nella sua mente, luogo da cui era certo non sarebbe mai stata sfrattata.
 
-Sì, ma se stesse morendo... Se la stessero uccidendo, nei suoi ultimi secondi cosa direbbe?
 
-"Ti prego Dio, lasciami vivere".
 
-Usi l'immaginazione!
 
-Non ne ho bisogno.
 
Aveva avuto a sua disposizione solo una manciata di secondi per rendersi conto dell’esistenza del problema, analizzarlo, registrarlo, temerlo, prendere atto di questo timore e metterlo da parte. Far finta che non esisteva per poter andare avanti come prima, più o meno. Empatia. Una terribile e inequivocabile empatia nei confronti di John Watson.
 
-"Ti prego Dio, lasciami vivere".
 
Quella manciata di secondi, in cui lo aveva guardato negli occhi, era stata sufficiente per far scattare qualcosa.
 
Ti prego Dio, non ora
 
Non l’avrebbe mai dimenticata, la prima volta in cui aveva provato l’impulso, o il desiderio, di abbracciare John Watson.
 
Ma lo splendido cervello di Sherlock, elegante come una Bentley e scattante come una Ferrari, funzionava a compartimenti stagni: aveva impacchettato e catalogato quell’idea, quel problema, o quell’informazione come preferiva chiamarla, da qualche parte in uno di quei compartimenti ed era andato avanti. Dove rimase, a disposizione del suo eccentrico proprietario, nel caso gli fosse tornata utile in seguito.
 
Cosa che, effettivamente, accadde.
 
2
 
-I tuoi amici moriranno se non lo farai.
 
-John?
 
Ti prego Dio, lascialo vivere
 
Non lo disse, ovviamente. Si limitò a pensarlo e a tirare di nuovo in causa quel Dio, ringraziandolo sorprendentemente di avergli fatto trovare la forza di non dischiudere le labbra per dar voce ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti (oh, come appariva strano il suono di quella parola associato a se stesso), in presenza di quel Diavolo al cui cospetto si era ritrovato in quegli attimi destinati a cambiare, forse per sempre, la sua vita.
 
-Tieni gli occhi fissi su di me…
 
…amore mio…
 
Non disse nemmeno questo, poco dopo. Si limitò, in una frazione di secondo, a immaginarsi come sarebbe stato se avesse pronunciato quelle parole ad alta voce. Sicuramente, avrebbero avuto un suono leggiadro, piacevole, persino attraente; uno di quei suoni che una persona avrebbe desiderato ascoltare ancora e ancora, all'infinito. Come un Notturno di Chopin suonato bene.
 
Guardò giù, verso il baratro che lo chiamava, e desiderò ardentemente che il salto che stava per compiere non avesse come epilogo l'inevitabile separazione delle loro strade, delle loro vite. L'informazione che tempo prima aveva registrato e catalogato da qualche parte nel suo cervello venne estratta e presentata davanti ai suoi occhi. Per la seconda volta nella vita, dovette lottare contro l'impulso di stringere John Watson al suo petto, smosso dalla bramosia di ascoltare da vicino il suono del battito del suo cuore, sentire l'odore della sua pelle, o il profumo dei suoi capelli.
 
Ma questa volta non registrò, né archiviò quell'informazione. Decise di lasciarla lì dov'era, nella sua mente, in modo da poterla avere sempre con sé, davanti agli occhi, vicino all’anima. Sarebbe stato l'ultimo anello della catena che lo legava a John e voleva che il suo cuore potesse cullarsi per sempre in quel fiume denso di memoria, quando sarebbe stato solo, durante le giornate d’inverno umide e fredde, o nei pomeriggi d’estate lunghi e torridi. Il ricordo del viso di John, dei suoi lineamenti, dello sguardo fisso nei propri occhi, lo avrebbe aiutato a prende sonno nelle notti che lo aspettavano e che ancora non sapeva dove sarebbero state trascorse.
 
Il desiderio non realizzato di stringerlo a sé sarebbe stata, a Dio piacendo, la spinta che gli avrebbe permesso di andare avanti.
 
3
 
Si era trasformato nel vecchietto intento a leggere i giornali senza comprarli all’edicola sotto la fermata di Baker Street, nell’inserviente anonimo e un po’ maldestro che tutti notavano ma senza vedere realmente da Tesco, o nello scialbo vedovo che tutti i giorni portava una rosa rossa su una tomba vicina, al cimitero. Tutto pur di riuscire a strappare anche due soli minuti alla vita da clandestino in cui si era rifugiato e potersi riempire gli occhi di John. Del suo John.
 
Una mattina si era svegliato di soprassalto ed era caduto nel panico, il cuore che martellava senza sosta nel centro del petto, il sangue raggelato nelle vene. Di che colore erano gli occhi di John? Di quale tonalità esatta di azzurro?
 
Ti prego Dio, non lasciare che dimentichi il colore dei suoi occhi o la dolce piega del suo labbro inferiore
 
Una fotografia. Perché accidenti non aveva una fotografia di John, con sé? Semplicemente perché non ne aveva una nemmeno nella sua vecchia casa, la loro casa. Non ne aveva mai sentito il bisogno di fargli, o farsi, una fotografia. Fotografie: quale stupido e noioso hobby della gente comune. Eppure, ora come ora, avere una stupida e noiosa fotografia di John da tirare fuori da un cassetto o dal portafoglio – ebbene sì, dal portafoglio; come una madre ansiosa o una ragazzetta alla sua prima cotta – gli pareva che potesse conferire un senso di completezza alla sua esistenza.
 
Sospirò e si voltò su un fianco. Con una mano, prese il cuscino e con l’altra assestò nel mezzo un paio di pugni, prima di reclinarci sopra la testa. La tela della federa era fresca a contatto della pelle della sua guancia. Chiuse gli occhi, si umettò le labbra con la lingua e cercò di immaginarsi come sarebbe stato se quel giorno, il primo giorno, avesse ceduto all’impulso di abbracciare John. Sarebbe stato diverso?
 
4
 
John ci andava tutti i giovedì da Tesco. Preciso come un orologio, puntuale come un treno svizzero. Alle 13.30 usciva dall’ambulatorio, scendeva sotto la fermata della metro e alle 13:40 le porte automatiche di Tesco si chiudevano dietro di lui, silenziose, affidabili.
 
Normalmente, Sherlock avrebbe considerato tutto questo di una noiosità delirante, ma ora, nella sua situazione, nella loro situazione, sapere dove e quando trovarlo rendeva ogni cosa più rapida e indolore.
 
I primi mesi lo aveva seguito da lontano, tra i diversi corridoi del supermercato, limitandosi ad accarezzarlo solo con lo sguardo. Gli bastava. Doveva bastargli. Poi, con il passare del tempo, era diventato sempre più avido, peccando di nuovo di bramosia. Guardarlo non gli era più sufficiente. Voleva parlargli, desiderava disperatamente anche solo dischiudere appena le proprie labbra per pronunciare una o due sillabe. E magari deliziare i propri timpani con la replica della voce vellutata di John. Qualsiasi cosa. Anche un irritante Levati dalle scatole sarebbe stato gradito.
 
Ti prego Dio, lasciami udire ancora una volta il suono delle sue parole
 
Sbam!
 
-Oh, mi dispiace, signore. Sono desolato. Davvero desolato.
 
Corridoio numero 5, reparto cereali. Il cestino di John era a terra, assieme a tutti gli articoli che solo un attimo prima conteneva. The, zucchero, latte a lunga conservazione, una vaschetta di carne bovina. Più uno svariato numero di scatole di cereali sparse qua e là.
 
Il dottore si accovacciò a terra per raccogliere i prodotti, prestando scarsa attenzione all'inserviente che lo aveva urtato distrattamente alle spalle mentre era intento a scegliere una confezione di cereali per la colazione. I carrelli degli altri avventori andavano e venivano accanto a loro.
 
-Lasci stare, nessun problema.
 
-Sono davvero desolato.
 
Anche l'inserviente si accovacciò accanto a lui, aiutandolo a riporre gli articoli nel cestino. John teneva lo sguardo fisso a terra, la mente lontana. Non lo alzò nemmeno per un secondo. Tutto ciò che vide dell'altro uomo furono le sue scarpe nere e i risvolti dei pantaloni grigi.
 
Quello che l'inserviente vide fu tutto, invece. I suoi occhi normalmente di ghiaccio si riempirono e riscaldarono dei biondi capelli di John, non potendo fare a meno di notare come si stavano pian piano allungando; del suo naso leggermente all'insù; persino della curva delle sue orecchie, a cui desiderava ardentemente accostare le proprie labbra per sfiorarle in una sensuale carezza appena accennata; per non parlare della sua bocca sottile, su cui si sarebbe gettato con tutto l'impeto del suo corpo per rubare un bacio, o anche solo un frammento del suo respiro.
 
Per la quarta volta, dovette piegarsi e resistere all'impulso di attirare John a sé per abbracciarlo e stringerlo fino a quando il respiro sarebbe venuto meno.
 
-Ho detto che non c'è problema.
 
La realtà, di nuovo.
 
Un attimo dopo, i prodotti erano tutti nel cestino, John in piedi e il goffo inserviente girato di spalle, intento a riporre le rimanenti scatole di cereali in bella mostra sullo scaffale.
 
-La cassa automatica numero 7 è stata riparata. Può usarla tranquillamente, oggi. Senza litigarci…
 
John era già arrivato alla testata del corridoio, cestino infilato al braccio piegato, quando si voltò indietro, perplesso. L'inserviente era sparito.
 
5
 
Il giaccone logoro e di due taglie più grandi non gli dava fastidio. Così come il bastone, le scarpe un po’ sformate vecchie di chissà quanto o la coppola abbassata sugli occhi. Ciò che gli dava fastidio era il pesante trucco che aveva sul viso e che aveva lo scopo di farlo sembrare un anonimo vecchietto come se ne incontrano tanti sotto la metropolitana.
 
Gli dava fastidio perché gli sembrava di essere un Tom Cruise troppo alto nel remake cinematografico di quella famosa serie TV degli anni Settanta. Odiava i remake. Li paragonava più che volentieri a contrazioni dello sfintere e li trovava inutili e noiosi. Come la maggior parte dei programmi televisivi o delle opere cinematografiche, del resto.
 
Ciononostante, gli consentiva di seguire John alquanto indisturbato e ciò bastava per accettarlo.
 
Il dottore scendeva puntuale le scale della fermata di Baker Street ogni mattina alle 07:45 e si fermava a comprare il Times all’edicola di fianco alle casse automatiche. Dove Sherlock lo aspettava sempre, la schiena strategicamente rivolta ai pendolari che si affrettavano verso i binari, il capo chino su giornali e riviste.
 
John lo aveva sempre visto, ma non lo aveva mai notato. Faceva parte dell’arredamento asettico della Tube, assieme ai cartelloni pubblicitari scorrevoli e alle obliteratrici. E a Sherlock andava bene così.
 
John scambiava sempre un paio di parole sul tempo con l’edicolante, prima di infilarsi il quotidiano sotto il braccio e di ripartire verso i treni, ogni giorno immerso nei suoi pensieri e nella monotonia della sua solitudine.
 
E quando il dottore si allontanava dall’edicola, Sherlock iniziava a tallonarlo verso la Jubilee. Camminava con fare incerto e stanco, talvolta persino zoppicando leggermente.
 
Un giorno un bambino gli allungò una moneta da 1 sterlina, corredando il gesto con un bel sorriso. Sherlock era stato costretto a fermarsi, cosa che lo irritò alquanto.
 
-Cosa credi che possa farci, oggigiorno, un adulto con una sterlina?-, sibilò.
 
Il bambino si mise a piangere, chiamando la madre, che lasciò perdere le riviste di cucito e si precipitò subito in suo soccorso.
 
-Dica a suo figlio di non avvicinarsi più da solo agli sconosciuti in metropolitana. Non è sicuro-, proferì, prima di rimettersi, questa volta con passo spedito – troppo spedito per un anziano – all’inseguimento del dottore, lasciando basiti mamma e bambino a guardarlo.
 
Arrivò alla banchina nello stesso momento in cui il treno rallentava e usciva dalla galleria, leggermente trafelato e sempre più adirato per dover perdere secondi preziosi a individuare John in mezzo alla folla di pendolari che gremiva la banchina.
 
Ti prego Dio, non permettere che lo perda di vista, nemmeno per un minuto
 
Sherlock viveva nel costante timore che se avesse abbassato gli occhi, se avesse abbassato la guardia – anche solo per un attimo, un’ora o un giorno – se avesse consentito al dottore di sgattaiolare fuori dalla sua ala invisibile ma protettiva, gli sarebbe di certo accaduto qualcosa di irreparabile. Proprio quel qualcosa da cui aveva giurato di proteggerlo, il giorno in cui aveva avuto la conferma definitiva di essere anche lui, come tutti, in possesso di un cuore.
 
Quando il treno si arrestò, i suoi occhi individuarono il viso di John una carrozza più in là. Adottando nuovamente il falso incedere zoppicante, Sherlock si fece strada tra la gente, mormorando scuse frettolose e assai poco sentite. Un attimo dopo, le porte si chiusero dietro le sue spalle. Sospirò e intimò al suo cuore di riprendere le normali pulsazioni.
 
Un uomo di mezza età dai capelli brizzolati e ben vestito, con tutta probabilità un impiegato della City, gli lasciò il posto con un educato Prego, signore, mandandolo così a sedere di fronte a John, un paio di sedili più in là. Sherlock si accomodò con un cenno meccanico del capo, in segno di riconoscenza.
 
Scuse e ringraziamenti: quella giornata era decisamente iniziata male. Alzò il bavero del giaccone e abbassò ancora di più la visiera sugli occhi, mentre lo sguardo si posava con fare amorevole su John, seduto a un metro e mezzo da lui, intento a leggere le notizie del mattino.
 
Solamente un metro e mezzo a separare due mondi che giravano all’unisono su binari paralleli. Sarebbe stato più sensato da parte sua trascorrere il resto del tragitto tenendo anonimamente il capo chino, ma non ci riuscì. Doveva colmare i propri occhi di John, riempirsi cuore e anima. Era un bisogno vitale, spirituale, carnale.
 
Sherlock si ritrovò a trattenere il respiro, mentre gli altri occupanti della carrozza svanivano pian piano, lasciando spazio solo a loro due. E il suo sguardo indugiava dolcemente e silenziosamente sulle guance di John, la sua bocca, il suo mento, il suo collo. Adorava il suo collo, soprattutto quando abbandonava quegli insopportabili maglioni oversize per far posto alle più accettabili maglie leggere dallo scollo largo. Ci sarebbe morto, su quel collo.
 
 Era tutto ciò che gli era rimasto, quel divorare silenzioso in grado di far dilagare emozioni proibite. Non aveva altro, se non piccoli ricordi e una buona dose di rimpianti.
 
Poi, sentì una morsa stringere improvvisamente lo stomaco. Era quell’informazione che di nuovo si faceva viva. Quell’irrefrenabile bisogno fisico di attirare John a sé. E di nuovo dovette dirle di no.
 
-Waterloo. Uscita lato sinistro-, gracchiò l’altoparlante. La fermata di John.
 
Il dottore piegò il giornale e si alzò. Sherlock rimase seduto dov’era, ad aspettare di annusare per una frazione di secondo l’odore della sua pelle, quando gli sarebbe passato vicino per scendere dal treno.
 
Il crampo allo stomaco non accennava ad andarsene. Finiva lì quel suo fare l’amore malinconico e solitario con John, come sempre inesorabilmente troppo breve.
 
Il treno si fermò e le porte si aprirono.
 
E poi accadde. Fu un attimo, una sorpresa, come un battito d’ali di farfalla. Lui che pianificava sempre tutto, che aveva sempre avuto il controllo di ogni cosa, persino della sua morte. Le persone che in vita sua lo avevano giocato si potevano contare sulle dita di una mano. Non avrebbe mai pensato che si sarebbe trovato costretto a incrementare quel numero, prima di morire per la seconda volta.
 
-Ti aspetto a casa, stasera. Stacco alle sei. E piantala con questa pagliacciata.
 
La mancina di John sfiorò appena la spalla di Sherlock, corredando le parole dal tono apparentemente inespressivo e monocorde con uno sguardo rapido ma denso di significato, che penetrò nelle ossa dell’altro e lo costrinsero a voltarsi e a fissare le proprie iridi di ghiaccio nelle sue.
 
 Le porte si richiusero e il treno ripartì.
 
John era scomparso e Sherlock si era d’improvviso ritrovato privato di quella maschera che si era tenuto addosso per troppo tempo.
 
+1
 
-Ho comprato cinese. Non mi andava di presentarmi a mani vuote…
 
Sherlock si sentì un idiota totale a esordire con quelle parole. Aveva tutto da dire; un mondo di scoperte, avventure, conquiste, rimpianti, scuse e amore da raccontare; un mondo che si ammassava nel suo petto e raschiava la gola, incapace di uscire.
 
Eccoli di nuovo assieme, nella penombra vespertina del loro vecchio salotto, rischiarato solamente da un’abat-jour alimentata da una lampadina a basso consumo energetico che rendeva sfocati i loro contorni. Eccoli di nuovo assieme, ostacolati nei sentimenti solo da loro stessi.
 
John fu rapido, e decisamente molto meno clemente della prima volta, quando tirò indietro il braccio prima di colpirlo sullo zigomo. Sherlock barcollò un attimo per la sorpresa e lasciò cadere la busta di carta del take-away. Non era sorpreso. Era pronto. Per quello e per molto peggio. Si portò una mano al viso, sfiorando con il dorso della mano il punto in cui John lo aveva colpito. Tra le lunghe e candide dita di Sherlock, il dottore poté intravvedere alcuni rivoli di sangue.
 
Non capì bene perché lo fece, forse per il meraviglioso brivido di eccitazione che sentì lungo la schiena, ma portò anche lui indietro il braccio e colpì John in viso. Fu un pugno decisamente più leggero di quello che aveva incassato, ma anelava disperatamente con tutto se stesso a un contatto fisico con John, di qualunque natura fosse.
 
Il dottore appoggiò una mano al muro per riprendere l’equilibrio: si sentiva tremare, ma sapeva bene che non era né per il freddo, né per il pugno. Si fissarono un attimo negli occhi, come se fosse la prima volta – o l’ultima – e per un po’ nessuno di loro disse niente.
 
Come in una pellicola degli anni Cinquanta, si ritrovarono l’uno nelle braccia dell’altro, respiro contro respiro, palpitazione contro palpitazione. Non capirono più niente, fatto salvo che avevano bisogno ciascuno di sentire la pelle dell’altro. Le mani andavano da sole. Esploravano, toccavano, slacciavano, carezzavano. E in un attimo i vestiti finirono a terra, mentre loro si ritrovarono a muoversi roteando verso il divano, in una sorta di danza resa un po’ buffa dalla loro goffaggine.
 
Non si baciarono. Non ancora. Fronte contro fronte, labbra contro labbra, ma tutto ciò che pareva a entrambi importante in quel momento era semplicemente rubare il respiro dell'altro, per farne un tutt'uno. Il bacio è un'unione di anime, uno scambio reciproco del proprio io, e loro due, pur essendo compagni d'anima, avevano in quel momento bisogno di arrivarci per gradi.
 
L’aria era densa di elettricità, quasi da temere di saltare in aria al minimo movimento non controllato. Le pareti erano impregnate del profumo di lavanda emanato da una candela lasciata dalla signora Hudson sulla libreria, tra una pila e l’altra di libri del detective che il dottore non aveva mai riordinato; ma ciò di cui le narici di Sherlock erano pervase era solamente il dopobarba di John, che non aveva mai dimenticato.
 
La pelle del divano si appiccicò leggermente alla schiena nuda di Sherlock, nonostante quella non fosse un’afosa serata d’estate.
 
-John…
 
Era seducentemente normale pronunciare di nuovo quel nome ad alta voce.
 
-Forse prima meriteresti una spiega…
 
-Shh…
 
L’indice del dottore, sdraiato su di lui, si appoggiò leggiadro alle labbra di Sherlock, in un silenzioso Non è necessario, non ora, prima di spostarsi sul taglio ancora umido che il suo pugno gli aveva lasciato poco prima su uno zigomo. John si portò poi l’indice alle labbra, assaggiando il sapore metallico del sangue di Sherlock. Il viso dell’uno era ora contro quello dell’altro, occhi negli occhi, i respiri finalmente un tutt’uno, le ciglia che quasi si sfioravano. Sherlock alzò un dito e accarezzò il profilo del collo di John, con la delicatezza riservata normalmente alla pelle di un bambino. Sarebbe morto su quel collo, di nuovo.
 
John era lì, tra le sue braccia. Vivo, reale, questa volta per davvero. Niente più sogni infranti, niente più desideri irrealizzati, né deliri incoerenti.
 
-Solo… stringimi. Stringimi forte. Ho bisogno solo di questo, ora.
 
Le braccia forti di John si avvinghiarono ancor di più alla sua schiena e Sherlock affondò il capo nell’incavo tra collo e spalla, forse creato appositamente per lui da degli dei benevoli.
 
-E non andartene.
 
Le parole furono appena più di un sussurro, che solleticarono il collo di John e lo fecero rabbrividire.
 
-Non me ne vado. Ma non andartene nemmeno tu, però.
 
-Non vado da nessuna parte. Non più.
 
Sussurri e fremiti, c’erano solo quelli. E le labbra di Sherlock che accarezzavano la spalla di John. Era spaventato, lo erano entrambi, in verità. Rimasero così, avvinghiati l’uno all’altro; le loro anime danzavano e bisbigliavano, fino a quando, nella pace ritrovata, non cedettero al sonno. Per tutto il resto, ci sarebbe stato tempo. Una tacita promessa che si fecero i loro corpi.
 
L’ultima cosa che pensò John prima di chiudere le palpebre fu Grazie Dio, per avermi lasciato vivere.
 
 
 
Nota dell’autrice: scritta per il team Fanon (questa splendida immagine del prompt #4) dello Sherlothon dello SFI. Un grazie infinito alla mia soulmate Marica per avermi fatto da musa <3
   
 
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